I Sanmarchesi in tal periodo di tempo erano afflitti, se altro mai, come tutt'i
regnicoli napoletani, per gli avvenimenti di quell'anno nefasto, di lugubre memoria.
Impeti di procelle straordinarie e non[,] di tremuoti formidabili che facevano ricordare
con terrore le catastrofi non molto lontane dell'83, le notizie delle rombanti eruzioni
del vesuvio in Napoli e il disastro delle armi napolitane in Tolone, congiunto ad
altre sventure locali, come di vittime di fulmini e di alcuni incendii, non che
contristare e di paura di futuri danni riempire gli animi, facevan credere vicino
il finimondo. La espillazione del denaro delle decime su l'entrate poi, e quello
strano ed inconsulto provvedimento preso dal re nel 1797, col quale per supplire
alla mancanza di moneta, si ordinava lo spoglio di tutti gli argenti ed ori dei
luoghi pii, delle chiese e cappelle di cleri secolari e regolari d'ambo i sessi,
resero vie maggiormente triste lo stato delle scontente popolazioni. Se ne estorsero
anche di private contropolizze di banco, al furto legale anche la subdola ironia!
Reliquie scampate qui a S. Marco al sacrilego, irriverente, immane spoglio della
nostra cattedrale furono pochi oggetti, la statua in argento di S. Nicola di Bari,
due candelieri, una croce con carte gloria pure in argento, misera parte di un gran
parato di altare, cioè di candelieri N.18 con altrettante giarrette con analoghe
fioriere. Facendosi schermo, come suole avvenire in simili eventi, della esecuzione
di quel decreto infausto, furono derubati altri oggetti, una gran croce astile,
un braccio di S. Dorotea ed altro. La tradizione indica ancora i nomi degli sciagurati,
che misero le mani sacrileghe sopra oggetti sacri senza tremare. Io qui per carità
di patria li taccio, ad anche perché i nipoti, migliori degli avi, non abbiano ad
arrossirne. Gli emissarii politici, mandati dovunque, le loggie muratorie sparse
per tutto il regno, e cresciute dall'entrare in esse di molti nobili, ribattizati
ai nuovi principii; il fraternizzamento dei cittadini napoletani coi soldati francesi,
approdati con la flotta in Napoli; le tardive persecuzioni, molestissima vigilanza
e procedure vessatorie, rimedio peggiore del male, che ostilità di nemici
e scontentezza di amici produceva; l'incendio delle navi, delle cannoniere e del
corredo dell'arsenale; la partenza del re su la flotta di Nelson nel 21 Dicembre
con la famiglia, con Acton, con ventimila milioni in denaro e sessantamila in gioie,
non lasciando ordini o provvedimenti, sí l'anarchia la guerra esterna e la
civile; ed infine l'opera incessante di Giacobini e Massoni
(1) furono le cagioni che il regno tutto sconvolsero, prepara[ro]no
la via agli eserciti di Francia, ed affrettarono il nuovo ordine di cose. Istituzioni
effimere alle quali il popolo non era maturo. La libertà importata da sette
e da stranieri sconvolse è vero il nostro popolo, ma fu come il sasso caduto
dalla rupe vicina nella tranquilla onda di un lago che in cento e cento rote lo
infrange, lo perturba, ma rimane chiuso e riflesso nello specchio del lago medesimo.
Quando penso ai trentamila cadaveri che la invasione straniera costò al popolo
napoletano che insorse a difesa della indipendenza patria contro l'invasore, al
quale ne costò mille, nelle mani mi trema la penna. S.Marco, paese eminentemente
agricolo, onde gli avvenne d'esser distolto dal suo stato naturale, è regredito;
era eziandio familiare della monarchia, quindi non che sentir bisogno, non era inchinevole
a repubblica. La Repubblica, dice il Colletta
(2) è sconvenevole a popolo invecchiato nella obbedienza, cui mancano
così le virtù della giovinezza come il senso di matura civiltà
e il Mauro
(3) in questi tempi di ansiose
ricerche, di dubbii infioriti, di ambizioni, di corruttela, di divisioni, di egosimo,
la repubblica è un sogno, un sogno celeste fatto da dannati.
Intanto l'eco della terribile rivoluzione, dalla Senna si ripercosse tra il fremito
dei boschi secolari della Calabria, i Giacobini che l'avevano preparata effettuarono
gli ordini repubblicani in S.Marco.
