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MORTE SUL MARE
Le mutate condizioni politiche avevano acceso la speranza che mutassero anche le
condizioni economiche. E così avvenne: chi era ricco divenne più ricco
e chi era povero più povero. Col passare degli anni anche coloro che si trovavano
a metà strada tra la ricchezza e la povertà videro mutare le proprie
condizioni. In peggio. Poiché non era possibile cambiare nuovamente governo
alcuni di loro decisero di cambiare paese. E si imbarcarono per terre sconosciute.
I gioielli di famiglia o una casa in pegno servivano per pagarsi il viaggio.
È necessario che saliamo anche noi su una di queste navi per conoscere una
parte della storia che ci riguarda.
Non so se potete sopportare questo ennesimo spostamento di spazio e di tempo.
Se non avete mai viaggiato per mare in una traversata oceanica, non potete immaginare
a quali inconvenienti e, soprattutto, a quali rischi andavano incontro coloro che
si imbarcavano sulle navi.
Alcuni di loro non raggiunsero mai la meta tanto ambita, come Francesco M. il cui
cognome evito di dirvi per i fatti che leggerete e, come al solito, per evitare
che vengano brutte idee a qualcuno dei discendenti.
Francesco M. fu buttato a mare, anzi, come si diceva allora, il suo corpo senza
vita "fu messo a mare" e l'oceano divenne la sua tomba. Perché?
Dopo essersi imbarcato sul brigantino dal nome rassicurante "Amico", diretto
a New York, fu raggiunto anch'egli dalla vendetta tardiva che aveva già mietuto
altre vittime sulla terraferma.
La sua morte fu attribuita a commozione cerebrale per una caduta dal letto. La verità,
invece, è un'altra, così come risulta dal racconto che è stato
tramandato di generazione in generazione grazie alle memorie di un passeggero.
Il medico di bordo si accorse che il cadavere dell'uomo presentava una vistosa ferita
sulla guancia, provocata secondo il nostromo -il primo ad accorgersi del corpo a
terra- da frammenti di bottiglia ritrovati sul pavimento.
Nel racconto ai suoi figli l'uomo presente alla scena disse che la causa dell'incidente
fu attribuita ad ubriachezza. In effetti il brigantino trasportava un carico di
vini come risulta dai documenti di bordo conservati negli archivi della compagnia
marittima, solo che il taglio provocato dalla bottiglia, talmente netto e allungato,
destò non poche perplessità nel medico di bordo.
I fatti narrati, pur se tramandati da più di una generazione di discendenti,
mantennero sempre ferma la convinzione del testimone: che il medico fosse stato
costretto a stilare il referto di morte accidentale, perché minacciato da
alcuni membri dell'equipaggio.
Bene. Ho voluto verificare se ciò fosse vero, ma prima di dirvi l'esito delle
mie ricerche, è opportuno che vi spieghi come sono venuto a conoscenza di
questo fatto.
L'avrete già intuito: tramite un messaggio di posta elettronica. Vediamo
chi e perché mi informò di questo ennesimo mistero.
L'oggetto del messaggio era piuttosto originale: "Wine and blood",
vino e sangue. Il testo, in inglese, mi era stato inviato da un certo signor Nick,
in risposta ad una mia richiesta di storie di emigrazione da pubblicare sul sito
da me creato.
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Il mittente diceva che viveva negli Stati Uniti, che non poteva rivelare il luogo,
che temeva per la propria vita, che si trattava di una "vengeance"
e, infine, che la vendetta aveva già colpito, in Stati diversi, tre suoi
parenti, tutti appartenenti allo stesso ceppo familiare. Chiesi inutilmente altri
ragguagli. Non ebbi mai alcuna risposta.
Era come se il misterioso informatore non volesse lasciare alcuna traccia di sé.
Dopo qualche mese, andai a controllare se nel messaggio originale poteva esserci
qualche indizio utile a decifrare il paese di provenienza.
Il messaggio non compariva più nella posta in arrivo. Cercai tra la posta
cestinata, nel caso di un'involontaria cancellazione. Niente.
Era assurdo: nessuna e-mail, almeno per quanto ne sapevo, poteva cancellarsi da
sola. Sbagliavo, perché esistevano, come seppi dopo, le fire-mails,
ovverosia messaggi che si "bruciavano" con la chiusura del computer. Le
aveva create per gioco un giovane universitario di Arcavacata -come viene chiamata
in gergo l'Università di Cosenza- e poi furono usate dalla CIA per non lasciare
traccia delle comunicazioni in codice.
Lasciamo da parte questi misteri informatici e vediamo che cosa avevo scoperto grazie
alle informazioni dello sconosciuto.
Controllando negli appositi registri le trascrizioni delle morti avvenute fuori
dal territorio comunale, trovai quella di un Francesco M. avvenuta a bordo di una
nave del compartimento di Castellammare di Stabia, diretta a New York. In essa era
riportata la causa del decesso: "connessione cerebrale".
