Vincenzo De Pietro,
Francesco Selvaggi,
Giuseppe Candela,
Domenico Sacchini,
Domenico La Regina,
Giuseppe Ruffo,
furono i membri, che incaricati di diversi uffici, si costituirono in Comitato di
difesa sotto la presidenza del vecchio liberale
Generoso Campolongo, giusta gli ordini che portò da Cosenza il mentovato
Stinca. Cosenza si adoperò immantinenti a raccogliere armi e denaro, e stava
in isperanza che Basilicata avrebbe risposto ai moti insurrezionali di lei. Il Circolo,
come che formato di giovani, se ne stette da parte, e venuto in S.Marco Giovanni
Mosciaro, come commissario di guerra, molti, che quasi erano affiliati di esso Circolo,
credettero bene essere il loro posto sui campi di battaglia, e volarono al campo
Carlo Cristofaro,
Raffaele Misuraca,
Giacomo Campolongo
ed altri. Si arrolarono poi sotto le bandiere del Mosciaro moltissimi del popolo,
indirizzandosi al campo di Cammarata presso Castrovillari, dove di già erano
seicento Siciliani, accorsi in aiuto dei Calabresi insorti al comando di Ribotti
e di Longo.
L'entusiasmo si era talmente sparso, che molti giovinetti, procuratosi armi e munizioni
scapparono per andare al campo, ma raggiunti dai parenti si fecero ritornare indietro.
E bene stette perocché, imberbe giovinottaglia, sarebbe stata d'ingrombo
al campo; meglio essersi serbata ai futuri destini della patria, e taluno invero
nel 1860 fu onorato di quel trionfo, che gli si negò allora per evitare gli
scherni.
Il Comitato, organizzato da Stinca, non potè dare nessun segno di vita, perché
la insurrezione, avendo durato poco di due mesi, poiché a mezzo luglio era
tutto caduto, non gli lasciò tempo di agire. D'altronde infuora di qualcuno
dei membri, del resto del Comitato non era alcuno in fama di liberale, tanto che
nel passaggio, che poco dopo quel tempo il re fece nelle Calabrie, conscio del tutto;
al Sindaco, che era uno di quelli, e i cui sentimenti gli erano noti; ed ai pochi
sammarchesi, che su la linea rotabile andarono a fargli atto di omaggio, accennò
con ironia all'effimero potere. Il che gioia oscena in quei di parte borbonica,
generoso disdegno fruttò in quei di parte avversa. Lo scopo dello Stinca
però se mai le cose fossero incalzate, era quello di compromettere e nient'altro.
Per ordine del Comitato centrale di Cosenza, come si suole in tempo di entusiasmi
rivoluzionarii, scorrevano schiere d'armati le città della Provincia; onde
venne in S.Marco il generale Pietro Mileti, commissario civile, conducendo seco
la sua colonna e Domenico Sarri, anche commissario civile, e la colonna di lui.
Il Circolo, formato tutto di giovani, che se ne stava in modo latente, dopo la elezione
del Comitato, credettero bene di fare una dimostrazione al generale e alla colonna
di lui. Onde armati, chi di schioppi, chi di stocchi, chi di sciabole e chi di altro,
mossero ad incontrarlo un poco fuori dell'abitato. Il generale in vedere quei baldi
e confidenti giovani, ornati il petto di fasce tricolori, che lo salutavano con
grida viva Mileti, viva l'Italia, raccolti sotto il vessillo del Circolo, smontò
d'arcione e volle tutti abbracciare e baciare quei giovani, spettacolo commovente
a vedersi. E tra un furore di grida viva la Calabria e gli auguri di vittoria montò
a cavallo, ed una con le due colonne spronò a S. Marco. Pronostici fallaci
gli augurii di vittoria, perché nell'urna del tempo si nascondevano sorti
contrarie.
Nel distribuirsi gli alloggiamenti degli ufficiali della colonna Mileti e della
colonna Sarri, v'eran tra quelli molti vecchi amici di mia famiglia, pur non pertanto
si mandò in casa mia il Pacchioni, uno dei superstiti consorti della infelice
spedizione dei Bandiera, pittore e scultore, che più scolpì in marmo
la statua della libertà nel largo della Prefettura in Cosenza. Con lui, se
non mi sbaglio, era un tal Delle Noci, suo compagno.
In quella che si stava col Pacchioni a discorrere, raccoltasi per opera di alcuni
del Circolo una brigata di amici, ecco partir dalla strada grida di viva Pacchioni,
viva il compagno dei Bandiera. Erano i socii del Circolo che, molto popolo trovandosi
dietro, venivano a far dimostrazione di onore al compagno degli eroici Bandiera
e Moro. Vivamente commosso, ringraziò, strinse a tutti la destra, venuti
dentro, mostrando loro i ritratti in matita dei compagni, e rinnovatisi scambio
di cortesie e gentilezze e grida, si smesse.
