S.Marco, come tutte le provincie del mezzogiorno d'Italia, pareva composta a quiete,
ma il fuoco, come quello di un vulcano sotterraneo, ardeva sotto cenere; si parlavan
blandizie di pace, ma ordinavasi a sforzo di guerra, perocché nè le
fedi cadute, nè le speranze deluse eran morte. Se non che parea si dormisse,
ma non dormivano quelli, sopra dei quali pendeva imminente il pericolo di prigione
e di esilio; il sospetto aveva chiuso i cuori sì, ma la vigilanza della polizia,
gli arbitrii erano senza limiti contro i così detti attendibili, che, vedendosi
preclusa ogni via di prodursi, gettavansi al disperato.
Fin dal 12 marzo Ferdinando II sciolse il secondo parlamento e non più riconvocollo;
onde a giustificazione della rotta fede del giuramento, amossi di far credere che
i popoli del Napoletano fossero onninamente avversi agli ordini costituzionali.
Da quelli di parte borbonica per questo in S.Marco, come in tutti i paesi, si richiese
a ciascuno la propria firma, che attestasse non volerne sapere di costituzione [vedi
documento 1 e
documento 2], nello
intento di colorirsi dal governo la mancata fede. Molti consigliati da debolezza
di carattere o da ingiustificato panico, firmarono; ma i moltissimi, ad onor del
vero, sdegnosamente rifiutarono di covrire il brutto spergiuro. Il Re allora riunì
la maggior parte dei Vescovi napoletani, a scopo, in mente sua di farsi sciogliere
dal giuramento, consiglio ipocrita per attutire il rimorso, e per dire alle nazioni
estere: I miei popoli sono contenti, e di ordini liberi, non vogliono saperne!
Postume scintille dell'incendio rivoluzionario non del tutto spento, scoppiarono
in questo tempo dal cuore dei miei concittadini e divamparono. Tengo a dichiarare
che, per quanto amore prendessi a narrare la cronica della mia città, questo
amore mi si affievolisce e raffredda nel dovervi indugiare su certi punti, com'è
quello che segue, e proseguo per forza, impaziente a distrigarmene. Senza grave
motivo si volle far nascere certa briga, che non è mancata di produrre conseguenze
spiacevoli, pur non si ebbe difetto di diligenze a domicilio presso le case degli
attendibili, spie dappertutto, e passaggi di truppe come si sentisse rombare
ancora il fiotto vorticoso della rivoluzione. Erasi tutto preparato per l'effettuazione
del decreto di leva dalle autorità in mezzo alla piazza, S.Giovan Battista
e si era sul punto di dar principio al sorteggio;, quando alcuni del popolo, strumento
di molti, che aspettavano tra le quinte gli effetti, cominciarono a rumoreggiare,
indi con aperte grida ad accusare di non so quali soprusi e parzialità i
magistrati del Comune, intesi alla coscrizione, e ad eccitare i compagni apertamente
alla sommossa, minacciando e terrorizzando quella parte di popolo che meno avventata
dei provocatori, stava spettatrice per prender norma come andrebbe a finire il tumulto.
Ma la sospensione della leva e quattro o cinque arresti dei caporioni furono il
termine dell'improvvido tentativo, di cui non ho potuto capire chiaramente lo scopo,
salvo che possa dirsi una stoltezza senza scopo manifesto.
Forse si credette che dopo una rivoluzione disfatta, di coscrizione di soldati non
debbe aesser più nulla. Inganno e malafede di sobillatori! Capi espiatorii
furono
Antonio Carrozzino,
Vincenzo Talarico-Gelardi, e
Raffaele Arcuri,
che scontarono con alcuni anni di carcere il loro intempestivo ardimento, ma gli
eccitatori che avevano al certo biechi disegni, rimasero nascosti nell'ombra. Per
una volta un avanzo delle contribuzioni del Circolo, già, disciolto, servì
a soccorrere quei tre operai, che languivano in carcere, e che per altro erano reputati
buoni ed onesti patrioti. I rigori di polizia raddoppiavansi, specie quando nel
12 giugno 1857 avvenne lo sbarco di Carlo Pisacane a Sapri.
