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Questa pagina fa parte del sito "L'Ottocento dietro l'angolo"  (www.sanmarcoargentano.it/ottocento/index.htm) di Paolo Chiaselotti

DALLA CRONISTORIA DI SAN MARCO ARGENTANO
DI SALVATORE CRISTOFARO

PARTE III - TEMPI MODERNI

Cap. II
Cap. III
Cap. IV / 1 Cap. IV / 2
Cap. V
Cap. VI
Cap. VII /1
Cap. VII /2
Cap. VIII
Cap. IX

Capitolo IV

Della rivoluzione del 1820 al 1848

Il quinquennio che succedette all'occupazione militare francese, va contrassegnato dall'opera incessante delle Sette, che elevando gli animi in isperanza adopravansi in ogni guisa che i germi di libertà, inoculati negli animi dalla rivoluzione, non che avvizzire, crescessero più rigogliosi. La quando il governo collegossi con la setta dei Calderari (1), in luogo di sperati favori, la Carboneria sentì sopra di sé aggravata la mano del potere, e insidie da tutte le parti le si tendevano. Delusa ebbe a sconcertarsi e peggiorando parve decadesse, quando divergenze tra Calderari assolutisti e Carbonari democratici si accentuarono. Non fu delitto o ribalderia che non le si appicicasse, e quindi la mala vita fu titolo agli iniziati di farne parte e così tralignata la setta, dalle pubbliche passioni passò alle private.
Però in sul finire del 1819, essendosi assennati e potenti uomini introdotti nel suo seno, che non ignari della vastità della setta e della potenza, ove si riformasse a virtù ed in pari tempo della fiacchezza dei governanti, acquistato peso di consigli e di ricchezze, pensarono trarne profitto; e aiutata dal genio e dalle passioni del tempo, e non potendo esser vinte dal senno di ministri logori e vecchi per età e per dottrine, ignari dei tempi mutati, apparve, e fu maggiore del governo stesso.
Nel 1820 tutte le provincie meridionali d'Italia pullulavano di sette di Carbonari, e vie più le Calabrie, S. Marco eziandio aveva le sue Vendite, e sentendo rombare la rivoluzione, appresti di guerra fervevano in esse. La prima nella Chiesa di S. Marco Evangelista, non ancora aperta al culto, come d'ianzi s'è detto presieduta da Ignazio Valentoni e da altri in qualità di gran Maestri. Si accedeva ad essa da una porticina della parte di retro di detta Chiesa, ormai murata; e non si entrava se non da quelli che per via di segni convenzionali eran conosciuti per fratelli affiliati, o per attestato dei Dignitarii della Vendita. A chi non fosse di parte loro, a scherno e ad infamia davasi il nome di lupo. All'altra Vendita, che aveva sede nella Chiesa, di già interdetta, del Convento soppresso dei Paolotti, presiedeva Filippo Fera, ed oltre i cugini, come chiamavansi, v'erano altri adempienti a diversi ufficii che reputavansi utili per l'esatto funzionamento della Società, come segretarii, cassieri ed altro. Da tanto brulicare di Carbonari (2) ne derivava, non foss'altro, che la idea di nazionalità e libertà, a scambio di fraternità messa in atto passasse a poco a poco a farsi sentimento, che facilmente si traduce in azione.
La notizia intanto della rivoluzione di Cadice, 1817, nella Spagna, il cui esempio sui Napoletani per l'antica unione del reame alla spagnuola monarchia, era potente; fu la scintilla che accese il grande incendio; e i carbonari non mai si agitarono tanto nelle lorto adunanze, non mai tanto crebbero di numero, come quando il grido della rivoluzione dalle rive del Tago il vantato erosimo di Riego e Quiroga, per aver sciolta la coscienza delle milizie dalla religione dei giuramenti, e mutato in virtù lo spergiuro; si ripercosse fra di noi.
L'esempio quindi della Spagna che militarmente sollevossi per ottenere la costituzione del 1812, mise fuoco alla mine; e nel regno fu sì grande e sì esteso il moto di libertà che al grido di Viva Dio, il Re e la Costituzione, l'esercito trovantesi in Monforte, preso a capo Guglielmo Pepe, comandante di un dipartimento militare, disertò dalle regie bandiere. Il Re ondeggiante dapprima tra il resistere e il cedere se ai rigori del dispotismo, o alla blandizie della libertà abbandonar si dovesse; in fine del 6 luglio adagiossi, promise la desiderata Costituzione, e il 13 dello stesso giurolla.
Interminabili le allegrezze del popolo in tutto il regno, inewsauribili le grida del viva, i poeti intrecciavano inni, i sotterranei bui dei forti si vuotarono di prigionieri, lì ammucchiati, quando Ferdinando lavorava a tirannide; gli esuli tornavano agli abbracciamenti dei loro cari e a salutare il suolo della patria. In mezzo a questa esplosione di entusiasmo e di auspicati tripudii si compirono le elezioni dei Deputati al Parlamento napoletano. Francesco Vivacqua di tarsia, Domenico Merice di Rossano, Pasquale Cerelsi di Fuscaldo, Francesco Le Piane e Domenico Matera di Cosenza furono gli eletti; e a supplenti, richiesti dalla Costituzione del 20, Giuseppe Giacobini, d'Altomonte e Domenico Critoni di Rossano. Il re, udito nella camera il discorso inaugurale rispondeva con rendimenti di grazia a dio, che aveva coronato la sua vecchiezza, con circondarlo dei lumi dei suoi amatissimi sudditi, onde veniva fatto obietto di canto:
 
