Il Colletta, citato di sopra, il quale parlando delle provincie meridionali, assicura
che i fautori di repubblica erano si contrarii come dieci a cento; parlando delle
Calabrie, poi dice: che sebbene lo stato di repubblica trovasse maggior numero di
seguaci nei Calabresi, o perché bramosi forse di vendicare le patite ingiurie
da feudalità più tiranna, o perché nella ruvidezza del costume
e del vivere le primitive virtù di libertà serbassero; pure tenevano
dalla parte del re innumerevoli cittadini potendosi benissimo affermare che i repubblicani
dello intero stato stavano ai contrarii come al 10 al mille.
(1)
Del tempo, del quale parliamo, gl'indipendenti, che combattevano,
aris et focis,
rappresentavano i seguaci del re. Cotesti che dalla parte avversa a dilegio e a
vergogna eran chiamati briganti, segnano una delle fasi più luminose della
nostra storia calabrese: perché solo addivenendo
briganti potevanoa
guisa dei guerriglieri spagnoli di carlo Moore di Schiller contro gli stranieri
e la tirannide del berretto frigio, sfidando i rischi della morte, anziché
veder manomessi i loro propri diritti e la propria indipendenza scemata. Se i Calabresi
allora corsero alle armi contro i temuti eserciti di Francia, di cui trentasettemila
nutricarono col loro sangue gli abeti del nostro Crati, fu per difendere altari,
donne e i focolari aviti. Invalsa la idea che i repubblicani andassero contro le
chiese e i monasteri, cose sacre pel popolo, non si combatteva per favorire il re;
né da parte alcuna vi aveva il concetto dinastico. Il re era emblema d'indipendenza,
ecco tutto.
Dovunque s'eran spogliate chiese e soppressi monasteri cosa anche vista in S.Marco,
dove se ne soppressero due, uno dei Paolotti, dei Cisterciensi l'altro; per questo
la lotta non era contro la libertà ma contro gli stranieri, che ci toglievan
tutto, onore, religione e patria.
Domenico Mauro ha incarnato cotesto concetto in una bella poesia sulla Calabria.
Chi ne avesse vaghezza potrebbe trovarla nella raccolta delle poesie dello stesso,
che ai calabresi non deve essere ignota.
La Repubblica partenopea intanto cadde affogata nel sangue; nel 30 giugno il re
giunse in Napoli, e in quella che il popolo si dava in pazze esternazioni di allegrezza,
in mezzo al deploramento di lutti inconsolati e di lagrime, non ancora asciugate;
di rimbatto vie più tetre scene di asprissime e tiranniche leggi, di che
la mente inorridita rifugge: guardava dal naviglio sulle acque il re con Acton e
Nelson ripensando forse ai gemiti e agli ultimi accenti di Piazza Mercato.
Nelle provincie si spedivano intanto i così detti Visitatori
(2) a scopo di scovrire quanti partigiani di parte repubblicana
avesser potuto trovarsi, nelle provincie e specialmente in S.Marco, se non si ebbero
condanne, non fu già che i Visitatori fossero volti a senso di giustizia o
di clemenza, ma perché i capi non si rinvennero, né materia punibile
fu ricercata nei gregarii. Pur non di meno si attribuí questo alla venuta
di M[onsigno]r Ludovici, uno dei Visitatori, il quale essendo uomo dabbene e clemente,
ebbe riguardo di un gregge che si trovava privo di pastore e della sede scoperta.
Caduta la repubblica parve che tutto finisse, ma, come la semenza sotterra, quei
germi aspettavano la maturezza. Parea che nel paese regnasse una quiete stanca e
il cupo passo degli eserciti che si facevan gire pei nostri luoghi, debol sostegno
di più debol tirannide, si sentivano incedere per nascondere i gemiti ed
il tonfo [tanfo?] dei cadaveri nelle tombe. Sopravvanzano invero processi di sangue
nella capitale che inorridivano il mondo civile, poiché Ferdinando improvvidamente
eccedette in tirannide. Se non che a castigo di ricapo ebbe a sperimentare maligno
e terribile il ritorno della fortuna, nel 23 Gennaio del 1806, sperando nella mutabilità
del tempo, iva a scampo della vita a trovar ricovero nuovamente in Sicilia. E sconfitto
Dumas e l'esercito di 16 mila uomini mandati dalla regina che combattè valorosamente
contro i francesi nelle aspre strette di Campotenese, carolina con le figlie, l'11
Febbraio di quell'anno rifece eziandio il cammino dell'esilio.