Giacomo Greco da Cerisano, possidente ed armaiuolo
meccanico, domiciliato in Cervicati in tale epoca, indi in S.Marco, dove in seconde
nozze sposò una cugina di mio padre, una con Ciro Basile da Torano Castello
e dott. Lorenzo Barci da Mongrassano, impiantarono la Massoneria in S.Marco. In
casa di
Candela Filippo, i due fratelli Candela,
i fratelli
de Ambrosiis,
Valentoni Ignazio,
Fera Filippo,
Amodei
Andrea ed altri tre preti, di cui non ricordo il nome, furono per prima
iniziati ed affiliati ai misteri della setta. Sorpasserei i limiti al mio lavoro,
se qui volessi intrattenere il lettore intorno ai riti e alle cerimonie, terribili
insieme e funesti, con che venivano ricevuti con calcolate prove gli adepti. Apparati
mortuarii, teschi di morti e pugnali erano gli obbietti preparati che in camera
priva di ogni luce si sperimentava il coraggio di essi. Si era aggiunto l'elemento
popolare in gran copia e crebbe tanto da potersi formare una loggia della quale
ora il Basile ora il Barci fungeva da gran maestro. Da cotesta loggia massonica
nacquero più tardi, dopo circa una diecina d'anni, le due Vendite dei Carbonari,
di che avrò a dire appresso, che, postisi in comunicazione coi Giacobini
di Napoli, aventi lo scopo medesimo, prepararono e produssero i moti del 1820.
I massoni mentovati di sopra, ordinandosi a sforzo di insurrezione, a somiglianza
di quegli uccelli negri, che, per librarsi, aspettano le tenebre della notte, per
mano di forte virtù visiva, non osarono di uscire all'aperto per manco di
forze, neppure quando di già in Napoli erasi proclamata la Repubblica partenopea.
Un bel giorno però i tre massoni, seguiti dai Sammarchesi e fatti forti di
una turba armata dei Casali Albanesi che occupano parte dei dintorni di S.Marco,
Mongrassanesi, Sammartinesi, Cervicatesi, Sangiovannesi, spinti dal nostro conterraneo
Amodei Andrea, eziandio massone, piantaro in S.Marco due Alberi repubblicani in
sul davanti della Chiesa di S.Marco Evangelista l'uno, nella piazza di basso, avanti
la chiesa di S.Giovanni Battista, oggi piazza Vincenzo selvaggi, l'altro. In su
la cima di detti alberi il berretto frigio il fascio unito di verghe, sormontato
dalla scure, simbolo dei fasci romani e del potere del popolo.
(4)
Tosto un pazzo dar ne le campane, un furore di grida, un dirsi aboliti i diritti
feudali, un abbruciar stemmi, fidecommessi e statue, un assembrarsi a tumulto, dichiarar
decaduto il Borbone e il Marchese, fu l'opera e la gazzarra di quel giorno. Indi
alternar folli danze, cantar inni alla libertà, all'eguaglianza, alla fraternità
oratori improvvisati spiegare al popolo, Dio sa in qual modo e in qual forma, i
diritti dell'uomo,
(5) unirsi in matrimonio
sotto gli alberi coi riti massonici, stringendo, come in luogo sacro, parentadi
e accordi; forse perché il primo conjiugio naturale tra i nostri progenitori
in Eden s'inaugurò all'ombra del mistico albero della scienza del bene e
del male, benedetto dal Creatore.
Nota triste ed empio ricordo in mezzo a scena commovente, sublime; cessati i dissidii
e gli odii di parte; un velo sui rancori privati e particolari recriminazioni: tutti
abbracciandosi, versavan lagrime di tenerezza, com'ebbe a raccontarmi il Greco,
che pensava di affidare ad uno scritto, interrotto dalla morte di lui, reiterandosi
proposte di fratellanza e rimettendosi al popolo dai ricchi sconto di debiti. Era
allora in S. Marco un Monte di pietà e di pegni: e si stabilì da chi
ne avea l'Amministrazione, che nel riscuotersi dalle parti gli Oggetti pignorati,
si dovesse rilasciare ai pignoranti metà delle somme ricevute dal monte.
Per turno si alternavano dei banchetti e i convitati portavano sospeso al petto
il berretto frigio ed il cosi detto
scintillon.
L'atto pubblico di un prete apostata, cui non nomino [
Andrea Amodei?],
perché il pubblico biasimo non fa bene a nessuno, rese disgustoso il prorompere
della espansione repubblicana, ingenerando ribrezzo alle persone di buona volontà,
gioia maligna nei tristi, audacia nei ribaldi. Per asservire ai massonici riti,
a ludibrio del proprio stato, a disdoro dell'antico e onorato cognome, fu veduto
menare impudica briffalda sotto il simbolico albero; e fra la ridda vortuosa di
sfrontati compagni stringer apparente matrimonio, a par di moglie lordo contratto
con quella! La brutta scena l'avrei taciuta per generoso sdegno, se il non rievocarla
da quelli, che si ebber notizia non fosse venuto biasimo di parzialità allo
storiografo.