Il rampollo di Enrico e di Carlo
E che ad ambo cotanto somiglia
Oggi estese la propria famiglia
E non servi ma figli bramò
Volontario distese la mano
Sul volume di patti segnati;
E il volume dei patti giurati
De la Patria su l'ara posò.
Rossetti - Il veggente in solitudine

  Fra tanta esternazione di gaudio, di auguri e di speranze, fra tanto osannare e scintillio di armi e di nastri, che non solo nella capitale, ma in tutti i paesi delle provincie, dove più dove meno avveniva; malcelata, come bruna nugoletta sulla cima della montagna in lontano orizzonte, appariva un'ombra fosca, la Sicilia in rivolta ed in armi. Si mandava sollecitar l'isola generosa che desse tregua ai moti e aderisse essa pure alla costituzione spagnuola. Ma Sicilia messa in sul tirato, fe' rumoreggiare artmi a difesa; in quella che altra nube infoscava l'orizzonte, cioè: la Corte di Vienna pendeva per la ripulsa di ricevere l'Ambasciatore Costituzionale di Napoli, invitando il re Ferdinando ad un congresso di principi in Lubiana.
Augurii, applausi e speranze accompagnarono la partenza del re; augurii e speranze fallaci poichè l'urna del tempo nascondeva sorti contrarie. Il 20 Marzo il re ritornò in coda a cinquantamila Tedeschi, cui le proteste del Deputato Poerio non valsero ad arrestare.
Sotto buoni capi il parlamento risolse, per far fronte allo straniero liberticida, condotto dal re, mettere Napoli e il regno e sforzo di difesa. Si riunirono trentamila soldati, ingrossati dalle schiere inviate dalle sette delle provincie, sotto il comando del generale Pepe. Ma il passo degli Austriaci oltrepassa, prima di raccogliersi l'esercito nazionale, i confini, onde le sorti della rivoluzione napoletana, che tanti sacrifizii era costata, non ostante il buon volere e il valore di Pepe, Garascosa e Rossarol, furono contrariamente decise.
Torno ai Carbonari di S. Marco. Di tutti gli uomini adetti alle armi, secondo gli ordini ricevuti da Vendita centrale, si fecero tre classi: legionarii, i più giovani, militi i più adulti, che avrebber difeso le provincie, urbani che avrebber guaragnato l'interno della città. Un centinaio di legionarii, giovani ardenti di amor patrio, ben provvisti di armi, munizioni e soprasoldo, formanti una prima spedizione, sotto la scorta di Felice Talarico di Filippo e del cugino Gennaro, ambo col grado di tenente, dettero volta e partirono per Napoli, forniti di mezzi dalla setta, a scopo, come da essa dicevasi, di tutelare il Parlamento e lo Statuto, concesso e giurato spontaneamente dal re.
Intanto che cotesta prima spedizione, riunita alle altre schiere delle provincie andavasi per cammino se ne apprecchiava dall'operosità della setta una seconda guidata eziandio da buoni capi. Lo spettacolo di questa partenza va contrassegnata da una esultanza comune a tutta la città perocché ancora negli animi non era caduto il gelo della sfiducia. >Ripetevasi quel grido stesso, che in Napoli, auspicante alla vittoria fu subito coperto col rumore delle fanfare degli stranieri. (3)