Per lo che il 14 dello stesso mese ed anno 1806 le prime squadre francesi giunsero
alle porte di Napoli, onde comincia per noi quel decennio nel quale ci incontriamo
in Giuseppe Bonaparte ed in Gioacchino Murat.
Non è mio compito dire dei miglioramenti civili dei due regni ai quali ebbe
a partecipare la città nostra, la quale sotto quel dominio addivenne centro
delle operazioni militari distrettuali, miglioramenti buoni e buone ordinanze, dicono
gli storici, ma eseguiti con dispotica violenza.
Gli errori commessi nella terribile repressione del brigantaggio in questo periodo
di tempo, errori che gettarono lo spavento nella città nostra , vengono personificati
in Manhes Carlo Antonio di Aurillac
(3)
soldato di tutte le guerre della rivoluzione. In quel tempo la condizione delle
nostre sciagurate provincie era insopportabile; non spuntava giorno che la nuova
di qualche atroce delitto o di qualche incendio non giungeva a funestare i paesi
nostri. Manhes cominciò dal pubblicare i suoi terribili editti; dall'arrestare
i parenti dei briganti e i loro manutengoli, parola di spaventoso arbitrio; guai
a chi porgesse aiuto ai trasgressori delle leggi; guai a chi contravvenisse ai suoi
editti emanati o non rivelasse costoro. Il nome di Manhes in proverbiale esecrazione;
ma così sorpassò tutte le speranze, che in lui s'erano formate. Pure
l'Orleffe, il Botta ed altri lo riconoscono inesorabile, ma incorrotto e ossequiente
alle forme della giustizia. Alessandro Dumas parla dei grandi effetti dell'opera
di lui; il Colletta esagera anche di più ed è forza credere che non
sia veritiero una volta che dallo stesso Manhes nel 1835 nel Moniteur di Francia
venne smentito.
L'opera di Manhes, dopo cinquantaquattro anni circa, imitò
Fumel nel circondario di S. Marco. Lieve apparenza di colpa, pretese confessioni
d'innocenti, strappate su promesse d'impunità, sovente facevan fallire il
segno, od eccedere in rigore. Né difesa, né procedura giuridica ammetteva,
onde più d'un innocente andò travolto in quella fiera repressione,
onde qui si tremava a verga. Non pertanto gran servigio, tra misure spaventevoli
rese alla nostra provincia e al nostro paese. Un ricorso da qui diede occasione
ad un'interpellanza dell'onorevole Deputato or Senatore Miceli, al quale si rircorse,
interruppe l'opera illegale del Fumel [
in verità il Comune di San Marco
gli tributò meriti speciali], perchè
in governo libero, retto ad istituzioni parlamentari, l'incarico dato a quel colonnello
era arbitrario ed odioso. Pertanto fu subito richiamato dasl Ministro Rattazzi;
onde in S. Marco, dove da Fumel erano disegnate molte vittime, colpevoli solo non
di altro che d'aver dato da mangiare a qualche latitante per potere stare sicuri
nelle proprie masserie, sciolti dal gelo della paura, respirarono.
Nel tempo che Manhes era inteso ad estirpare la mala pianta del brigantaggio, in
Cervicati, paesello vicino a S. Marco, formato da quelle colonie albanesi che verso
il XIV o XV secolo che dopo la caduta di Croja in Albania, condotte da Skanderbech
Castrioto, ricoveraronsi in Italia, la schiavitù turchesca fuggendo; avvenne,
caso assai doloroso; del quale il mio paese si per ragione di vicinanza e si per
ragione dei vincoli parentali, ond'era stretto alle infelici vittime, e si per l'imminenza
di probabili danni, ebbe a considerarlo come lutto cittadino.
Nel di 9 marzo 1701(?!) [1801] da certo Mungo fu ucciso un tal Nicola Bruno da Dipignano
venticinquenne circa, il quale faceva parte della masnada Golia, e soleva usare
di notte tempo presso alcuni parenti od amici in Cervicati, eludendo i bandi del
terribile Francese [
nel 1801 il regno era ancora in mano ai Borbone].