(1) Ma insieme col raddoppiarsi dei rigori, si facean maggiori
desiderii e speranze, poiché fra le incertezze dei tempi, libri, giornali
ed emissarii politici, gonfiando fatti e notizie, strombazzavano ai quattro venti
essere imminente il grande avvenimento dell'italica insurrezione.
Fu intorno a questo tempo che Luciano Murat, figlio di Re Gioacchino fe' correre
alcuni emissarii nel napoletano, promettendo protezione della Francia ed aiuti interni,
ove mai si fosse parteggiato per collocarlo sul trono che il padre di lui non aveva
saputo ritenersi; e lo stesso messaggio per mezzo degli amici di Saliceti fu fatto
pervenire quasi a tutti i capi politici del meridione d'Italia. Il padre di lui,
del proclama di Rimini e dei beneficii a noi dal suo regno derivati, avea lasciato
poco desiderio di sé, perché occupato sempre negli appresti della guerra.
Dall'altra parte l'Italia avea adottato di già il programma dell'unità;
se lungi dall'eseguirlo, si fosse venuti ad elezione di nuovi re, non si sarebbe
riuscito a fare la nazione. Laonde ad un tal
Pannaino di Cassano,
che, sfuggendo l'ire governative, qui rifugiatosi, chiedeva sul proposito il parere
di S.Marco; fu risposto: che l'Italia non parteggiava per re stranieri; d'altronde
nel tempo dei pericoli e delle oppressure non un aiuto, non un conforto ci era venuto
da lui; indifferente del tutto ai martirii della tirannide; ed ora che pare che
voglia arriderci un guardo di fortuna, promette protezione ed aiuti? Un principe,
che non ha mai avuto per noi sensi di pietà pel nostro popolo, ne vuol cingere
la non meritata corona? Questa la risposta e di pratiche murattiane non fu più
nulla.
Altra ragione, che valse vie maggiormente ad infierire rigori, onde credevasi di
puntellare l'edificio, ormai scrollato del trono, fu l'attentato di Agesilao Milano
a re Ferdinando.
È cosa ormai nota, che i tentativi non riusciti, ribadiscono le catene degli
schiavi. L'8 dicembre del 1856 l'esercito napoletano era in rivista alla presenza
del re e della baionetta infissa al fucile, vibrargli terribile colpo, fu un punto
solo. Il colpo dell'atto temerario ed insensato andò a vuoto, e cotesto Bruto
in diciottesimo scontò con la morte, alla quale andò imperturbabile,
lo stolto attentato.
(2) Non si hanno
parole abbastanza roventi per stimmatizzare ad infamia l'abbominevole delitto; e
poi qual pro? Né il consorzio sociale né l'interesse della patria
guadagna nulla.
Oggi le cose sono siffattamente ordinate che o la reggenza o altro re copre subito
il trono vacante. Non vo' tacere però che fino a quando nelle scuole si presenta
alle menti dei giovani lo spettro delle repubbliche di Grecia e Roma le idee malsane
del regicidio, proiettando una sinistra luce, sono alimento nocevole offerto alla
stessa educazione.
Cotesto avvenimento avvenuto in Napoli, rimbalzò in Calabria, dove non è
è uomo di buon senso che non deplori l'opra esecranda del regicidio; eppure
non si vide Andrea Chenier e Klopstok fare l'apoteosi di Carlotta Corday? Tutta
la gioventù germanica celebrare Sand, uccisore di Kotzabue? Non è
tutto giorno nelle scuole vantato l'eroismo di Armodio, di Timoleone, di Muzio Scevola?