I nostri legionarii accompagnati da tanti voti una con quella di Rogiano, di Fagnano e di Cervicati, dopo molti stenti e travagli durati, giunsero alle vicinanze di Castelluccio, ed oltre che qui vennero in conoscenza della condizione delle cose, che piegavano a male; cioè l'esercito nazionale disciolto, turbato dall'ingerenza delle Società segrete, inesperto e disperso, il Parlamento sciolto, la città e le fortezze di Napoli, occupate dagli Austriaci, e la maggior parte dei volontari provinciali, ritornatisi indietro ai loro campi, alle loro officine; oltre che, io dico, che furono edotti del vero stato delle cose, furono inseguiti a fucilate da qualche guardia cittadina, armatasi in quello stremo di torbidi eventi. Per la qual cosa ritornaronsi i nostri; alcuni coprirono la ritirata col favor della notte; altri evitarono di mettersi in evidenza per togliersi allo scherno e al beffardo riso dei vili, stettero chiusi per qualche tempo; i molti fremevano impazienti, come gli schiavi tra i nodi delle vecchie catene. Le libertà nazionali intanto eran sospese, i deputati protestavano tra le spavalderie de l'esercito scioglientesi.
Risparmiamo frattanto la postuma taccia di viltà ai soldati, la debolezza ed inesperienza al governo, di millanteria ai rappresentanti. Una rivoluzione, dice il Cantù uscita dalle società segrete, cade facilmente preda di questa, ove nessuno vuole obbedire, tutti comandare, e l'intrigante e il chiassone soperchiano l'onestà e la modestia del moderato. (4) Mancò però la virtù dei casi estremi! L'occupazione militare intanto in Napoli al regno costò centocinquantotto milioni di ducati [un tomolo di grano, circa 55 kg, costava 1 ducato e mezzo], e il popolo a cui spiaceva la presenza degli stranieri, vide Re Ferdinando, condotto nuovamente a governare da Re assoluto, non mostrò quelle gazzarre, che suole ad ogni nuovo vincitore, del quale seimila perirono per vino, per clima, per vizii. Ma il regno tutto, e specialmente la popolosa Napoli, parea che avesse perduto tutto il suo brio. E di tutte le provincie avrebbe potuto dirsi lo stesso, come di Napoli, in quella che il governo intendeva al riordinamento del regno, sconvolto dal turbine della rivoluzione e dalle arti bieche della Carboneria. Udiamo il Rossetti che batte la via dell'esilio; dopo entusiasta avere inneggiato al re:
 
Muta l'ampia città partenopea
Squallidi i campi ch'eran pria sì belli!
E al rumor della querula marea
Ch'iva a sfumar nei prossimi castelli,
Da le cave prigioni a me parea
I geniti ascoltar de' miei fratelli!
E il sole, il sol mi parve un giorno intero
Funebre lampa a vostro cimitero!
[Rossetti] - Il veggente in solitudine

