Col cessare del regno di Ferdinando I, venuto a morte dopo sessantacinque anni di
regno, il quale stette fra due secoli, e dei quali la immensa distanza non comprese,
vedendosi salire al trono il figlio Francesco, che alla sua volta morendo cadette
il posto a suo figlio Ferdinando II, gli animi si aprirono a speranze augurali,
confortatrici.
Egli ascese il trono di Napoli fra i bollori del 1830, senza colpe da mascherare,
né vendette legate da compiere. Egli proclamava voler porre rimedio alle
piaghe del paese, ed invero parve candellarsi le tracce di tanti mali; onde le barricate
di Parigi eco alcuno non ebbero nelle nostre contrade.
Per fare il bene né lo intendimento, né la capacità mancavano
al principe, se fosse vissuto in tempi più sofferenti delle evoluzioni, e
meno smanianti di novità e di rivolgimenti. Alle pubbliche sventure di tremuoti
nelle Calabrie, d'eruzioni del vesuvio e dell'Etna, accorse premuroso; moderò
spese ingenti di corte, attenuò le pene ai condannati di stato e ne abbreviò
l'esilio. Quando nel 1837 scoppiò nella città partenopea il colera,
buttossi in mezzo ai malati, si mescolò con la plebe, ne mangiò il
pane per rimuovere il divulgato sospetto d'avvelenamento, e copia diede di sussidii.
Così pur noi vedemmo Re Umberto nello straripamento dell'Adige e del Po,
nel disastro di casamicciola nel luglio del 1883, nel colera di Busca e nell'epidemia
di napoli nel 1884. Re Ferdinando allora, come re Umberto, fu generoso e magnanimo
e destò un'eco di simpatia tra tutti i popoli civili.
I regnicoli respiravano, e beni maggiori s'intromettevano per l'avvenire. Non mi
sono usciti di mente le feste, le luminarie, il rumore degli spari che si fecereo
per l'assunzione al trono del giovine principe e per le sponsalizie con la figlia
di carlo felice, Maria Cristina di Savoia.
Ma dopo la morte di costei, donna di tale virtù, che compianta con lutto
universale, come se il trono avesse perduto l'aureola di luce che l'adornava, oggi
ancora è indicata col nome di santa; onde sposava il Re in seconde nozze
Maria Teresa d'Austria, l'orizzonte cominciò ad offuscarsi, mai i popoli
del regno quasi stanchi di lotte e di perigli, parea vivessero tranquilli, anzi
i molti si sforzavano a far dimenticare il passato, promuovendo distrazioni di onesti
trattenimenti. In questo periodo di tempo in S.Marco, forse per addormentare il
torbido sogno di spezzate illusioni, si diede opera alla costruzione di un teatro;
affinchè schiere di signori dilettanti potesse offrirvi grazioni spettacoli
a diletto di tutti; a nobile gara di azione di molti, a palestra onoranda di pochi.
Chi nol sa? Qualunque ne sia stato lo scopo, il teatro, purché saviezza di
consiglio presieda alla scelta delle opere, che rappresentar vi si debbano; è
onesto passatempo fra le cure mordaci della vita; è scuola di virtù
e di morale insegnamento, messo in azione, è ispiratore di patrii affetti,
è satira non maligna né furibonda di caratteri scaduti, di costumi
rilasciati, di usanze ammodernate su la falsariga del foresterume. Ricordo io fanciullo
quelle paesane rappresentazioni, le cui vive riminiscenze ispirarono ai loro nipoti,
che su l'orme dei padri camminarono, poiché il cammino del passato prolungasi
nel futuro, la tendenza passionata al teatro, onde anch'essi ebbero il geniale ritrovo
teatrale.
Da mezzo alle visioni artificiali di tanta serenità di spiriti, da cui si
diffondeva intorno, come un'onda di poesia, vennero in S. Marco due improvvisatori.