D'armi e d'armati brulicavan le Calabrie, e in mezzo al tumulto delirante e al furore
delle grida di gioia, volgo l'animo a men lieto spettacolo, che era sufficiente
a gettare la costernazione ed a rompere in tutti le esternazioni dell'allegria.
Dai soldati della colonna del Mileti
(1)
veniva tratto legato un infelice, al quale si attribuiva accusa, non so se vera
o falsa, come di spia e d'altro, solite esagerazioni che sogliono trovar fede nel
debaccare della demagogia. Era un tal Carnevale di Guardia Piemontese, impiegato
di parte Borbonica , che messo agli arresti in Paola dai liberali, dovevasi passar
per le armi. Però lo spettacolo del preteso reo fu di tanta mestizia ai cuori
dei Sammarchesi che si rumoreggiò fino a farne giungere l'eco allo stato maggiore
del generale calabrese, ospite della famiglia La Regina, condotto qui dal Sarri.
Una commissione dei soci del Circolo, ch'erano in buona grazia presso il Generale,
presentata a lui da buoni amici loro Franzese Federico, il Portabandiera del 14
Marzo, Petrassi Giuseppe, autore del proclama, appellante le Calabrie ad insorgere
e fratello di quel Gianfelice giustiziato e Sarri Domenico, avvalorata dai buoni
uffici del cognato del Sarri,
Domenico La Regina,
nella cui casa, come ho detto, ospitava il Generale con lo stato maggiore, si ottenne
che il brutto ed arbitrario scempio non si fosse dato a funestar la città
in quei giorni di santo entusiasmo e di giubilo; si riserbasse a dopo l'auspicata
vittoria; e così fu salvo, e, caduta la insurrezione, così mal preparata,
fu mandato libero.
Noto cosa insolita negli annali delle umane gratitudini e riconoscenze; dopo qualche
tempo il Carnevale venne appositamente in S.Marco in casa di una mia zia per ringraziare
lei prima, che in carcere gli aveva fatto giungere letto e biancheria, e tutti coloro,
che oltre il cooperarsi per la vita di lui, avevano avuto il coraggio di fargli
giungere aiuti e conforti. Le buone azioni sono sempre belle ed è bene per
onore dell'umanità, che fra le miserie di età maligne e scadute, non
si scordino, come se impresse su marmo.
Poiché il Mileti sottopose a tassa forzata la classe dei richhi, ogni entusiasmo
da parte loro andò a vuoto, e poco mancò, tuttoché S.Marco
piena tutta di armati non si appressasse a sollevazione suo malgrado.
(2) La intromissione del Circolo in cui erano membri di
quasi tutte le famiglie della città, non avendo dal paese demeritato, potè
assai più che ogni altro, e più che questo, il timore delle armi ridurre
gli animi a prudenti consigli, e perchè nella tassa non fu inclusa nessuna
delle famiglie popolane. La somma ritratta dal temporaneo contributo il 25 giugno
in L.6311,25, fu fatta mandare dal Sindaco di quel tempo
Luigi Campagna, accompagnata da gentilissima lettera, al Presidente del
Comitato di salute pubblica in Cosenza.
I nostri volontarii intanto coi Siciliani, nei diversi campi formati, cioè
nel piano della Corona, sul piano Angitola, e nella valle di S.Martino, facean prodigi
di valore contro i Regi. Nel 22 giugno alcune compagnie di cacciatori incontraronsi
contro Spezzano, ov'era uno dei capi, per eseguire una ricognizione e al fuoco delle
artiglierie dei volontarii calabresi, precipitosamente per la via, onde eran venute,
ritiraronsi, inseguiti da quelli fino a Cammarata, dove derubarono, incendiando
e derubando il casino di Gallo di castrovillari, ch'era in quel luogo. Nella valle
di S.Martino i Volontarii Calabaresi attaccarono i Regi, tenendo contr'essi due
ore di fuoco, e si ritirarono nel Vallo con qualche morto e diversi feriti.
Il 30 del mese stesso, fatti segno ad un finto attacco, resistettero, e credendo
che i nemici battessero in ritirata, corsero ad attaccare gli avanposti; qui il
combattimento per ambo le parti fu aspro e sanguinoso. Dei regi molti soldati e
bassi Ufficiali feriti; dei volontarii tre prigionieri e tre morti. Ah! mi si stringe
il cuore in pensare allo scempio, onde furono vittime quei prodi!