  Ripiglio il seguito dei nostri legionari. Da una delibera del decurionato di questo Comune, 12 Gennaio 1821 ho rilevato che una risposta a lettera dell'Intendente dell'11 dello stesso mese ed anno, si rapportano i nomi di coloro che in qualità di militi si dovettero ratizzare proporzionatamente per giungere alla somma per rata del vestiario completo alla quota di otto militi della Compagnia di questo Circondario, destinata a far parte del battaglione marciante per Napoli, sotto il comando di Felice Talarico in ragione di 4 venti (£. 85) per ogni vestiario, giusta le premurose disposizioni del signor Colonnello, Duca di Cerisano, con lettera 28 e 31 Dicembre 1820, dirette al Signor Ignazio Valentoni, comandante dei militi. Dagli altri militi poi del Circondario si sono pagati come sopra soldo del menzionato vestiario altri ducati cento (£. 425); cioè da quei di Rogiano D. quaranta (£. 170), altrettanti da quei di Fagnano e venti (£. 85) da Cervicati. La qual somma si è pagata nelle mani del loro capitano comandante Ignazio Valentoni, in D. 170 pari a (£. 722.70). (5)
Stante che la setta della Carboneria ha avuto in questo periodo di tempo tanta parte nelle cose della patria, ed in S.Marco era numerosa, crederei defraudare i lettori, se non facessi qui alcun cenno della organizzazione di essa, del modo come riconoscersi e della formula della tessera degli affiliati. E siccome non a tutti piacciono le notizie di un tempo, che irrevocabilmente scese in seno dell'eternità per chi ne fosse vago come che sparte reliquie di età stravolte ed infelici; le metto in nota. (6)
Nel provvedere all'ordinamento del regno, una delle cure del governo fu quella di dare i pastori alle sedi vescovili, che da più anni erano scoverte. Dopo la ristaurazione del 1820 fu mandato nel 1824 in S.Marco M[onsigno]r Felice Greco da Catanzaro, al Vescovo di Oppido fratello germano, contrassegnato con l'appellativo di gentiluomo e di benefico. Essendo in quel tempo vescovo in grande aspettazione, per la nostra città la venuta di lui fu un avvenimento, sì perchè la diocesi era stata vedova per circa dieci anni, e si perchè sentivasi il bisogno di rappacificare gli animi, dalle vicende politiche disorientati. V'era stato il Mazzei, è vero ma era vissuto come vescovo appena un anno, e quindi nelle cose scompigliate della chiesa, del Capitolo e della mensa vescovile non aveva potuto porre ordine alcuno.
La mancanza di prelato aveva fatto risentire maggiori le sofferenze della carestia del 1820, e quindi le accoglienze e le feste fatte al Greco furono oltremodo entusiastiche; unanimi, degne qual convenivasi a nuovo pastore, che oltre l'essere fratello di un altro vescovo e appartenere a famiglia distinta calabrese, era preceduto da bella fama di bontà e gentilezza, onde le speranze che su di lui posò il paese, risposero pienamente nell'avvenire.
Notevole sopra di ogni altra cosa nell'episcopato di questo buon Presule fu la predicazione di un tal Mosciari, fatto venire in S.Marco appositamente da Catanzaro nella quaresima del 1825. Non sogghigni lo sciolo [saputello] in sentir bene di un uomo della chiesa; come un fatto politico suole cangiare la fisonomia di un'età la faccia d'una terra, il contrassegno di un secolo; così un fatto religioso cangia talvolta con pari efficacia il morale di una città; anzi di tale effetto è la parola del Verbo che, accompagnata dalla grazia, produce i miracoli della diffusione del Vangelo che tutti sanno. La circostanza di quell'insigne propagatore dell'evangelica parola, di Mosciari, di cui la grandezza non d'altro va misurata che dalla stregua di fatti preziosi della parola di lui, ci sarà sempre carissima. Presso i vecchi del mio paese di circa trenta o quaranta anni addietro era il nome di Mosciari in benedizione; poiché a loro dire, non s'erano mai visti in alcun missionario i prodigi della grazia, di che, secondo la espressione scritturale, le mani di lui non erano vuote.
Tutto quello che cotesto santo missionario seppe fare in mezzo al popolo sammarchese solevano quei nostri buoni padri compendiare in una sola frase: S.Marco, essi dicevano, prima che venisse Mosciari, era selvaggio, noi da lui si imaprò a conoscere Dio. Ed invero tutto quello che religiosamente e moralmente fu vantaggioso non si apprese se non che da lui. S.Marco era invecchiata a brutta sentina di colpa, società coniugali disciolte o per manco di virtù o per doveri traditi, famiglie per malo esempio di genitori sconvolte e basta; poiché il pensiero rifugge dallo spettacolo che in quel tempo presentava la città sfigurata dell'Evangelista. Mosciari con la virtù del sacrifizio del martire e dell'apostolo, con le altre doti di umiltà e di mansuetudine, ond'era addormentato, e con quel segreto e quel fascino che alcuni uomini di dio possiedono, seppe fare di questa città un popolo di buoni cristiani. Quante estorsioni compensate! Quanti odii e d inimicizie riconciliate! Quanti gravi offese e offese di sangue, perdonate! Era venerato come un Santo; dava sì largamente ai poverelli, da rimanere d'abiti e di lini sprovvisto per lo scambio di essi.
