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I CALDERARI
"Guardia di Maestà Ferdinando", la frase pronunciata la
notte del tre dicembre 1810, in uno dei palazzi della piazza di sopra, da Fortedato,
era l'espressione usata da calderari, briganti, lazzari, sanfedisti, tutti filo
borbonici, per farsi riconoscere.
Quando era scritta venivano adoperate solo le iniziali "G. di M. F."
e alcuni tra coloro che avevano prestato il proprio giuramento di fedeltà
assoluta alla causa antifrancese e antigiacobina se le facevano incidere con l'acido
sulla pelle. A questa operazione provvedevano i calderari che usavano l'acido muriatico
per pulire da ogni impurità l'interno delle caldare prima di passarvi lo
stagno.
Chi entrava nelle loro botteghe senza aver portato con sé alcun recipiente,
in caso fosse stato fermato all'uscita dalle guardie, doveva dire di essere andato
a farsi togliere alcuni porri con l'acido.
Molti calderari entravano nelle case con la scusa di pulirvi le pentole, in verità
lasciavano o raccoglievano preziose informazioni per la loro causa.
Usavano anche un linguaggio criptico per evitare che i segreti del loro mestiere
fossero appresi da altri, ma in verità dietro le parole oscure si celavano
messaggi segreti. Non si trattava del linguaggio sciocco e furfantesco usato da
ladri e assassini per agire senza essere scoperti, bensì di un'oscura terminologia
simile a quella introdotta dai francesi con la massoneria e con scopi opposti a
questa.
La devozione religiosa espressa con la circolazione di immaginette sacre, i "santini",
era anch'essa alla base delle tante cospirazioni messe in atto in questa terra di
briganti che, prima di uccidere, si facevano il segno della croce o affidavano la
propria vita al santo protettore.
Alcune famiglie avevano queste iniziali negli atri dei loro palazzi, confuse in
un intricato mosaico fatto con ciottoli di fiume di colore diverso.
Don N. l'aveva posta nella chiave di volta dell'arco di ingresso del proprio palazzo,
alcuni anni dopo che Gioacchino Murat era stato giustiziato nella rocca di Pizzo,
giusto per fare un favore al proprio congiunto, il capitano Trantacapilli, che aveva
arrestato il re senza regno e senza Dio.
E alcuni decenni dopo, il capobrigante Belluscio la segnalava ai membri della sua
feroce comitiva, quale rifugio sicuro.
"Alluscate 'a porta!" diceva agli uomini della combriccola indicando
il modo come essere riconosciuti e accolti: "e stuiativi a frunta cu muccaturu
jancu".
Le vendette, finito il regno di Murat, furono tante e atroci. E tra coloro che avevano
simpatizzato più apertamente per i francesi molti scomparvero, o perché
fuggirono e perché furono uccisi.
Le vittime dei calderari fecero la fine peggiore.
I loro cadaveri furono sepolti come appartenenti a persone ignote, visto che il
volto era stato devastato dall'acido. A volte per evitare che si innescassero faide
tra famiglie, la persona "senza volto" veniva registrata negli atti di
morte come un "mendico", o un eremita e ogni traccia della sua identità
veniva accuratamente cancellata. La sparizione di persone note a San Marco fu attribuita
ad un loro volontario esilio. Come io sia venuto a conoscenza di queste morti è
presto detto.
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Il posto della guardia, che allora si chiamava civica o urbana, e poi nazionale,
si trovava nello stesso edificio che ospita oggi due associazioni e l'archivio storico.
Nella prima metà del Novecento e fino agli anni Sessanta fu adibita a carcere
e poi per pochi anni ospitò alcuni uffici comunali.
Tutto ciò che vi era conservato rimase lì per molti anni, compresi
i documenti che erano depositati nel vecchio corpo di guardia. Si trattava di verbali
di arresto e di perquisizione, di disposizioni, ordinanze e via dicendo. Con gli
anni tutte queste carte erano state accatastate, le une sulle altre, tutte buttate
in un'unica stanza umida e priva di aperture.
Quando il Comune decise di restaurare quei locali per un loro diverso utilizzo,
alcuni operai furono incaricati di selezionare le carte ancora leggibili da quelle
sepolte: le prime da conservare, le altre da bruciare. Insomma fu ordinato a chi
sapeva spalare e accendere un fuoco di fare un po' di pulizia ... storica.
Fu per puro caso che mi trovai a passare da lì mentre gli operai diligentemente
avevano acceso un falò e vi stavano gettando le carte consunte e strappate.
Mi avvicinai e vidi che da una parte erano posti in bell'ordine formulari, moduli
e modelli fuori uso, ma quasi intatti e completamente in bianco, cioè tutto
ciò che non conteneva nulla se non le poche righe prestampate dalle ditte
fornitrici. Tutto il resto, mano a mano che emergeva da sotto la montagna di ingenti
ed inutili spese, veniva dato alle fiamme.
Le persone incaricate dell'operazione mi guardarono con l'aria soddisfatta di chi
ha svolto un lavoro scrupoloso degno di essere riferito ai superiori.
"Cazzo" gridai, con gli occhi che mi uscivano dalle orbite, dirigendomi
verso di loro e calpestando braci e cenere per interrompere lo scempio, "che
cosa state facendo!"
Lo stupore che si poteva leggere nei loro occhi era nulla rispetto all'indifferenza
che colsi nello sguardo degli amministratori quando mi precipitai nella stanza dove
erano riuniti.
Le parole come un fiume in piena non seguivano alcun processo logico e le parolacce
frammiste ad esse non aiutavano certo a capire gran che di quanto dicevo, ma le
persone che avevo di fronte erano estremamente intelligenti: compresero subito che
mi riferivo alla pulizia che avveniva al piano sottostante.
"Cose vecchie" disse il sindaco.
"Molte di esse riguardano famiglie che sono ancora presenti a San Marco"
aggiunse un assessore pensando di dire qualcosa di umano "e non è giusto
che un pinco pallino qualunque sappia i loro fatti privati!" Il terzo
assessore presente nella stanza colma di circolari, di vecchie agende, di formulari
per la concessione di contributi, di modelli di deliberazioni, di immaginette di
santi infilate in ogni fessura, si avvicinò cercando di calmarmi e con fare
paterno mi disse: "Paolo, sai tranquillo, io stesso ho detto ai netturbini che
se trovano qualcosa di interessante la devono mettere da parte".
"Certo" risposi, conoscendolo bene "hanno già messo
da parte due calendari con le donne nude!"
Scesi precipitosamente le scale seguito, anzi inseguito, dalle persone che avevano
affidato la loro storia alle carte d'identità e ai certificati che firmavano
a turno elargendo il massimo dei favori ai cittadini.
Mi tuffai letteralmente in quel mare di carte: ne presi alcune a caso. Erano brandelli
di registri, fogli sparsi privi di ogni riferimento, copertine di carta pecora con
vistose macchie di umidità. Lessi sul dorso di una di esse: NATI 1811. Ne
presi altri, altri ancora, leggendo ora qui ora là.
Mi sentii rispondere: "Sono tutte persone morte da oltre un secolo!"
"È la storia." gridai "Ognuno di noi ha diritto ad avere
una sua storia. È come la vita, anzi è la vita!"
Mi resi conto che le persone che avevo di fronte non capivano.
Mi sedetti sul cumulo di carte, con la testa tra le mani. Disperato, quasi piangente.
"Accuortu c'a storia si 'mbunna!" disse uscendo per ultimo dalla
stanza l'ultimo degli assessori.
Forse il timore che ne parlassi in giro fece interrompere quell'operazione sconsiderata.
Ebbi modo nei mesi seguenti di frugare tra le carte. Vi lessi molte cose. Tante,
compresa una che riguardava la morte avvenuta lì, nel luogo in cui mi trovavo,
alle ore una e trenta della notte di un lunedì di quasi due secoli prima.
A dichiararla non furono né le guardie né un ufficiale, ma il domestico
di una nota famiglia e un calzolaio.
Quale mistero si nascondesse dietro quella morte non riuscii mai a scoprirlo. Non
posso escludere che la soluzione fosse tra le carte incenerite in quel triste giorno
e per questo motivo, ancora oggi, ritengo che l'uomo, Francesco Montisano di anni
35 di Grisolia, sia stato ucciso due volte.
Dopo una settimana comparve sull'uscio della stanza, dove io ero intento a curiosare
nella discarica storica, un giovane con i capelli corti, già grigi. Si chiamava
Stanislao. Era stato nominato responsabile dell'archivio comunale.
Riuscì a recuperare e ordinare tutte le carte che in seguito ebbi modo di
consultare.
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