Come avrete capito si trattava di un errore marchiano, soprattutto riflettendo che
l'attestazione della morte fu fatta con regolare referto. Possibile che un medico
di bordo commettesse un simile errore? Mi venne subito alla mente il racconto che
si era tramandato, a me giunto con la misteriosa e-mail, nella quale si parlava
delle minacce di alcuni membri dell'equipaggio nei confronti del dottore.
Un segnale. Ecco di che cosa si poteva trattare, di una smentita alla veridicità
del referto, fatta dal suo stesso estensore.
Scrivendo la parola "connessione" al posto di commozione denunciava che
la morte era connessa ad altri fatti: uno stratagemma per evitare di subire rappresaglie
o di rendersi complice di un delitto e, nello stesso tempo, un tentativo di far
conoscere ad altri la verità, essendo consapevole che nessuno avrebbe potuto
più svolgere alcuna indagine su un cadavere che "dopo ventiquattro ore
[era stato] messo a mare".
Due giorni dopo, un lunedì, nessuna orazione funebre accompagnò la
discesa nelle profondità dell'oceano del corpo di Francesco M. a latitudine
25.59 Nord e longitudine 36.30 m Ovest. Nessuno dei suoi oggetti personali, né
i documenti, furono mai consegnati ad alcuno dei familiari.
Il nostromo Gennaro E. conservò come ricordo della vicenda un anello con
un strano berretto circondato dalle parole "Les lumières de la raison",
di cui non conosceva il significato.
Al rientro della nave in Italia il nostromo fu a lungo e inutilmente cercato nei
vari locali e nella stiva.
Solo il suo dito, privo dell'anello, fu trovato da un mozzo di bordo.
Il corpo fu ripescato nel porto di Napoli il 30 gennaio 1873, ma nessuno fu in grado
di dire a chi apparteneva, visto che quasi un anno di permanenza in acqua lo aveva
reso irriconoscibile.
Ho scoperto il mistero di questi due omicidi, o per meglio dire del primo, perché
il secondo fu originato dall'imprudenza del nostromo, che venne certamente derubato
prima di essere ucciso.
Francesco M. era nato all'Acquafredda, una contrada di Sammarco, un gelido mercoledì
di gennaio, da un padre bifolco che, cosa strana a quei tempi, sapeva leggere e
scrivere e che festeggiò la nascita del figlio assieme alla Costituzione
concessa circa quattro mesi prima. Un bicchiere e una parola di troppo lo tradirono
e lo segnarono come pericoloso sovversivo.
Per chi ci crede gli venivano attribuiti contatti con il "Maligno",
tanto da essere soprannominato "u cifaru" dal nome dell'arcangelo
Lucifero, ma alla base di queste sciocche superstizioni vi era probabilmente la
provenienza della sua famiglia da San Fili, ritenuto il paese delle "magare",
donne capaci di sortilegi in danno delle cosiddette persone per bene.
Francesco diventò presto adulto e con una gran voglia di togliersi in un
modo o nell'altro questa triste fama. Frequentava la chiesa, leggeva, aveva imparato
il mestiere di falegname e non mancava occasione per manifestare la propria fedeltà
al re Francesco. La nascita del figlio nello stesso anno in cui per la seconda volta
fu concessa la Costituzione gli fece commettere lo stesso errore del padre: festeggiò
entrambi con eccessiva loquacità. Da allora le guardie urbane cominciarono
a perquisire sempre più spesso la sua casa, trovandovi di volta in volta
qualche indizio di frequentazioni sospette.
La sua cultura e la conoscenza degli avvenimenti del tempo, soprattutto dei nascenti
circoli socialisti, lo rendevano un pericoloso sovversivo, inoltre certe allusioni
verso i regnanti e la corte, cantate o recitate nelle allegre brigate a cui si accompagnava
imprudentemente, lo avevano messo nei guai anche con la giustizia.
Fu indagato come autore di un componimento in dialetto che parlava di una tresca
tra una futura imperatrice e un marinaio. L'allusione alla futura imperatrice del
Brasile e ad un tal capitano Rodriguez che la portava in quel Paese era fin troppo
evidente. Dello stesso delitto di lesa Maestà fu indagato anche un decurione
sospettato di aver fornito notizie sul viaggio.
Nessuna prova, però, emerse a carico dei due.
Se siete curiosi di conoscere l'origine dell'anello che Francesco aveva al dito
quando fu ucciso è presto detta. L'oggetto, prezioso più per la sua
storia che per il metallo, apparteneva a Domenico Balzano, il soldato nato a Parigi
e morto nell'ospedale di Sammarco nel 1811. Gli fu sfilato dal dito dopo la sua
morte da Agnese Ruggeri, una "ospidalera" che lavorava nel ricovero
alla Porta Vecchia.
Lo aveva tenuto sempre con sé, ben nascosto, soprattutto dopo il ritorno
dei Borboni, fin quando non nacque Francesco, nel gennaio del 1821. Lo portò
alla madre di lui, Giuseppina, in gran segreto, come regalo per il figlio appena
nato. Il giorno dopo Agnese si ammalò di una malattia sconosciuta e dopo
trentatre giorni morì nello stesso letto in cui era morto dieci anni prima
il soldato francese.
Dove si trova ora l'anello? Lo saprete in seguito, perché si tratta di storia
più recente.
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