Una casualità poi, fosse caso, fosse volere di Dio avvalorò maggiormente la efficiacia del suo minstero
Un giorno era la chiesa piena oltre l'usato, quasi nessuno mancava della parte colta del paese, ed il missionario predicava sul perdono dei nemici: aveva esurito tutti gli argomenti, aveva preso il crocifisso, e tenendo la croce dalla parte dei piedi e dalla parte della testa disteso, dicendo: Chi non vuol perdonare, vale a dire che ha il coraggio di passare su questo divino cadavere! Ma gli parve, e forse era vero, che l'uditorio contrariamente all'effetto altre volte ottenuto, non desse segno alcuno di arrendersi alla parte compuntiva della sua predica. Allora il missionario in un impeto subitaneo di sublime affetto si gettò ginocchione sul pergamo e con le palme giunte e con gli occchi levati al cielo gridò: Signore mio G. Cristo, se la parola del vostro indegno servo non vale a spetrare i cuori di questi vostri figli, spetrateli voi con la vostra grazia, misericordioso Gesù! Profferendo queste parole testuali, che la tradizione ha religiosamente serbato, un forte tremuoto scosse dall'ime viscere la terra, onde parea che la Cattedrale si rovesciasse tutta su quella immensa folla di popolo.
Un grido immenso, invocante la misericordia del Signore fu l'effetto di quel dolore, e in luogo di fuggire, continuò a sentire il predicatore, che l'eccitava a fermarsi, ed immagini il lettore qul partito da questa imprevista circostanza abbia saputo trarre. Quale scena! Quale spettacolo! Qual vittoria di Cristo sopra Satana! Un furore di grida, un piangere dirotto, un abbracciarsi affettuoso, un andarsi cercando fieri nemici e baciarsi, un ripentirsi profondo delle proprie colpe, un condonarsi le offese, un domandare di confessarsi lí per lì fu le'effetto che seguì, effetto che può meglio immaginarsi che esprimersi.
Si riteneva in quel tempo ottimo consiglio tra popoli che uscivan dai vortici contaminati delle rivoluzioni e delle corruttrice conventicole delle sette raddoppiare le pacifiche e serene gioie della religione, come contrapposto salutare alle tumultuarie della rivoluzione, scene che tornano commoventi a care al pensiero, come le ore più belle di passato senza rimorsi, e dolci come le memorie dei nostri trapassati, il mio buon padre che avea del patriarca, contemporaneo di quei giorni, mi recitava racconto di quello che allora avveniva, con la mestizia del rimpianto.
Marco Can.co Picarelli, Gaetano Can.co Ruffo, Michele Can.co Perrotta, Mosciari ed Emiddio De Pasquale, giovinetto che cantava inno alla Croce, furono i novelli cirinei che dovettero portare in spalla le cinque croci. A seconda che nel luogo designato se ne trapiantava una, l'atto si accompagnava dal missionario con un fervorino: ed un fiero picchiar di petti un furore di panto rispondeva ai pietosi accenti del santo prete, cosa più commovente in ordine a commozioni religiose che si era vista.
Da vescovi e da missionari che si mandavano di mezzo a popoli, che baldanzosi contro ofnbi autorità avean trescato, il governo richiedeva quel che sempre ad un ministero di pace e di amore reputossi contrario, ingiusto, vergognoso, (7) il rapporto su la politica e la morale. Matuttoché si camminasse ancora su la cenere degli accesi carboni delle cospirazioni del venti, né il Greco di illibata memoria, né il santo Mosciari han leso alcuno; anzi di quel Vescovo si decantano i buon i rapporti presso le autorità civili, che valsero a riconciliare individui e partiti.
Un quaranta in cinquant'anni dopo in circa, essendo quel calvario per vetustà prossimo ad andare in totale rovina, si volle rinnovare per iniziativa di un mio cugino Cristofaro Ignazio Can.co, e poscia Decano, che all'operosità congiungeva lo zelo per la casa di Dio; e in mezzo a plaudente popolo divoto, le cinque croci furon portate da M[onsigno]r Vincenzo arcidiacono Campagna dallo stesso Ignazio Cristofaro, da un tal Figliolia, ex Gesuita, che in quell'anno predicava la Quaresima in S.Marco, dal sacerdote Luigi Romita e dall'autore di queste memorie, il quale fu adibito a dire i cinque analoghi discorsetti, dal colle, che coronato di castagni, prospetta il Calvario stesso.
 