La musica dei loro suoni era quasi un velo pietoso, chge si stendeva sui lutti passati
e le ingannatrici illusioni di un'età maligna; e in pari tempo acuiva le
ascose speranze dell'avvenire. Primo venne l'improvvisatore Conciolini che se la
memoria non mi fa difetto, era gozzo di un piede, onde movevasi col sostegno di
una gruccia. Oltre i molti improvvisi, improvvisò fra la meraviglia degli
spettatori una intera tragedia a soggetto dato. Dopo qualche tempo, mentre ancora
non si era spenta l'eco dei suoni del Conciolini, vedemmo tra noi un Gallotti, giovine
questo adulto quello; ma sì dell'uno come del secondo la venuta non apparve
senza mistero; io in quel tempo ero chiuso, n´ potea comprendere nulla, ma
più tardi seppi, che per quanto i tempi il comportassero, di sotto il volume
dei versi trasparivano concetti che tradivano in parte le impostesi cantate. Era
il gentile idioma italico della bell'arte dei carmi, che sebbene passato inosservato
dai molti, auspicava al lontano ideale delle native contrade. Erano gl'itali bardi
ch'ivan ricingendo di fiori la bara di una povera morta, di cui aspettavasi la risurrezione.
I nostri precettori di quel tempo Padula,
Selvaggi
[Vincenzo], Paladini e Pagano erano tutti collaboratori del Giornale scientifico
Il Calabrese, fondato in Cosenza da Saverio Vitali e Francesco Scaglione,
cosentini, a scopo di diffondere lumi e richiamare alla mente dei presenti le glorie
degli avi. Noi si leggeva quel periodico; e pieni come si era degli echi delle rivoluzioni
di già cadute e dello spettro dell'antica Roma che nei versi melodiosi di
Virgilio e nelle eloquenti orazioni del gran Tullio, perseguitava incessantemente
la gioventù si volse il pensiero, le scuole di letteratura e filosofia alla
compilazione di un giornaletto, impresa nuova in Seminario.
Il nome messo in capo al giornale «La Ghirlanda» l'epigrafe o meglio
il motto, una terzina di Dante:
L'acqua ch'io prendo giammai non si corse
Minerva spira e conducemi Apollo
E nuove Muse mi dimostran l'Orse
La direzione del Giornaletto allo scrivente di questi ricordi: le condizioni:
uscire una volta al mese EF. E così S.Marco per la prima volta con nuovo
esempio vide partire dai discenti dello ecclesiastico Istituto-Convitto un manipolo
di spighe, che oltre far testimonianza di quel sacro fuoco di Vesta in quel sacro
palladio ardesse, designava da tempo la riuscita di quei giovani intesi a quel lavoro
modesto sì, ma avente carattere di sacerdozio e di apostolato. Ah! io conservo
ancora alcuni numeri della fiorita Ghirlanda, che in quel bel tempo infiorava le
nostre balde fronti giovanili, come pegno di un avvenire non disdetto, poiché
la maggior parte di quei giovani col magistero dello insegnare e delle discipline
educative onorano il Convitto e la patria.
In fama di ottimo fu sempre il nostro Seminario e per corpo insegnante e pel corpo
dirigente, ma in fronte ai giovani non alitò più quello spirito vitale
che nasce dal genio.
(8)
Una generazione fiorente allora veniva spinta verso le alte regioni ove l'attraevano
con moto ascendente dello spirito Goethe, Byron, Manzoni, Kant, Hegel, Alfieri,
Vico, Chateaubriand, e soggiogata dal segno dei tempi, fremeva impaziente di rompere
gli indugi e raggiungere i suoi grandi ideali. Lo stabilimento per le cure sapienti
di M[onsigno]r Marsico era sì ben costituito, e vi alitava dentro uno spirito
nuovo, che fe' dire all'autore del Commento di Dante, al Mauro, ed a Francesco Desantis
che il collegio S. Adriano e il Seminario di S.Marco erano i due istituti che sopra
gli altri distinguevansi per trovarsi al livello dei tempi.
Senno, maturo, serietà di carattere e intelligenza di tradizionali discipline
educative erano il precipuo ornamento di chi teneva il peso della direzione; e gli
insegnanti schivi di titoli ad Honorem, eran paghi d'esser noti nella palestra letteraria.
V.
Campagna, oramai Arcidiacono, chiamato
a dirigere, non che pel merito, anche per non potersi dire del paese: hereditas
nostra versa est ad alienos, domus nostra ad extraneos; poichè codesto bravo
ecclesiastico tenne sempre come principio che i forestieri non debbano essere adoperati
alla educazione della gioventù della diocesi; V. Padula, Paladini, Pagano
e
Selvaggi sono nomi che impongono il silenzio;
e quelli che furono loro seguaci Balsano,
Rocco,
Candela e lAutore [
Salvatore
Cristofaro] di questo scritto, uomini a cui malevole diceria e cicaleccio
vano di fogliettanti non arrivano a sfrondare la corona, che cinquant'anni d'insegnamento
e più generazioni di grati alunni posero sul suo capo venerato. Quando ad
un mal consigliato piacque rievocare sfatate calunnie e spudorate menzogne per far
la tara a quel tempo, si meritava il perdono, perché non sapea quel che si
diceva.
