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LA CERIMONIA
Dalla finestra che dava sulla piazza vedevo un gran numero di persone che uscivano
dall'Hotel Don Carlo, l'antico palazzo Cristofaro.
Mia moglie si accostò e mi disse:
"E tu sei ancora così? Non ti vai a vestire?"
Aveva addosso, per motivi a me sconosciuti, un tailleur rosso, scarpe e borsa laccate
di nero e un buon profumo, non dolce.
Sessantacinque anni portati su alti tacchi sottili con il piglio di una ragazza.
Pensai che fosse un gioco erotico per qualche ricorrenza che avevo dimenticato.
Era già accaduto in occasione dei vent'anni di matrimonio.
Non ebbe il tempo di dire altro. Mi spogliai completamente e la fissai a lungo,
restando immobile. Corse a chiudere le tende della stanza, poi mi guardò
con l'atteggiamento tra il divertito e l'indispettito che usano le madri verso i
figli quando fanno i capricci.
Prese dal cassetto canottiera, mutande, calzini, camicia, dall'armadio l'abito scuro,
la cravatta che mi aveva regalato e che non avevo mai messo, e le scarpe di vernice.
Poi mi prese la mano che tremava lievemente, la strinse tra le sue e mi chiese di
vestirmi da solo, perché ormai ero grande.
Allora mi ricordai della cerimonia pubblica a cui ero stato invitato in qualità
di consigliere: accoglienza e consegna della cittadinanza onoraria ai figli dei
sammarchesi sparsi per il mondo.
"I care" era stata chiamata, su suggerimento di un nostro
compagno, che l'aveva usata inutilmente per sé nella candidatura alle elezioni
provinciali. Trombato anch'egli come lo fui io, confidavamo entrambi che avrebbe
portato la stessa sfiga al sindaco attuale.
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Mi allacciai le scarpe. Il pollice destro tremava.
Aprii la porta. Senza dire una parola raggiunsi il tavolo con la tastiera e il mouse.
Poggiai la mano su di esso. Il dito continuava a muoversi, contro la mia volontà.
Avrei voluto stampare un piccolo intervento di ringraziamento che avevo preparato
sull'argomento.
Mia moglie si accostò e posò la sua mano sulla mia fermando il tremore.
"Andiamo," disse con calma "se no facciamo tardi."
La sala era già piena.
Ognuno aveva il suo posto: i cittadini onorari sulla pedana rialzata, i consiglieri
nell'emiciclo, al centro il sindaco, le autorità in prima fila e poi cittadini,
scolaresche, associazioni. Piante e fiori dappertutto.
L'hostess mi accompagnò all'unico posto di consigliere che era rimasto vuoto:
la solita poltrona che occupavo in occasione delle sedute consiliari, più
bassa delle altre.
"Hai tolto il velo o sei ancora nel noviziato, suor ... ?" le dissi
dopo che mi aveva gratificato di un sorriso di circostanza.
"Suor Elisabetta" aggiunse con uno sguardo che in altra occasione
e in altri tempi le sarebbe costato caro " ... padre Paolo."
Fece un grazioso inchino fingendo di sollevare la già corta gonna e ritornò
con un lieve ancheggiamento in mezzo alla folla. "Recolletta Elisabetta ...
" pensai, cercando di ricordare se tra le monache del convento di Santa
Chiara trasformato in sede del comune ce ne fosse stata qualcuna con questo nome.
Di Elisabetta sapevo che era la madre di Sant'Anna a sua volta madre di Maria, tutte
con problemi di procreazione.
Mi venne alla mente l'affresco di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova,
dove Anna e Gioacchino erano raffigurati nell'atto di scambiarsi un bacio
sulla bocca, sotto lo sguardo a metà tra lo stupore e la maldicenza di alcune
persone al seguito. I due coniugi erano in età avanzata, ma il bacio rappresentava
il preludio della consumazione di un atto d'amore senza del quale il cristianesimo
non sarebbe mai nato. Pensai alla "pupa" di monsignor Bellarmino, ma mi
ricordai che ai suoi tempi il convento era già chiuso da molti anni.
Chissà se in quella sala, dove un tempo doveva regnare un silenzio assoluto,
interrotto solo dalle orazioni delle vergini, erano esistiti affreschi sulla storia
di Santa Chiara? E chissà se tra le immagini vi era anche quella in cui San
Francesco le tagliava i capelli nella chiesa della Porziuncola votandola per sempre
alla povertà? Era molto improbabile che uno dei pittori che abbiamo incontrato
avesse potuto avere accesso nel convento di clausura; forse poteva esserci tra le
chiariste qualcuna che sapeva dipingere. Non potevo escluderlo visto che tutte provenivano
da famiglie agiate.
Ero immerso in queste reminiscenze quando mi accorsi che il sindaco, impegnato nella
storia più recente dei luoghi che amministrava, aveva già iniziato
il suo discorso, infarcito dei luoghi comuni tipici in simili occasioni.
"L'amore verso coloro che tanti anni prima erano partiti ... Il ricordo ...
Le persone che si erano fatte onore ... Il desiderio di scambiare le reciprocità
... Il merito era di tutti ... Ognuno aveva fatto la sua parte ... Sentiva l'obbligo
morale di ringraziare in modo particolare ... il vescovo ... il comandante dei vigili
urbani ... le autorità tutte e ... l'onorevole ... "
Mi accorsi solo allora della presenza di un uomo con gli occhi lucidi, che una lieve
blefarocongiuntivite rendeva ancor più lacrimosi, seduto a fianco del sindaco
...
" ... Mario Tremani, ministro degli italiani all'estero!"
Un applauso scrosciante e qualche debole fischio accolsero l'illustre invitato.
Gli fu data la parola.
"Se oggi questi discendenti delle nostre antiche italiche terre possono essere
qui nella città che vide partire i loro antenati in cerca di fortuna nelle
terre che resero grandi agli occhi del mondo non è solo merito mio, ma lo
dobbiamo attribuire do-ve-ro-sa-men-te a ... "
Cominciai a provare una certa emozione. Sapendo che da lì a poco il mio nome
sarebbe stato accolto da un applauso, mi alzai in piedi con gli occhi lucidi e un
lieve tremore per tutto il corpo, guardando la sala stracolma di persone con le
mani pronte a decretarmi i meritati onori.
" ... al vostro amato sindaco!" concluse abbracciando il primo
cittadino.
Gli applausi seppellirono ogni altra voce e i miei pensieri.
Mi guardai il pollice. Tremava ancora di più.
Mi feci largo tra il pubblico, incrociando lo sguardo ironico di Elisabetta che
si rivolse a me con un tono di falsa riverenza:
"Padre Paolo, ve ne andate di già ... ".
Raggiunsi l'uscita senza guardare in faccia nessuno e mi precipitai giù per
le scale.
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