Capitolo IV parte II
 

 

(1) Tutti gli storici di cose napoletane fanno cenno alla Setta dei Calderari, ma se ci fosse alcunché di reale, mostrerebbe che le società segrete, se non sieno terribili, riescono ridicole, e mentre credono avere in pugno il fulmine, non hanno altro che uno zolfino. Ma poiché ormai una cosa ad un uomo non è quel che è, ma quel che se ne dice, passò in giudicato, che tale setta istituita da De Maistre, avesse a capo Francesco IV di Modena e il Duca del Genovese, che fu poi Re Carlo Felice, il Principe di Canosa, altri Principi e Prelati.
Io non potei, scrisse il Cantù, mai venire a concetti positivi intorno a questi Sanfedisti, o sí Calderari, che dicansi corrispondere nel Napoletano.
Io posi prima in luce, poi venne da altri stampata una informazione su ventotto società segrete, comparse nei processi del 1821; ma dei Sanfedisti o Concistoriali dice continuo parlarne i Carbonari pontificii, pretendendoli diretti ad espellere gli Austriaci, e ristabilire la preponderanza della Corte di Roma; però non seppero mai esibire più accertate notizie.
(Cantù: Vol.II Della Indipendenza italiana. Cap.XVI pag.136.)

(2) I Carbonari derivavano dai Franchimuratori e di questi adottarono alcuni riti e la gerarchia; non ristettero com'essi, soltato alla beneficenza ed ai godimenti, ma tolsero per iscopo la indipendenza della patria e il governo rappresentativo; anzi in Calabria loro nodo, avevano costituito una vera repubblica. I patrioti studiarono usufruttare la mal dissimulata ambizione di Murat, il quale porse orecchio alle insinuazioni, ma la tenne in petto, finchè Napoleone potente. Quando poi ai geli settentrionali si fu appassita quella gloria ch'era sbocciata ai giorni nostri soli, gli si fecero attorno con maggiore istanza: essere opportuna l'ora, vuota di eserciti d'Italia, indecise le sue sorti, i popoli disgustati e degli antichi e del nuovo dominio; gli alleati stessi darebbero mano a chi si chiarisse contro Napoleone come avevano fatto col re di Svezia.
I Carbonari Napoletani in ispasimo di una costituzione, simigliante a quella del 1812, data in Sicilia, fecero intelligenza coi Siciliani e con Bentik, il quale prometteva, se fossero ripristinati i Borboni. N'ebbe sentore Murat, e alla napoleonica, nemico di ogni statuto, fin di quel di Bajona, proscrisse allora i Carbonari, e raddoppiò la vigilanza. Mandato il formidabile Manhes in Calabria, per basso tradimento nel 1813 fu preso ed ucciso Vincenzo Federici, detto Capobiamo, che n'era il capo in Cosenza; e si usarono violenze non altrimenti che ancora si trattasse di masnadieri.