Facendo seguito a quel che si è detto poco innanzi, ai poeti il canto, ai
tempi stessi la cura di maturarsi. Proficui sopra ogni altra cosa riuscivano i Congressi
scientifici che or in una, ora in altra parte d'Italia si riunivano: in essi si
ravvicinavano gli animi ed eran cagione di conoscersi e far sì che si parlasse
d'Italia. Eran geniali adunanze, aventi scopo di mostrare quali problemi abbia dinanzi
a sé la scienza; quali vicini ad avere una soluzione e quali lontana Se nuovi
ne sfavillino su l'orizzonte intellettuale. In ogni caso però le condizioni
dell'Italia erano il punto, a cui convergevano tutte le scientifiche discussioni.
Quando Massimo d'Azeglio nel Congresso napoletano intese la parola dei meridionali,
specie del nostro Cesare Marini, disse parole di meraviglia intorno alla prestezza
e volontà con cui esponevano i proprii pensieri; era la prima volta che convenivan
fra loro italiani settentrionali e meridionali. Al canto dei poeti e all'azione
pacifica propagantesi dai congressi, si aghgiunse lo scontento per le tristi scene,
che contristarono il regno ed in special modo le Calabrie, scene ch'ebbero un'eco
dolorosa sopra S. Marco. Erasi in sul 1843, e, scemandosi la fiducia dei popoli
nel governo; i tempi si andavano sempre più intristendo, onde una vaga ed
incerta inquietudine, accompagnata dal desiderio indomabile di cose nuove,possedeva
gli animi di tutti.Le stragi del Cilento, fra cui la morte dei fratelli Capozzoli;
di quelli di Bosco e di Manforte; lo eccidio di Gerace, e più tardi i massacri
di Cosenza, gettarono un'ombra fosca sul regno e sulla persona di Ferdinando II,
e , poiché di M. Teresa d'Austria era divenuto consorte, il nostro regno
non era se non che mancipio dell'Austria.
Quello che poi soffiava nel fuoco era l'opera dei patrioti. Mazzini incoraggiava
un movimento nelle Calabrie, non fosse altro per mantenere vivo il sentimento patriottico
e far conoscere all'Europa la mala signoria e lo scontento dei popoli soggetti.
Plutino da Reggio e Fruginele da Cosenza fecero conoscere ai patrioti calabresi
anche l'opinione del Comitato italiano rivoluzionario di parigi che dei moti insurrezionali
dovessero incominciare nelle nostre provincie. Fra tanto agitarsi di uomini e di
cose si venne persino alla determinazione del tempo d'insorgere. Intorno a ciò
si feè grande controversia: la maggioranza dei socii era su l'avviso di aggiornare
la sommossa, perchè non ancora preparata bene, nella ventura stagione, ma
l'impazienza dei più audaci non che volerne sapere l'indugio, vollero si
fissasse indeclinabilmente il giorno 15 marzo di quell'anno 1844.
Ciò non pertanto fuvvi non so come sbaglio intorno al giorno; o forse moltissimi
per essersi di soverchio compromessi, e non sperando scampo e salvezza se non nell'affrettare
la insurrezione; sebbene non fosse giunta la schiera dei lontani che pel dì
15 erano appunti; incautamente e precipitosamente riunironsi In Settimo presso le
così dette Querce di Frugiuele il giorno 13 e sbagliato l'accordo, cadde
la sommossa affogata nel sangue. In su l'albeggiare del giorno 14 a bandiera spiegata,
splendente dei tre colori, e portantesi da Federico Franzese da Cerrzeto, due o
trecento giovani, lusingandosi prender la città per sorpresa, entrarono in
Cosenza, e diritto al Palazzo dell'Intendenza fra le grida di viva la libertà,
morte al tiranno! Dai colli che incoronano Cosenza molte schiere armate aspettavano
non per quel giorno ma pel 15, e sì per questa ragione e sì perchè
videro quell'esiguo numero, nè essi nè i Cosentini scesero alla pugna.