Dallo stesso Greco appresi incidente che per una fiata l'inverecondo tripudio di
saturnali rivoluzionarii sospese e che senza l'intervento del sindaco dei nobili
Giuseppe Fera, di quello del popolo
Antonio Cristofaro, uno dei miei antenati, avrebbe prodotto conseguenze
funeste, fiere e di discordi voleri nuovo dissidio. In quella che sotto l'albero
della piazza S. Giovanni Battista trescavasi, dallacasa li vicina di un certo
Artusi [
Domenico?], in fama
di profano, vocabolo usato in quel tempo per distinguere i non affiliati alla setta,
partì un colpo di fucile inconsultamente, che per fortuna andò a vuoto
senza ferir nessuno. Fra gente, per la quale repubblica era ed è tuttavia
sinonimo di anarchia e di licenza, fu scintilla di vero incendio. Sparsosi l'allarme
fra i seguaci del giacobinismo, se i buoni uffizii dei sovradetti Sindaci ed eletti,
e dei popolari
Talarico,
Mele e
Martini, in fama di patrioti,
come pure dei capi massoni non fossero intervenuti, e il non essersi ferito alcuno;
quell'audace sarebbe stato obbietto delle ire della moltitudine e le vie si sarebbero
vedute tinte di sangue fraterno. Fatti sbollire gli sdegni, e prevalsi sani consigli,
non che essersi fatto fuggire l'improvvido Artusi, si risparmiò dal sacco
e dal fuoco la casa di lui. Vuoi per effetto di questo incidente, vuoi per il ricordo
del fatto, che Albanesi in quel tempo, fautori di repubblica; una masnada di quelli,
immemori dell'ospitalità accordati tanti secoli dietro ai loro padri, coi
quali i nostri divisero territori e montagne, dopo qualche mese dall'impianto della
repubblica qui in S.Marco, e propriamente in giugno, quando intenti alla mietitura
erano sparsi pei campi i nostri cittadini; venne, armata mano, a tamburo battente
a riversarsi sulla nostra città, compiendo l'eroismo di svaligiare nel sacro
nome di libertà molte case di lavoratori deserte. Da quel tempo, ogni volta
che che politiche commozioni e popolari tumulti fanno il buoi nel mondo, sta sempre
in mente al nostro popolo che una irruzione di Albanesi rinnovi quelle eroiche gesta.
Oggi ricordarlo fa sdegno e schifo, temerlo desta sorriso e compassione. Nel 1848
alcuni depravati il cui nome lascio sulla punta della penna, perché alcuna
gloria i rei avrebber d'elli, andarono per pescare; ma i nipoti dei figli di Skanderbek,
sul cui capo ormai è passato un secolo di civiltà, han respinto la
infame proposta dei rinnegati con isdegno. Agli stessi mi sento l'animo inchinevole,
quando da qualche vecchio Mongrassanese si fa correre certa vanteria di aver trafugato
grande antica campana della Chiesa di
S. Maria della mattina,
monastero dei Cisterciensi, di già soppresso, e averla fatta trasportare da due
paia di buoi per lo mezzo della città nostra fra due schiere di armati, come
se fosse un cannone tolto in battaglia senza che la città se ne addasse.
Piccineria o debolezza umana?
Menar vanto di un furto! Pure non debbo tacere che la responsabilità del
fatto cade sopra Francesco Sarri [
Domenico
La Regina di San Marco ne aveva sposato la figlia] di Mongrassano,
sotto ispettore della vendita dei beni demaniali nella provincia di Cosenza, che
finì la vita nel chiostro dei nostri Riformati.
Fu egli che in forza dei suoi poteri permise ai suoi conterranei la indebita appropriazione.
La indifferenza poi di quella campana, che in ogni 5 Agosto chiamava a perdonanza
i fedeli in quella Chiesa di frati, fu muta indignazione e rimpianto ai tempi sciagurati.
Non parmi fuor di proposito riprodurre qui l'epigrafe in lettere semigotiche e rilevate
intorno al giro della campana, accennati all'Abate di cui v'è un'effige mitrata
che la fece fondere, al campanista che la fuse e al tempo in cui fu fatta fondere.
Ecco l'epigrafe:
TPO E ABBI: ROGERIO DCRO D ANO DNI: M: CCC: XXX: VI: III, INDICIONIS + MAGISTER
GVILLELMUS: DE LAURIO MEHGIG DEO GRS +
Piuttosto se dovessi chiamare in colpa i miei conterranei e colpa ne hanno, in questo
spazio di tempo, in cui tante rovine e naufragi ne oscurano la storia; il farei
perché lasciarono distruggere l'ospizio di S. Maria ad Nives su la Conicella.