Sotto il dominio di Murat era nata nella Calabria la società dei carbonari contro l'invasione sì delle idee, sì della dominazione forestiera. Teneva gran parte di riti massonici, se non che mentre i Franchimuratori proponevano di vendicare Iram, e andavano in festa e in deismo confacente con la filosofia del secolo passato, I carbonari di forza melanconica, voleano vendicare la morte di Cristo, e ristabilirne a loro modo il regno. La polizia napoletana, non avendo potuto impedirne la grande diffusione, pensò corromperli, come s'era fatto con la Massoneria, facendovi aggregare e spie e magistrali e lo stesso re, massime dopo che egli ruminò l'indipendenza. L'esercito di Murat che v'era tutto iscritto, nella sua ultima invasione lasciò molte vendite nelle Legazioni, d'onde si diffusero nella Lombardia, e massime a Bologna, Milano, Alessandria. Per opera di alcuni nostri Napoletani, esuli nel 1799, s'introdusse in patria e in Francia, in Svizzera e in Alemagna, dove la setta portava altro nome, e i Franchimuratori erano divisi in Logge del rito moderno, Logge del rito antico o scozzese, e Logge del rito Misraim, o Templari (che ora in Francia dipensono dal grande oriente, corpo dei deputati delle singole logge) e che nelle parole libertà, eguaglianza, fraternità con le quali durante la rivoluzione, compivasi il quotidiano gioco del Triangolo di acciaio, cambiarono l'ultima in umanità. Su questo tallo fu innestata la Carboneria, principalmente d'Armando Bazar che poi fu dei primi Sansimonisti, del fiorentino Bonarrotti, già apostolo di Baboeuf da Flofard e Buches. Per dire alcuna che del loro ordinamento una vendita particolare non comprtendeva più di buoni cugini in numero di venti, in relazione fra sè, ma isolati dalle altre Vendite: i Deputati di venti parziali formavano una Vendita centrale che per via di un Deputato comunicava con l'altra Vendita, e questa per un emissario riceveva l'ordine della Vendita superiore e da un Comitato di azione. Ciò aiutava il segreto, la diffusione e i ritrovi senza togliere l'unità. Nulla scrivevano, ma partecipavansi a voce, si conoscevano per mezzo di carte tagliate e delle parole Speranza e Fede: alternavano le sillabe Ca-rità, stringendosi la mano, faceano col pollice il C e la N. Lo spergiuro e il rilevare il segreto dei segni, del regolamento, dello scopo erano puniti di morte. Versavano alla cassa comune un franco per mese. I dissidi fra loro si componevano dai capi. Fraternizzavano con gli Illuminati di Germania, con i Franchimuratori di Svizzera, coi Carbonari di Napoli, di Piemonte, di Lombardia e di Spagna ai quali fu commesso di fare i primi tentativi, che, secondati da altri, aprirono l'abisso ai malcompaginati governi di quel tempo.
(Cantù Storia Univ. Epoc. XVIII. Il settecento, pag.64)

(3) Questi i nomi di quelli che sotto il comando di Felice Talarico di Filippo, giunsero in mia conoscenza: Felice Talarico, Gennaro Talarico, Domenico Caporale, Arcangelo Mazziotti, Nicola Gualtieri, soprannominato Pane di Grano, che non so, se sia il brigante che sotto tal nome militò tra le schiere dei Sanfedisti, Andrea Siciliano, Bruno Talarico, Domenico Battaglia, Francesco Antonio Milena, Vincenzo parisi, Pietro Piccolillo.