Ma l'autorità che tutta la notte del 13 erano state alla vedetta per aver
di già sventato il disegno insurrezionale, furono pronte a dare addosso agl'insorti,
e di stragi e di lutti si riempì la città del Crati. Gl'insorti nella
pugna troppo ineguale furono dispersi, chi giacque estinto e chi ferito, chi imprigionato,
aspettando feroce sentenza di morte. Dalla parte regia il capitano Galluppi, figliuolo
del gran filosofo, che vuosi aver parte nella congiura, ma che dal poco numero scorato
avesse fatto il suo dovere, cadde rimpianto per le vie della città. Francesco
Melfi, Michele Musacchio, Emanuele Mosciaro, Francesco Coscarella e Giuseppe De
Filippis morirorno combattendo in quella infausta giornata. Nel dì 11 luglio
poi dell'anno stesso furono passati per le armi Nicola Corigliano, Antonio Rao,
Gianfelice Petrassi, Pietro Villani, Raffaele Camadeca, Santo Cesario e i fratelli
Scanderberg Franzese, tutti cospiratori di quel movimento insurrezionale. Ad altri
14, fra cui Domenico Sarni (o Sarri?), Federico Franzese, Giuseppe Petrassi e Domenico
Franzese la pena di morte fu commutata in quella degli ergastoli. Una fosca nube
di tristezza, qual non fu mai, passò sulla città del Crati, e un incubo
di terrore pervase gli animi dei cittadini.
Accrebbe cotesto terrore l'eccidio dei Bandiera e compagni - Attilio ed Emilio,
figlioli di quel Bandiera contrammiraglio a servizio dell'Austria, che nel 1851
aveva arrestato la nave, carica dei vinti di Romagna, disertarono dalla marina austriaca,
nella quale rano ufficiali, ma con Domenico Moroe, eziandio Alfiere, e si erano
raccolti in Corfù, donde volgean la intesa, se sventolar vedessero bandiera
italiana o grido di libertà giungesse alle loro orecchie.
In Corfù giunse ad essi dai lidi calabri:
.... Un rumore
D'oppressi e di frementi,
Di speranze e di dissidii
Di tumulti annunziator.
E prestarono fede ai Giornali
National Geurnal, Des Debats, Siecle, Times,
Democratie, EE, ed altri, che rapportavano con esagerazione il tentativo
insurrezionale della Calabrie. In numero di venti, rifiutatisi di ascoltare le tenere
preghiere della madre dei Bandiera, di Mazzini da Londra, di Nicola Fabrizio da
Malta, e di G.Ricciardi da Parigi; partirono e sbarcarono alla foce del neto presso
Crotone. Anche qui un tal Calorio, possidente crotonese, che lo raccontò
a me, sforzossi a distorli, dall'impresa, che si rivoltassero indietro poiché
erano stati ingannati: a nulla valsero le parole prudenti di quel buon vecchio,
che diè loro soccorso di viveri, e regaloto un pugnale, il dado è
gettato, dissero, e indirizzaronsi secondo la falsa guida a direzione della Sila.
Scoverti, inseguiti traditi ed arrestati furono condotti in S. Giovanni in Fiore,
d'indi in Cosenza, dove, dopo una larva di giudizio, nel dì 25 luglio, udita
imperturbabilmente la sentenza di morte, velato il capo, coperta la persona di lunghe
cappe nere, furono condotti al supplizio nel Vallone di Rovino su la riva del Crati.
Emilio, il fratello minore dei Bandiera gridò di primo: Viva l'Italia! E
i consorti ripeterono lo stesso grido e intonarono il coro di Paolo Pola nell'opera
«Donna Caritea»
Chi per la patria muor
Vissuto è assai!
E caddero estinti nove giovani fiorenti come steli di papaveri, appena aperti,
gli altri agli ergastoli, e Boccheciampi, il traditore, cinque anni di Galera, e
Michela Maluso o la Nivara a 14 anni.
(9)
Un grido di maledizione sollevossi da tutti i cuori contro il Borbone, nei quali
il dispotismo non aveva spento i sensi umani.
(10) Mi perdoni il lettore se ho accennato coteste storie, le quali, sebbene
avvenute fuori S.Marco, pure oltre che sparsero sovr'essa onda malinconica di dolore,
spiegano i fatti che in essa avvennero dopo.