Francesco Tocci, Domenico Chiodi e il ventiduenne Vincenzo Mauro, fratello di Domenico,
quivi comandante in capo, tutti e tre stretti da vincoli di amicizia, da quella
amicizia pura, fervente e confidente, che si rinsalda in Collegio o sui banchi della
scuola, improvvidamente si spinsero troppo in avanti. In mezzo a sevizie d'ogni
guisa, ad ogni intima di grida viva il Re, rispondevano viva l'Italia, e con questo
nome sulle labbra furono estinti. Giovinetti infelici! né i fiori, che dopo
la vittoria le fanciulle epirote vi avrebbero versato, né l'inno dei forti
scese a rallegrare l'orrore delle vostre tombe! Fanno a proposito i versi di Virgilio
per la morte di quei due prodi Eurialo e Niso:
Purpureus veluti flos succisus aratro
Languiscit moriens lassoque papera collo
demisere caput, pluvia cum forte gravantur
(3)
Ed io a quel modo stesso, con che il vecchio Alete abbracciò Eurialo e Niso
piangendo, io pure avrei voluto stringervi contro il mio petto, in cui il mio cuore
batte per voi.
Non pertanto: È bello, è divino per l'uomo onorato
Morir per la patria, morir da soldato.
Col ferro nel pugno, con l'ira nel cor;
Tal morte - pel forte non è già sventura,
Sventura è la vita dovuita a paura
dovuta a l'eterno dei figli rossor.
Tirteo: Inno di Guerra
La notizia dell'eroica morte di questi valorosi, sì per le attinenze parentali,
che avevano fra loro le famiglie Albanesi, e sì pel caso sventurato riempì
di mestizia non pure il campo, ma tutta l?albania italica. Il che va detto lo stesso
pel giovinetto Agesilao Mosciaro, fratello di Giovanni che fatto anch'esso captivo
dai Regi, presso le Vigne di Castrovillari fu trucidato. Ma dall'altra parte si
gioiva, quasi ripetendo le parole di Alete:
No, non volete che del tutto spenti
.... poiché a lor si forti
Guerrier donate, e così fermi petti
In sì giovane età
Ibidem
Le cose della guerra piegavano al peggio; una serie di circostanze fatali, a cui
si aggiunse l'inesplicabile inerzia nel muoversi dell'altre provincie sorelle del
regno, come in sul oprincipio speravasi, dopo aver fatto l'estremo degli sforzi,
durante trentuno giorni, costrinse a cedere il campo alle schiere regie, che d'ogni
parte minacciavano l'entrata in calabria. Difetto di preparazione e di unità
di comando fu una delle cuse della caduta.
D'altronde svisato s'era lo scopo della calabra insurrezione; certo non poteva essere
quello di una rivoluzione, poichè, anche con la Sicilia in armi, come avvenne
non avrebbe potuto resistere.
Lo scopo, me lo ripeteva spesso Domenico Mauro, era quello di fare una dimostrazione
armata, affinché Re Ferdinando assentisse ai voti dei popoli affamati con
le armi alle mani.
L'orribile eccidio di Filadelfia e del Pizzo inermi ed innocenti, la sconfitta di
Monte S.Angiolo, lo scioglimento del campo di Valle S.Martino, la partenza dei Siciliani
e lo sbandamento di tutti i campi, generarono sgomento oltre ogni dire. Onde il
3 luglio il Comitato Centrale di Cosenza, si sciolse; e così nel 48 tutto
finì, non vogliam dire se per difetto di un'unità di comando, se per
insipienza dei capi, o se per impreparazione di cose. Il flutto del Tirreno e dell'Ionio
odono la antica canzone del marinaio; i canti odono il canto boschereccio del contadino;
ma il fragoroso inno della libertà, onde in quei giorni risonavanop le nostre
sponde operose, è muto sotto il bel ciel di Calabria.
(4) - S. Marco non avendo la piena coscienza dello stato delle
cose, stava senza alcun sospetto nella fidanza dei primi giorni dell'insorgere;
anzi vennero qui in qualità di Commissarii civili
Pasquale Amodei di S.Marco stesso, che col medesimo ufficio era stato dapprima
in Crotone col Mileti e Giagio Miraglia da Strongoli, nostra antica conoscenza.
I quali si adopravano a tutt'uomo, per arrolar soldati, e vigilar su lo spirito
pubblico, per servire in una parola ai comitati insurrezionali. Giunte le tristi
notizie dello scioglimento del Comitato centrale e dei campi, vollero subito mettersi
in partenza, sebbene erano garentiti non pure dai socii del Circolo, ma dai fratelli
Amodei; e dopo molto peregrinare poterono sfuggire
ai lacci dei nemici, mercé l'aiuto di buoni patrioti. Dell'Amodei dirò
appresso; del Miraglia reputo ricordare, ch'essendo reduce dall'esiglio in Napoli,
era direttore del Giornale Ufficiale delle Due Sicilie, e diemmi l'incarico di scrivere
per le Appendici articoli letterarii. Ma non vedemmo più Pasquale Amodei,
che
morì esule in Genova tra le braccia
di Luigi Miceli, ora Senatore, onde infelice! non potè veder compiuto quell'ideale
pel quale aveva tanto sofferto e sospirato!