(4) Pepe Memorie, II Cap. XI descrive gli effetti della Carboneria, di che tanto lagnavansi gli Ufficiali superiori, avversi al governo Costituzionale

(5) Qui dietro ho messo la lista di coloro che in qualità di legionarii fecero parte del battaglione che marciò alla volta di Napoli, qui mi piace di far conoscere i nomi dei Militi oblatori che munirono di vestiario i partenti per fare che in S. Marco le buone cause, eziandio sfortunate, han trovato sempre eco nei cuori. Ecco i nomi: Luigi Aiello, Michele Cristofaro, Filippo Fera, Saverio Misuraca, Giuseppe Talarico, Nicola Pagano, Arcangelo D'Ippolito, Bruno Talarico, Angelo Credidio di Domenico, Gaetano Sicilia, Giuseppe Scarpelli, Giovanni Piemonte, Filippo De Marco, Francesco Loffredo, Nicola Rondinelli, Domenico Battaglia, Francesco Vivone, Arcangelo Rimedio, Antonio Amatuzzi, Antonio Candela di Giuseppe, Antonio Longobucco, Angelo Credidio di Nicola, Francesco Dardis di Vincenzo, Vincenzo Aiello, Giovanni Batt. Fragale.

(6)
A... G... D... U...
In nome e sotto gli auspicii di S.Teobaldo e dell'A... V...
La R... V... I... V... (qui il nome della Vendita).
A tutte le VV... RR... Regnicole ed estere
S.S.S.
Noi G.M. e membri dignitarii di questa R... V... regolarmente costituita dall'O... di (il nome del luogo ove esiste la Vendita) chiariamo ed attestiamo che il B... C... C... (qui il nome dell'affiliato, il luogo nativo, la provincia, l'età e la condizione) sia membro di questa R... V... in grado (o di maestro o dis emplice affiliato). La sua buona condotta morale e la regolarità dei suoi esatti travagli ce l'han reso caro e stimabile. Invitiamo perciò tutte le VV... dei B... D... C... C... di riconoscere il B... C... (N) nella sua accennata qualità accordandogli la considerazione che gli è dovuta, e somministrargli dei soccorsi in caso di bisogno, siccome avremo la soddisfazione di fare per esse. In fede di che gli abbiamo rilasciato il presente diploma fatto e spedito all'O... (il luogo) il dì (giorno mese ed anno) firmato di nostro proprio pugno e munito del nostro Bollo e Suggello per aver pieno ed intero effetto dietro il confronto della firma del detto B... C... avanti di noi.
Il B... C... Segr. (il nome) + ... 2. Ass.91 BC... G... M... Il B... C...
1. Ass. (nome del Dignitario) + (la firma del Gran Maestro + il nome dell'assistente + ...)
Per mandato conforme della R... V... 91 B... C... Orat... 91B... C... Ies... Il B... C... Bollato e Suggellato da noi EEE.
La presente formola una con le altre carte, un triangolo, un teschio di morto, un pugnale con manico lavorato in argento (forse opera di Greco) ed altri oggetti simbolici furono da me rinvenuti in una cassetta nel soffitto al di sopra della volta della Chiesa di S.Marco Evangelista, dove come ho detto, fu una delle due Vendite di S.Marco, ed ove mi dovetti recare per nascondere alcune carte in tempi di pericolose ricerche.

(7) Il cav. Medici dei regii consigli avea rappresentato la Carboneria come vaghezza e delizia di poche menti, e accertando a re divoto (con astuta menzogna) che i missionarii pervenivano col santo mezzo delle confessioni a dissiparlo (Colletta: Storia del Reame di Paolo, Vol. II, lib. IX, cap. I, pag,236)
Ecco la ragione, per la quale spesso le insulse dicerie contro la confessione acquistano credito e si spacciano senza cognizione di causa, né ombra di verità.

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A cura di Paolo Chiaselotti