Il mal riuscito tentativo insurrezionale. oltre l'orrore che saprse su tuttta la
provincia, fe' tremare tutti coloro, ch'erano compromessi per ritrovarsi all'opera
il giorno 15, e fu fortuna, che nessun documento potè farli riconoscere rei.
Giacomo Greco, antica reliquia di masonismo e carbonarismo, era compromesso di condurre
seco una compagnia di dieci armati, ai quali si sarebbero aggiunti gli Amodei, ritrovantisi
in Cosenza, Pasquale, Francesco e Alfonso, che indi a poi fecero il loro compito
nelle seguenti rivoluzioni. Il loro padre, accortosi del loro disegno in sentire
i colpi del giorno 14, usò tutti i mezzi, abbarrando perfino le porte di
casa, affinché i generosi e malcauti giovani non andassero al conflitto.
Un altro compromesso era il qui sempre ricordato Vincenzo Selvaggi il quale aveva
di già scritto il canto insurrezionale. Egli appositamente verso i primi
di quell'infortunato marzo ritornò da Napoli con Domenico Mauro, gran parte
di tutti i rivolgimenti calabresi, il quale la asera stessa del suo arrivo fu arrestato
e messo in prigione, e stette sul niego a rivelare i compagni di viaggio Alfonso
Marchianò, Giulio Caparelli, Barci e Selvaggi, i quali tutti previo accordo
del mauro, si sarebbero trovati coi compagni, per la prigionia di Mauro, che, se
li avesse rivelati, sarebbero di sicuro stati messi in carecere. I sospetti sul
Selvaggi andarono aggravandosi, ma M[onsigno]r Marsico, di sempre cara memoria,
ponendolo, come professore del Seminario, lo salvò e in tal modo si rendeva
benemerito alla città per averle protetto un genio. Cosicché la morte
col suo soffio infocato non avesse assiderato cotesto fiore in su lo sbocciare!
Il povero Giuseppe Petrassi da Cerzeto, fratello di quel Gianfelice, che nel dí
11 Marzo, preso con le armi in mano, fu suppliziato, avea scritto proclama appellante
le Calabrie ad insorgere, dopo la caduta delle sorti Calabre, arrestato giovanissimo,
finì di vivere in carcere; onde né l'uno, né l'altro poterono
vedere l'ultima tappa dell'ittalico risorgimento, pel quale avevano speso pace,
vita, lettere e sostanze.
Al Greco in su l'avviso dei fratelli liberali, come da buon artefice d'intagli egli
era, venne il pensiero sull'esempio degli Italiani esuli in Parigi, di coniare una
medaglia commemorativa in onore dei Bandiera e consorti. All'uopo sottomano si fece
una sottoscrizione che produsse una somma da poter fare un centinario di monete
in argento. Si accinse al lavoro sopra un bel disegno, e dal pensiero della medaglia
nacque l'altro di fare commemorazione dei bandiera e consorti e dei calabresi morti
combattendo o passati per le armi nel conflitto infelice del marzo [1844]. A tale
scopo, essendo che il motto d'ordine del Comitato della Giovine Italia era quello
di poter solennizzare l'anniversario di qualche personaggio in fama d'illustre,
come coll'intervento di Sammarchesi, si era fatto in Roggiano, festeggiando Gian
Vincenzo Gravina, rogianese, si propagò che qui in S. Marco, si preparava
una commemorazione dei SS. Martiri Argentanesi, sui quali, possedendo un dramma
inedito d'ignoto autore sammarchese, dramma di cui ho parlato nella seconda parte
di queste memorie, si sarebbe rappresentato sul teatro, che, come ho detto, era
di già nel paese bello e fatto. Questo il pretesto, e così s'indisse
riunione d'amici nello scopo di comunicarsi notizie, speranze, desiderii, dolori
di svanite illusioni, d'intendersi in una meta comune.