Il cadavere del brigante a ludibrio e a vituperio portossi attorno alle pubbliche
vie cantando a strapazza, e quasi fosse spento in quelli del tutto il senso morale,
si fé quel cadavere segno a vili contumelie e a disonesti oltraggi, né
mancò nulla perché l'indegno baccano e l'iniqua gazzarra offrissero
spettacolo da selvaggi.
Del malo offizio fatto contro del Bruno, i compagni dopo sette anni ne fecero aspra
vendetta, vendetta calabrese, vendetta calabrese!
Nel 19 Febbraio del 1808 in Casello, contrada in territorio di S.Marco; ed era tempo
di Carnevale, Golia una coi compagni Cecce Perri, Frogo Rosarino, Mele e Ialluzzo
superstiti delle orde sfasciate del cardinal Ruffo, che dopo la pace di Amiens,
27 Marzo 1802 trescavano in tutto il distretto di Cosenza, travestiti con uniformi
francesi ed edotti da spie appressarono una mano di Giovani cacciatori da Cervicati,
che incanti in buona fede credettero al mentito esser di quelli. Da cotestoro, cioè
dai finti soldati furono insidiosamente come per cacciare condotti nella sovradetta
contrada Casello e quivi proditoriamente legati, di tutti, quei malfattori fecero
efferata e sanguinosa carneficina, facendoli morire fra strazii, tormenti indicibili
e vigliacche sevizie. Erano quindici
(4)
e quasi tutti stretti per legami parentali; ad un solo di essi che trovavasi a poca
distanza dei compagni, il dubbio che l'assalse, fè tosto mutar via e fe scampare
la morte. Il figlio di costui tuttavia vivente mi fè testimonianza del lacrimabile
evento. Ad un altro dei malcapitati giovani, fosse antica amicizia fosse senso ancor
non estinto di pietà, uno di quei tristi disse a voce bassa: o resta indietro,
o vattene!
Dopo ce ne andremo tutti, rispose il mal'accorto, e tutti traditi e massacrati se
ne andarono all'altro mondo.
Chi in un giorno festivo, dopo la sanguinosa ecatombe di quegl'infelici mutilati
e seppelliti dagli stessi parenti nel luogo stesso dell'infame supplizio, fosse
entrato nella chiesa matrice del povero paesello,così fieramente dalla sventura
provato, non avrebbe scorto una donna sola, che non vestisse a duolo.
Fu allora che Sammarchesi e Cervicatesi, tutti uomini in fama di cacciatori espertissimi,
fra cui era mio padre, riunitisi in ischiera fratellevole, fecero molte spedizioni
nell'intento di vendicare l'orrendo oltraggio di quei masnadieri sanguinari. In
una di tali spedizioni, all'agguato due di quegli scellerati, Gennaro ed Oronzio
di Firmo, questi da un Cervicatese, quello da un Sammarchese freddati. I due teschi
degli estinti, io ero fanciullo (?) [
il Cristofaro era nato nel 1827!],
furono messi su due corni di un altare di S. Marco Evangelista, non ancora aperta
al culto, e li ho avanti agli occhi, e parmi di vederli con capelli arruffati e
sanguinanti, orribilmente brutti, formanti lo spavento di noi ragazzi, cui parea
che l'ombra l'inseguisse. Quali tristi tempi eran quelli per queste nostre infelici
contrade! Fra quali fosche e luttuose immagini scorse la gioia incosciente della
mia fanciullezza!
Nel tempo dell'invasione francese, o vogliam dire conquista, come si suole in governi
nuovi, molte brigate di soldati percorrevano le provincie del regno occupato, si
per spegnere qualche reliquia di brigantaggio, si per conoscere lo spirito pubblico,
si per far vedere ai popoli la forza su di cui il nuovo governo riposi, e si per
assicurare gli animi di difesa.
Ora investigando io tra quelle straniere incursioni, mi occorrono turpi memorie,
che dovrebbero rimanere nell'oblio per onore dell'umanità. Pur m'è
forza di non tacere. Non foss'altro l'obbligo degli alloggi continui era causa di
scontentezza da parte del popolo e di soprusi sconvenienti per riprovevoli esigenze
da parte degli alloggiati.
Un
Andrea Amodei appartenente ad onoranda famiglia
sammarchese
(5) fattosi reo
di grave omicidio, spretatosi, col nascondersi ed in errare in luoghi lontani, sfuggì
al rigore di giustizia, e stridendo in esso odio e vendetta per ruggine di privati
rancori, trovò la impunità presso Manhes, in quel tempo dimorante
in Cosenza, il quale fu facile ad iscriverlo nella Legione calabrese.
