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CURATOLO
L'anello di cui vi ho parlato l'ho avuto in mano io stesso, ma non essendo ancora
nato quando Maria Arcangela fu uccisa non potevo essere io l'assassino!
Quando lo trovai, nell'estate del 1956, nel cassetto di un comodino, assieme ad
altri oggetti privi di valore, ero un ragazzo. Mi colpirono il berretto frigio e
la frase in francese.
Chiesi a mio zio Michele, il fratello di mia madre, di chi fosse.
Egli me lo tolse bruscamente dalla mano e lo mise in tasca. Alcune settimane dopo
ritornai a Trieste, la mia città natale, per riprendere gli studi. Non vidi
più né l'anello, né mio zio, che morì il 12 ottobre
del 1957, all'età di cinquantasei anni.
Molti anni più tardi chiesi a mia zia, sorella di mia madre, vissuta nella
stessa casa in cui lo zio era morto, se avesse mai visto un anello su cui erano
incisi uno scritto e una sorta di cappuccio.
Mi raccontò qualcosa che ignoravo.
Mio zio era massone e antifascista. Me lo disse con reticenza, quasi che temesse
ancora per la sua vita, pur essendo già morto; in seguito compresi che i
suoi timori si riferivano all'aldilà.
Mi mostrò la tessera d'iscrizione al partito di Giustizia e Libertà
che aveva trovato nella sua giacca assieme ad un foglietto su cui erano stampati
i simboli della massoneria. A matita vi era scritto "Les lumiers de la raison"
e, sotto, un segno di uguale seguito dalle parole "I lumi della ragione".
Mi disse ancora che l'anello era stato trovato da mio zio nel piccolo appezzamento
di terra che la famiglia di mia madre possedeva in località Bonavita, sotto
al Medichicchio, e distante da esso, in linea d'aria, poche decine di metri.
Stando a quanto le aveva raccontato, l'oggetto, di nessun valore, che fu trovato
sui rami di un albero durante la raccolta delle olive, era stato gettato lì
dalla strada soprastante. Perché fosse stato buttato via rimase un mistero;
l'ipotesi più probabile era che le incomprensibili parole che vi erano scritte
fossero una maledizione.
Le chiesi che fine avesse fatto quell'oggetto, considerato che io l'avevo visto
poco più di un anno prima della morte dello zio. Mi disse che l'ultima volta
glielo vide infilato al dito, quando, vestito dell'unico abito che possedeva, uscì
una sera per rientrare a notte inoltrata. Secondo mia zia le sue uscite notturne
erano dovute ad incontri con una donna, secondo il marito di lei a riunioni massoniche.
Infine mia zia aggiunse che da quando aveva trovato l'anello mio zio era diventato
"un altro": più violento, vendicativo e senza Dio. Mi raccontò
di un alterco con il proprietario dell'appartamento soprastante quello in cui abitava
la nostra famiglia, durante i lavori di rifacimento dei solai.
Lo minacciò di morte con un revolver a tamburo, dicendo che gli avrebbe fatto
fare la stessa fine che i "suoi" avevano fatto fare allo zio "Micuzzo".
L'altro gli rispose che gli avrebbe fatto fare la fine di Oronzio!
Avevo già sentito parlare di questa triste vicenda: un mio prozio materno,
Domenico, sorpreso in casa di una signora, subì una serie di violente percosse
con un bastone che lo condussero in brevissimo tempo alla morte.
Mia nonna, vedova con cinque figli minori da accudire, fu informata dopo due giorni
dall'aggressione che "Micuzzo", suo fratello, era moribondo.
Dalla piazza si recò con il piccolo Michele, undicenne, alla casina paterna
nel castagneto di Santo Stefano, lasciando in casa le altre quattro figlie.
Dai pianti e dalle grida che le giungevano mentre scendeva lungo il viottolo che
portava all'ingresso della casa, comprese che il suo unico fratello era già
morto. Intorno al letto su cui giaceva Micuzzo c'erano già l'anziana madre,
Innocenza, e le cinque sorelle.
Il piccolo Michele si avvicinò al corpo senza vita dello zio, gli toccò
la mano fredda e si fece il segno della croce come aveva imparato a fare a distanza
di pochi mesi in occasione della morte del padre e di una sorellina.
Ascoltò, seduto in un angolo della stanza, il racconto degli approcci amorosi,
dei tentativi di far desistere lo zio da quelle visite pericolose, delle condizioni
in cui rientrò a casa, del sangue che gli uscì dalla bocca. Quando
cominciarono ad entrare altri parenti e conoscenti i discorsi cessarono e alle orecchie
del piccolo Michele giunsero solo le invocazioni disperate che la nonna Innocenza
rivolgeva al proprio figlio.
Mia zia diceva che suo fratello divenne adulto per la necessità di mantenere
la propria famiglia di cui si sentiva responsabile e, col passare degli anni, anche
padrone.
Quando mia zia mi parlò del cambiamento di carattere dopo il ritrovamento
dell'anello, non compresi a che cosa potesse riferirsi, lo seppi dopo, da mio padre,
quando ero prossimo a sposarmi.
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Compresi anche perché mia madre non volle mai tornare nel suo paese di origine
finché il fratello era vivo.
Io ricordo che amava andare a cavallo, a caccia e accendere il fuoco. Lo faceva
fissando le fiamme come se vi scorgesse qualcosa: ero convinto che fosse un piromane.
Anche con le armi aveva un rapporto piuttosto disinvolto, tanto che al ritorno da
una caccia infruttuosa sparò contro la mano sollevata di un individuo che
scherzosamente lo invitava a dimostrare la sua mira infallibile. L'altro fece in
tempo a ritrarre la mano. Una rosa di pallini ricorda ancora il luogo dell'incauta
provocazione.
Non sapevo che fosse massone, ma quando parlava di alcune persone mi raccomandava
sempre di salutarle rispettosamente e, in modo particolare, don Luca Cristofaro.
Cosa che feci più di una volta, quando, entrando nella sua banca, gli riferivo
che mio zio lo pregava di tenere in sospeso per qualche giorno una "tratta"
in scadenza. Si alzava zoppicando e, mettendomi in mano la cambiale, già
scaduta, mi diceva di ricambiare i saluti a don Michele con l'invito a passare da
lui appena possibile.
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