A tutti i conati di rivoluzioni sogliono tenere dietro persecuzioni, carcerazioni,
esigli e molestie d'ogni guisa. Così avvenne al mal riuscito tentativo della
insurrezione calabra del 1848. E prima di ogni aspra molestie fu un disarmo generale,
disarmo fiero e pauroso per le vessazioni, per le diligenze domiciliari e per gli
arbitrii incomportabili, che si fecero dalla soldatesca incaricata di ciò.
Fu però un disarmo, che fece ridere quelli di parte liberale, perché
infuora della perdita di qualche fucile, non che non aggiunger nulla di forza al
regio governo, si alienava sempre più gli animi con esasperarli, facendo
odiare la stoltezza di esecutori maligni e vili.
E ciò derivò dal rinascimento del brigantaggio: il popolo restava
inerme ed era circondato dalle perenni insidie di malfattori, che a scopo di derubare,
o far vendetta di vecchi rancori, scorazzava per le campagne, facendo fremere e
tremare i pacifici cittadini di pericoli incessanti. Laonde il regio governo per
venire a capo della distruzione di questa terribile piaga, che suole sanguinare
quasi dopo ogni rivoluzione; ordinossi il cosiddetto Ristretto, per quale tutti
i cittadini delle nostre contrade dovettero abbandonare i loro casolari, e tramutarsi
ad abitare in paese; obbligando intanto i proprietari dei fondi lasciati in abbandono
a formare in luoghi adatti un posto con un numero di dieci guardie. Veda ognuno
i tristi effetti del Distretto; cioè il rimanere i fondi in forza altrui,
nè i frutti compensarono i danni.
Capitolo VII prima parte
(1) Più
prode ed avveduto del Mileti era il vecchio patriota di tutte le insurrezioni, Saverio
Altimari, che poi al campo di Acrifoglio fu nominato Brigadiere comandante la Provincia
di Cosenza. Il suo ritratto è presso la familia De Caro di Cosenza.
(2) Storia dei
Cosentini di Davide Andreotti Vol.III Cap. VI pag.371. La somma sborsata fu di D.1585
pari a lire 6311,25 [
valori lire-ducati]
(Amministrazione diocesana rappresentata dal Vicario Capitolare. Michele
Perrotta L.122,75, Gaspare Valentoni L.250,50, Generoso campolongo L.212,50, Giuseppe
Candela L.212,50, Giuseppe Ruffo L.212,50, Vincenzo De Pietro L.212,50, Francesco
Selvaggi L.212,50, Pasquale can. De Chiara L.212,50, Filippo Fera L.212,50, Domenico
La Regina L.212,50, Domenico Sacchini L.212,50, Luigi Conti L.148,75, Germani Luigi
e Carlo De Marco L.48,75, Carolina Fazzari L.106,25, Germani Campagna L.250,50.
(3) Come talor
da vomero reciso
purpureo fior morendo langue, o carco
Papavero di pioggia il capo abbassa
Nei fratelli Mauro Domenico, Raffaele, Alessandro e Vincenzo, la Calabria ebbe presso
a poco i suoi Cairoli per il patriottismo. Domenico, il maggiore, l'esimio poeta,
l'illustre espositore del Concetto e Forma della Divina Commedia, fin dal 1836 fu
sempre a capo delle cospirazioni orditesi tra noi. Egli soleva dirmi nei familiari
conversari, non sapere intendere il poeta, che su l'esempio del Foscolo non fosse
soldato della patria. Nel 1844 e 1848 fu uno dei primi, e condannato a morte, salvossi
esulando. Nel 1860 fu uno dei Mille di Marsala. Raffaele per gli eroici fatti del
1848 -49, condannato a 34 anni di galera, padre di numerosa figliolanza, mandato
in esilio, fu pure dei Mille.
Alessandro segnalatosi nei fatti del 1848 perché imputato di regicidio, fece
parte degl'insorti calabresi, fu dai soldati borbonici barbaramente massacrato presso
Castrovillari. In S.Demetrio il 21 maggio Mauro, Chiodi, Tocci ed altri furono commemorati
degnamente.
(4) I poeti come
al solito accompagnarono la catastrofe con la poesia, a guisa di nenia che accompagna
la morte: fra di noi, oltre molte altre, corse la seguente di V.Padula, scritta
dall'Autore nel primo impeto di dolore in udire le tristi notizie:
Deh! mi ponete sugli occhi un velo
Mi si nasconda tanta sciagura;
L'antica gloria del nostro cielo
In un sol giorno cade e si oscura.
Il nostro giorno vile si rese
Non mi chiamate più Calabrese