Venuto in conoscenza che il generale Masseno si sarebbe recato col comando della
brigata in S.Marco, gli fu facile trovar posto nei ruoli dei soldati francesi, facendo
valere per titoli di merito i servizi prestati sotto Manhes nella repressione del
brigantaggio.
(6)
Lungo la via percorsa dai Francesi per giungere a S. Marco, l'Amodei credette giunto
il tempo di porre in esecuzione le sue implacabili ire. Facendosi, cavalcando vicino
al Generale, col pretesto di fargli delle comunicazioni, cominciò a dirgli
essere la città di S. Marco ricettacolo di parte borbonica, il primo anello
della cui catena metteva capo alla famiglia
Valentoni,
ch'era vasta associazione antifrancese. Il generale restò soprapensiero e
l'Amodei interpretato quel silenzio al sospetto, che il suo dire avesse fatto breccia
nel cuore di Massena, insistette dicendo: È mestieri soffocare i sentimenti
avversi contro Francia col ferro e col fuoco, affinché quelli di parte francese
prendano coraggio e gli avversari rimangano depressi e spaventati. E siccome quel
discorso tenevasi proprio mentre passavasi sotto un casino di Valentoni, Maiolungo,
perché soggiunse questo novello bicada, che, per un privato rancore intendeva
portar rovina alla patria sua, perché, Generale, non si comincia da qui a
far valere la nostra ragione, dando il fuoco a questa casina, chè proprietà
di nemici nostri? e distruggendo queste piantagioni? Ma quel gran guerriero forse
sentì orrore di un cittadino, che in luogo di lodare e raccomandare la patria
sua, la esponeva a gravi pericoli, non uso a servire di strumento alle bieche arte
dei malvagi, entrò in sospetto, tanto più che era in conoscenza che
un di casa Valentoni militava negli eserciti francesi, senza risponder nulla, spronò
alla città. Pur il Generale non del tutto deponendo i sospetti intorno allo
spirito pubblico entrò in città provveduto a guerra, e ordinò
che le schiere dei suoi soldati a cominciare dalla contrada detta Le Macchie al
di sotto del paese fossero ordinate così che salendo altre schiere. formassero
un semicerchio fino alla Conicella, consegnate tutte come in pie' di guerra, onde
S. Marco da parte di Nord e da parte di Est pareva totalmente bloccato e nessuno
poteva rompere le file, attraversandole.
Intanto il Generale, prima di partirsi da Cosenza aveva per mezzo di alto personaggio
ricevuto invito dal Comandante dei militi Ignazio Valentoni, ed ivi quindi andò
difilato ad ospitare. Ben presto il Generale ebbe a rassicurarsi e ritenere bugiarde
e interessate le parole dell'Amodei che si improvvidamente si era dato a conoscere.
E fu del tutto disingannato quando, Michele Valentoni, fratello di Ignazio, in buon
francese, delle private controversie e della privata biografia del prete Amodei,
cose non punto disdette dai notevoli cittadini, quivi convenuti, fece consapevole
il Generale; e quando ricordò esser tradizionale in casa Valentoni l'onore
e la lealtà delle armi e la devozione alle case regnanti. Un Giuseppe Valentoni,
aggiunse, vissuto nel 1690 circa fu capitano al servizio di Ferdinando il cattolico
e si distinse nelle guerre del tempo; ed oggi com'è in conoscenza del generale
un Luigi Valentoni col gradoo di Brigadiere generale, ha combattuto nell'assedio
di Tolone. Non gli tacque essersi uccisi due briganti dai militi comandati da Ignazio,
fratello di Lui. In tal caso esclamò Messena, siamo tra amici, ed ho fatto
bene a scegliere la casa di un mio commilitone.
Indi fattosi chiamare l'Amodei, e v'è ancora chi ricorda essersi chiamato
di scolta in scolta, presentatosi al Generale, tu sei indegno, gli disse, indossare
l'uniforme francese, poiché l'hai disonorata; la deporrai subito una col
grado comprato col delitto: ora conosco l'esser tuo, prete scellerato! Francia invitta
non abbisogna di traditori e di furfanti, perché le sue aquile liberatrici
spieghino il volo tra i popoli! E concitato per generoso sdegno in così dire,
gli strappò le spalline, gli scinse la spada e come a malfattore conviensi
scacciollo via, e diè subito ordini che si togliesse quella specie di ossidione
della città e vi rientrassero tutti, come in città amica.