S'invitarono all'uopo per quel giorno in S.Marco i Balsano e gli Alfano di Rogiano,
Vincenzo Torano e F. Iacovini di Fagnano, Barci e Petti di Mongrassano, Giulio Maierà
di Cerzeto, i fratelli Stamile da S.Giacomo, Marchianò e Rebecchi da Cervicati,
Ciro Basile da Torano e Posteraro da Cavallerizzo, ed altri, di cui non ricordo
il nome. Ma custodia di segreto e pretesto non valsero a celare la cosa all'occhio
vigile della polizia, la quale, non so come, avuto sentore o sospetto di quel che
volevasi fare, fu messa in su l'avviso. Si operarono nelle case di quelli, ch'erano
in fama di liberali vessatorie diligenze domiciliari, e prima senza veruna suspicione
nella casa del Greco, dove, non essendo compiuto il lavoro delle medaglie, forma,
conio ed altro alla rinfusa, si ebbe a mala a pena il tempo di gettar tutto da una
finestra, sporgente in un orto, onde andò tutto perduto. Le firme dei sottoscrittori
poterono mascherarsi col pretesto della festa dei Martiri di S.Marco. Indi da Cosenza
vennero ordini severi di proibirsi qualunque riunione sotto qualunque scopo, intimando
l'arresto ai riluttanti, e quindi né di medaglie né di commemorazione
fu nulla.
Altra commemorazione avva preparato in cerzeto Giulio Maierà per la morte
di un fratello, e da S. Marco si sarebbe dovuto andare, previo avviso, per recitare
delle poesie, quattro o cinque buoni cugini, secondo l'antico gergo dei Carbonari,
ma per apposta staffetta la vigilia della partenza, fu impedito l'andare con la
minaccia, che tutti coloro, che fossero intervenuti, sarebbero stati chiusi in carcere.
Quali tempi! Quel rigore inacerbiva vie maggiormente gli spiriti ed accresceva desiderio
e bisogno di novità.
Ma non avevano ancora termine i guai diquest'altro conato d'insorgere, cominciato
a quel modo che tutti sanno, me terminato coi patiboli, con le persecuzioni e gli
esilii; e l'Italia non stanca mai di sperare libertà e indipendenza, con
le medesime gioie, feste e speranze si avanzava ad un'altra rivoluzione presaga
già che nuovi tormenti e nuovi tormentati la contristerebbero.
Capitolo V
(7) Il cav. Medici
dei regii consigli avea rappresentato la Carboneria come vaghezza e delizia di poche
menti, e accertando a re divoto (con astuta menzogna) che i missionarii pervenivano
col santo mezzo delle confessioni a dissiparlo (Colletta: Storia del Reame di Paolo,
Vol. II, lib. IX, cap. I, pag,236)
Ecco la ragione, per la quale spesso le insulse dicerie contro la confessione acquistano
credito e si spacciano senza cognizione di causa, né ombra di verità.
(8) Quando, piacemi
di ricordarlo, nel 1846, d'alcuni giovani godenti di vacanze autunnali si volle
continuare l'interrotto periodico della Ghirlanda, fosse imitazione ad altro, surse
in S.Marco un giornaletto col titolo «Il Cannocchiale» ma non alimentato
dallo spirito di quello, non ebbe fortuna, e cadde col feriato.
(9) I nomi dei
componenti la spedizione dei bandiera erano: Attilio ed Emilio Bandiere, veneti,
Domenico Moro, veneto, Nicola Ricciotti di Frosinone, Dom. Lupatelli, perugino,
Iacopo Rocca di Lugo,Giovanni venerucci di Forlì Fran Berti di Ravenna, Anacorsi
Nardi furono i nomi che giacquero trafitti dal piombo degli sgherri di Ferdinando
II. Giuseppe Miller di Forlì era caduto vittima dei primi colpi che lor si
diressero dagli Urbani di S.Giovanni in Fiore, nel logo detto La Stragola. Nardi
ferito in una coscia, Moro in un braccio.
Gli altri consorti Luigi Nanni di Forlì, Francesco Tosci di Pesaro, Pietro
Piazzoli e Giuseppe Pacchioni, ambedue di Bologna, Carlo Osmani di Ancona, Paolo
Mariani di Milano,Giovanni Manessi di Venezia, Giovanni delle Noci napoletano, furono
condannati alla galera a vita, sprigionati poscia nel 1848.
(10) Chi avesse
vaghezza di più ampie notizie e di particolari circostanze su l'eccidio di
quegli eroi che sparsero il loro sangue per la salute d'Italia e sugli eccidii di
Gerace, legga Atto Vannucci «I martiri della libertà italiana»
Felice Venosta, Ricciardi, Mazzini, Poerio. Il Panteon dei Martiri della Libertà
italiana e le note ai Canti Nazionali.