D'altronte era il tributo che si pagava al secolo nemico di chiese, di preti, di
frati. Eppure è vano il negare l'utilità che in caso di bisogno ne
avrebbe potuto trarre la smemorata città. In caso di calamità pubbliche
o d'altro avrebbe potuto servire per lazzaretto, per Camposanto, per luogo di ritiro
per sacerdoti. I Cervicatesi per prima, mi diceva mio padre, cominciarono dallo
scovrire il tetto e toglersi travi, tegole e imposte, e siccome verso quell'epoca
in circa si fabbricava il nuovo seminario, e quindi si senì il bisogno del
vecchio materiale di quello, e, fattane domanda al Demanio, venne qui trasportato,
le pietre, anche le pietre di quell'antica costruzione si sarebbero portate via.
E così di una Abadia di sette secoli in men d'un paio d'anni in quel loco
deserto non rimase pietra sopra pietra.
Non vorrò allontanarmi dai delirii, onde le menti erano pervase, senza addurre
i canti con che si ritraevano i sentimenti che occupavano quell'età, e la
contrassegnavamo, e che ancora oggi sono come le marche per le quali si riconosce:
Sotto gli Alberi di libertà e tra i clubs solevano recitare oltre, molte
altre, queste strofe di Ferocades il poeta del '99 come Berchet e Rossetti sono
i poeti del 1820 e Mameli del 1848.
Da Cosenza a scopo di organizzare il governo repubblicano furono mandati in S. Marco
un certo Malena e un certo Manazzi in qualità di emissari politici ch'ebbero
accoglienze da quelli di loro parte entusiastiche e rumorose; e costoro fecero che
su la torre sventolasse la bandiera dei Giacobini, avente tre colori, bianco, rosso
e bleu. Un'altra se ne pose su l'arco (ora tolto via) della torretta vecchia della
strada Santomarco, ed una terza in altro arco accanto ad altra torretta (oramai
anche tolti via) che in antico esistevano all'entrata del paese della strada Santopietro.
I due emissari repubblicani, di tre cotte, come suol dirsi, costituirono un Comitato
di salute pubblica; ma i nomi di coloro che ne fecero parte, o perchè vollero
coprirsi a prudente riserbo non giunsero a mia notizia e neanche il Greco che tante
cose ricordava non me ne seppe dir nulla.
I democratici, anche nei piccoli centri, come S.Marco, venivano esaltati dalla presenza
dei Giacobini che dovunque spadroneggiavano: tredici mesi di repubblica furono tredici
mesi di perenne gulloria invereconda: quell'aurea di libertà produceva sedizioni,
non rivoluzione. La rivoluzione è l'idea e l'aspirazione di un'epoca, e quell'epoca
nei luoghi nostri non era matura a poter esprimere idee, che non aveva. Mentre da
un lato si profittava del nome di repubblica per cessare di ogni obbedienza, e adusare
il potere in vendette, prepotenze, indebite appropriazioni e malcelate invidie,
onde a scopo di far sparire titoli di censi, dovuti alle chiese, bruciaronsi e fu
cosa nefasta, gli Archivi della cattedrale, prezioso tesoro di documenti della città
e della chiesa di S.Marco; dall'altro lato gli indipendenti cessato quel primo scatto
di gioia, onde color di rosa era apparso l'avvenire, voltati a parte regia, dallo
straniero chiamati briganti, e come tali perseguitati, catturati e giustiziati;
empivano di terrore le menti, di strazi orribili i campi e i boschi, d'incendi,
di lutti, di lagrime le città Sequestravano alla lor volta, spogliavano non
meno i pacifici che stavano tra l'incudine e il martello, quanto quelli di parte
avversa.
Il povero nostro non era torturato meno dall'orde brigantesche che dai repubblicani,
i quali applicando a strapazzo quel che sentivano dal di fuori, si permettevano
ogni licenza. Guai a chi in città non usasse insegne repubblicane: capelli
alla Bruto, pantaloni alla patriota, cappelli alla giacobina. Intanto si depredavano
chiese, si spogliavano monasteri e Monti di pietà.
Dimenticata la benignità, nacque gara di barbarie. Il primo uo della libertà
consisteva nel restringere la libertà vietata ogni pubblicità di culto;
vietato portare il viatico ai moribondi che in S. Marco soleva accompagnarsi con
apposita musica di violini ed altri strumenti per speciale legato; ristretto a certe
ore e a pochi tocchi suonar le campane, vietati certi tagli di abiti sotto pena
degli arresti; i preti che schivarono gettarsi nell'orgia, né menare una
donna all'albero per sposarla, erano obbietti di frequenti insulti della follia
dei pochi. Il popolo, ho a ripetere, alle improntitudini di quei tribuni da trivio,
era estraneo, come estraneo era pure agl'ideali di libertà vera, poiché: