|
FILIPPO MELFI
Ricorderete che nell'ospedale era morto un disgraziato dal cognome alquanto insolito.
L'ospedale era nel quartiere della Porta Vecchia, al limitare della piazza di sopra
e all'inizio delle due strade che portavano rispettivamente al "castaneto"
e all'eremo di San Francesco, dove oggi si trova il seminario. Sotto l'edificio
due archi consentivano il passaggio dalla piazza ai suddetti luoghi.
Il fabbricato era molto vecchio. Per accedervi bisognava salire una scala a cui
mancava qualche gradino. L'interno era composto da poche stanze e da una cappella.
Pił che un ospedale era il ricovero di poveri ammalati, a cui tutto era negato tranne
che l'estrema unzione e la morte.
Filippo Melfi era un uomo ormai inutile e come tutti gli individui inutili fu messo
a dimora in quel luogo puzzolente. Aveva ventisei anni e proveniva dalla Terra di
Lavoro, il territorio compreso tra la Campania e il Lazio. Era un soldato francese
del Real Corso. La sua bella divisa presentava una vistosa macchia rosso bruna all'altezza
della spalla sinistra: una palla di fucile gli aveva trapassato un polmone. Respirava
a fatica.
Fu adagiato su un pagliericcio a terra, a fianco gli fu posta una brocca d'acqua
e sul corpo tremante uno straccio che doveva essere una coperta. Ai suoi piedi,
di traverso, c'era un corpo ormai immobile.
La notte avvenne qualcosa di terribile, che nessuno, dico nessuno, avrebbe mai potuto
immaginare.
Entrarono nella stanza due uomini, mentre un terzo rimase sull'uscio facendo luce
con una fiaschetta di olio lampante con lo stoppino acceso.
Forse per errore per la semioscurità, o forse volutamente, Filippo fu afferrato
per le braccia e per le gambe e trascinato fuori dalla stanza. Avrebbe voluto gridare
che il morto era ai suoi piedi e non lui, ma per il dolore della ferita le forze
gli vennero meno e svenne.
Quando riprese conoscenza era solo, al buio. Aveva difficoltà a respirare,
per un peso che gli opprimeva il torace.
Il fetore intorno a lui era insopportabile. A stento riuscì a togliere la
mano sinistra da sotto il fianco. Era intorpidita e priva di sensibilità.
Toccò qualcosa.
Era il corpo di una persona riversa su di lui, trasversalmente. Era troppo freddo
per essere ancora vivo.
Pensò per un istante di essere ancora nel campo di battaglia, ma si ricordò
che quando fu ferito il cielo era stellato.
Udì alcune voci provenire da un punto poco distante, e vide uno spiraglio
di luce sopra di lui. Non riuscì a rendersi conto di dove fosse, poi di colpo
un chiarore si aprì davanti ai suoi occhi, qualcosa di molto pesante gli
cadde improvvisamente addosso coprendogli il viso e la bocca, poi fu di nuovo buio.
Non poteva né gridare, né muoversi. Intuì con orrore di essere
stato sepolto. Vivo. L'unica parte del corpo che riusciva a muovere era la mano
sinistra. Cercò inutilmente e a lungo di spostare con le unghie e con i denti
il corpo che gli impediva di respirare e di invocare aiuto. Morì dopo due
giorni di terribile agonia.
Trenta anni dopo, circa, quando i ruderi dell'ospedale furono abbattuti, le ossa
dei morti sepolti sotto il pavimento della cappella furono gettate in un fossato
adiacente la strada e sopra, a ricordo di quei poveri resti, vi fu posta una piccola
edicola con un busto di San Francesco di Paola.
Quando questa storia mi fu narrata la prima volta da un mio prozio, Luigi, ero un
ragazzino curioso che avendo trovato tra le vecchie carte un foglietto con su scritto
Filippo Melfi, Capova, Real Corso, aveva chiesto cosa volesse dire l'ultima parola
e se ci fossero parenti con quel cognome.
Ricordo ancora le sue spiegazioni e il luogo dove egli mi narrò gli avvenimenti
incredibili di cui era a conoscenza.
|
Cominciamo dal luogo. All'ingresso di un caseggiato a pianta trapezoidale un'insegna
con la scritta Curatolo, che era anche il cognome di mia madre, indicava che un
tempo il vano di accesso era una bottega. Nel 1950 vi erano ancora un vecchio banco
di vendita, gli stipi alle pareti, in uno dei quali rivedo ancora due cappelli a
bombetta, polsini, colletti di camicia e un piccolo torchio per riprodurre le lettere
in carta copiativa.
Tutto era coperto da uno spesso strato di polvere. All'esterno c'erano due sedili
in pietra. Luigi, il fratello di mio nonno materno, era un vecchietto che si reggeva
sul lungo naso di avorio di un buffo personaggio che era la parte superiore del
suo bastone. Amava raccontarmi le storie stando seduto su quei sedili di pietra
che oggi non esistono più.
L'edificio di cui vi parlo è attualmente la sede di un istituto di credito.
Dinanzi l'ingresso, su un pilastro, c'è la statua di San Francesco di Paola.
"Nel 1878 mio padre Giuseppe aveva fatto domanda al comune per aggiustare questo
triangolo di terreno davanti a noi ..."
così cominciava la storia che zio Luigi, ormai vecchio, dimenticando di averla
già raccontata, continuava a ripetere in altre occasioni, senza mai cambiare
di una virgola il suo contenuto.
Battendo con il bastone sul lastricato mi indicava che lì c'era un terreno
scosceso che separava la strada sottostante che conduce al seminario dall'altra,
detta la strada militare o di San Francesco, oggi via Vittorio Emanuele III.
Suo padre aveva chiesto di poter appianare il luogo, dichiarandosi disposto a ricostruire
l'edicola votiva, che si trovava sotto strada, a livello del costruendo terrapieno.
Gli fu concesso.
Nel corso dei lavori furono ritrovate delle ossa umane. I più anziani ricordavano
che si trattava dei cadaveri sepolti nel vecchio ospedale. Il mio bisavolo notò
un teschio che stringeva tra i denti un lembo di stoffa e poco distante trovò
il foglietto che io avevo letto. Capova era la città di Capua, Filippo Melfi
doveva essere il nome del defunto, sul quale si scorgevano ancora brandelli di divisa,
e Real Corso era la scuola militare in cui era allievo.
Il racconto allora mi metteva paura, anche perché il mio prozio Luigi mi
portò, un giorno, al piano sottostante, dove allora c'erano una stalla e
la cantina, e mi indicò il posto esatto dove erano state rinvenute le ossa.
Il figlio, Francesco, cugino di mia madre, non so se per impedirmi di andare in
giro per la vasta e lugubre casa, mi disse che ogni notte, nei primi giorni di marzo,
si sentiva un lamento prolungato provenire dalla cantina.
Il fratello di lui, Giuseppe, maestro, appassionato di scienze, asseriva che la
morte era sopraggiunta per asfissia.
La sorella, che io chiamavo rispettosamente zia Emilia, devota di San Francesco,
diceva che il lamento si sentiva dalla cantina ogni notte del tre marzo.
Una volta cresciuto dimenticai questa storia, o almeno non mi procurava più
alcuna paura, anzi, poiché abitavo proprio di fronte la statua e l'istituto
di credito, spesso mi veniva da sorridere ricordando il gusto sadico che provavano
i miei anziani parenti nel terrorizzarmi, per impedirmi di correre lungo le ripide
scale di legno che portavano da un piano all'altro della casa sempre buia.
Sorriderei anche oggi se non avessi scoperto nelle mie ricerche che il tre marzo
del 1814 morì nell'ospedale di Sammarco il soldato del real corso Filippo
Melfi, di anni ventisei, figlio di Vincenzo e di Maddalena Pittarelli, nato nel
comune di Sparviere, in provincia di terra di Lavoro, distretto di Capova.
Dimenticavo. Giuseppe Curatolo effettuò i lavori di riempimento del terrapieno
e di spostamento dell'edicola votiva a maggio del 1876, come risulta dal foglio
sciolto inserito tra le pagine 220 e 221 del registro delle deliberazioni del consiglio
di quell'anno.
Perché Filippo fu sepolto vivo con altri cadaveri?
Questo è un mistero che non sono riuscito a scoprire, ma credo che, se non
fu per errore, il motivo di tanta crudeltà sia da ricercare nell'odio che
i vecchi sanfedisti nutrivano verso coloro che indossavano la divisa francese e
gli "ospidaleri", ovvero coloro che prestavano le cure ai moribondi ricoverati
nell'ospedale, erano tutti devoti al santo sovrano, Dei Gratia, Ferdinando
di Borbone.
|