Fin qui ingrata storia di turpe caso; or mi dia venia il lettore se vicenda di particolare
interesse narri.
Mio padre Michele era un incorregibile cacciatore; una sera ritiratosi da caccia
a mezzo ottobre, trovò, né era la prima volta, che un ufficiale francese
in alloggio, occupava la sua propria stanza in casa sua. Sì per la stanchezza,
Sì pel fastidio del traslocarsi in altro luogo, Sì per la frequenza
in quel tempo degli alloggiamenti, non seppe trattenersi dal borbottare, avverso
com'era a quella occupazione che va contraddistinta col nome di occupazione militare,
inconsultamente non che addimostrare il suo malcontento, ma eziandio principii avversi
a quello stato di cose. L'ufficiale, cui mio padre forse riteneva ignaro l'italiano,
capì tutto e tacque. Di buon mattino riferì tutto al Generale che
ne ordinò l'arresto e che in men di ventiquattr'ore ad esempio venisse passato
per le armi. Allora il sindaco di quel tempo
Giuseppe
Fera (7) una con molti cittadini,
a cui doleva il caso sventurato, fecero del loro per distogliere l'enorme sciagura
del capo di mio padre, adducendo a scusa di lui, ch'ei se potesse ritenersi come
sospetto, non sarebbe stato elevato tra i Militi al grado di Tenente; non avrebbe
solo e di notte messo in pericolo la sua vita per andar contro a briganti, per lo
che meritò lettera di plauso del generale Messena. Per queste ragioni ed
altre che predicavansi da quelli, che lor buoni uffici offrivano a Regnier a favore
di mio padre, non valsero a placare l'ira di quello, e a stornar la tempesta sul
capo di mio padre addensata. Erasi da tutti sul disperato, quando la signora Gaetana
Filosa d'Aprigliano moglie di Ignazio Valentoni, del quale come ho detto il generale
era ospite (misteriosa vicenda di lontani casi! Una Filosa salvava la vita al futuro
suocero di un pronipote di lei, Francesco Filosa, mio cognato) prese seco per mano
il suo unico maschietto Gasparino, e, gettatasi in ginocchio a pie' del terribile
francese, che aveva fatto consegna di tutta la truppa, domandò che in grazia
di lei e di quel fanciullo innocente, facesse grazia al Cristofaro, che la letizia
d'aver tra loro uno dei grandi generali del grand'esercito di Francia, non venisse
eclissata con uno spettacolo di sangue, che le parole di quel disgraziato, anziché
ad opinioni di partito preso si dovessero attribuire ad inconsideratezza giovanile
conoscersi da loro esser piuttosto partigiano della Francia che no. All'atto o suggerito
o da sentimenti umanità e di amicizia derivato, il cavalleresco Generale
francese, non smentendo la gentilezza degli antichi cavalieri di Francia, non che
permettere che parlasse quella Signora in ginocchio, non si fe' due volte pregare
da una donna; ma levandosi diritto in men che il facesse la nobil Signora, e baciando
e accarezzando il piccolo Gasparino, concesse la chiesta grazia, volle che il tutto
tornasse nello stato di quiete, fra l'esultanza di tutto il popolo sammarchese,
sì per la singolarità del caso, sì per i rami delle molte parentele
cui mio padre era legato, e sì perché mio padre era presso tutti in
grande amore per la fama illibata di onesto cittadino.
Era stato messo in Cappella nella Chiesa di S.Giovanni Battista, dove contava le
poche ore che gli avanzavano coi palpčiti anelanti del cuore, pensando al povero
padre Giuseppe alla povera madre, ai fratelli germani Domenico e Antonio, ancora
fanciullo ed alla sorella M.a Francesca ed agli altri oggetti cari della vita; quando
in luogo del lugubre avviso, che l'ora di morte era suonata, quando in luogo del
lugubre avviso, che l'ora di morte era suonata, gli fu recato l'annunzio della grazia
in quella stessa Chiesa. Circondato, appena se ne sparse la nuova, da una folla
enorme, per l'allegrezza non c'era alcuno che non versasse lagrime. Giovine ancora
com'era, in quella sola notte fu condotto a casa coi capelli brizzolati a neve.