Il Milano appartenente alla diocesi di Bisignano, unita con quella di S. Marco,
venne in questa città per richiedere al vescovo Parladore le sacre ordinazioni,
essendo avviato al sacerdozio; e n'ebbe risposta che prese analoghe informazioni,
se favorevoli, avrebbe coronato i voti del supplicante. Era di luglio, ed era l'ora
di mezzogiorno, quando mi occorse vedere passare sotto la mia abitazione in quel
che se ne andava tale, che per lo indizio dell'abito, credetti che fosse un mio
antico amico che da più tempo aspettano, Antonio Conforti. Onde senza complimenti
invitai il preteso prete albanese ad entrare in casa mia per prendere alcun riposo,
compiendo seco lui tutti i doveri impostimi da ordinaria ospitalità, sebbene
non il conforti ravvisai in lui ma il chierico Agesilao Milano. Era la prima volta
che prendevamo di noi conoscenza, onde non ci credemmo autorizzati a nessuna confidenza.
Mi disse solo d'essere stato qualche anno nel collegio di S.Demetrio; domandai di
quei professori, gli dissi d'essere io invitato in quel Collegio dal Signor Rodotà
[
nel Novecento una Cristofaro sposerà un Rodotà!] ed
oltre tali cose egli si mostrava preoccupato del ritardo, a cui avrebbe dovuto sottostare
pel suo stato; e volendo anche sotto gli ardori di luglio partir subito dopo il
pranzo, volli trattenerlo invero, mi fece vivi ringraziamenti, ci abbracciammo e
ci dividemmo.
Cotesto semplice atto di cortesia, e il sospetto non del tutto cessato, ch'io avessi
scritto la poesia su lo sbarco di Sapri ed altro che qui sarebbe vanagloria riferire,
passione femminile sempre, dalla fortuna schernita; fecero sì, dopo l'attentato
di Milano, che il mio povero nome venisse involto insieme con altri trentanove in
una causa di regicidio, poichè una processura a Re Ferdinando diretta, denigrava
quaranta individui, come pretesi complici del regicidio, includendovi eziandio la
Signora Guzzolini come tenente in Napoli, dove dimorava per proprii negozii, le
fila di una delittuosa ma immaginaria congiura. Fra i calunniati di S.Marco erano
i fratelli
Amodei Francesco ed Alfonso,
Candela Pasquale,
Rocco Raffaele e
La Regina Vincenzo, dei quali Candela [e] Rocco erano con me addetti
all'insegnamento nel Seminario. Per la qual cosa piacque a M[onsigno]r Parladore
raccomandarci con favorevolissimi rapporti
(3) ed al Signor Bianchini, allora Ministro di Polizia, devesi il non aver
sofferto carcere preventivo. Solo dodici di quei quaranta furono dichiarati innocenti,
fra cui il mio povero nome con non esservi luogo a procedere per inesistenza del
reato.
Forse in parte pure debbo la mia incolpevolezza a circostanza fortuita; in quella
che per l'oggetto, dietro accennato, dal Giudice Istruttore eseguivasi nella mia
abitazione minuta diligenza; capitò per caso in S. Marco un mio vecchio amico,
Stanislao Mele, che, venuto in conoscenza dell'operazione che si compiva in casa
mia, si fece immantinenti introdurre dalle guardie, perché amico del Giudice
inquisitore e del Cancelliere, e fingendo di non conoscermi, parlò con quelli
segretamente ed andai scevro dell'incominciato rigore in leggere alcune lettere
dimenticate del 48 di Mauro e Miraglia. Ed oltre a ciò, venuta nelle mani
del cancelliere una coccarda dentro un libro, la fe' subito sparire.
Postumo ricordo ad onore di quel bravo funzionario, al quale, richiesto, rilasciai
per l'uopo nel 1860 lodevole attestato.
Parmi cosa poco dilettevole pei lettori, i quali debbono al certo stancarsi in doversi
indugiare sopra fatti, che, sebbene abbiano l'accenno storico del tempo, a cui appartengono,
pure possono sembrare d'avere sembianze di privata storia.
Ma il ricordo dei benefizii, come quello del Segretario Monaco, è sempre
grato e bello per le anime gentili; nel 1861 nella chiesa dello Spirito Santo in
Napoli mi occorse vedere il Bianchini ascoltar messa; il mio cuore esultò
in mirare quella nobile figura, come, quando vedesi un uomo, coronata la fronte
dell'aureola della virtù e della Scienza. Lode a chi è gran tempo
in onore di lui e del figlio nel nome santo della patria riconoscente pose lapide
commemorativa.