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IL CIRCENSE DI COMPIANO
Dirò subito che tra coloro che non videro di buon occhio l'occupazione della
piazza c'era un calzolaio -che chiamerò solo con il nome per evitare che
i discendenti di lui, persone rispettabilissime, possano odiarmi per tutta la vita-
il quale volentieri avrebbe preso a schioppettate il sindaco e suo figlio.
Alto, robusto, le spalle un po' curve, affetto da una lieve balbuzie, aveva sempre
sulle labbra un sorriso sprezzante, anche in quella occasione, mentre attraversava
la piazza, calpestando ora questo, ora quel lembo di giubba dei militi sdraiati
a terra o appoggiati allo zaino.
L'andatura irregolare sembrava dovuta alla sua mole, invece si trattava di un atto
volontario con cui esprimeva tutto il suo disprezzo verso quelle divise di spretati
e senza Dio.
Nella mano affondata nella tasca stringeva una lama con l'estremità curva
e affilata: il trincetto con cui tagliava la tomaia delle scarpe.
Si avvicinò al gruppo di soldati che, in un angolo della piazza, trattenevano
un giovane biondo, scalzo, che urlava da sembrare invasato: frasi senza senso o
in una lingua sconosciuta? Non fu capito. O non fu ascoltato.
L'uomo dalla gran mole parve volere superare l'ostacolo spostandosi sulla sinistra
del giovane, il quale aveva smesso di urlare e lo fissava con occhi sbarrati dal
terrore.
Un si o un no sono la sintesi estrema di due eventi che possono verificarsi, come
il bianco e il nero, come due strade che si biforcano, come la vita e la morte,
la gioia e il dolore, le antitesi che ad ogni passo volenti o nolenti sono lì
pronte a decidere la nostra sorte. Esistevano due possibilità per il ragazzo:
che l'uomo proseguisse oppure che ...
Fu un attimo. Schizzò un fiotto di sangue, la bocca del giovane si allargò
in una profonda fessura fino all'orecchio e l'aggressore si infilò con passi
veloci nel Puzzillo.
Potrei a questo punto chiudere l'orrore di questa visione, ma un cronista ha il
dovere di mostrare ciò ha visto o ha letto, senza porsi problemi morali perché
se lo facesse si trasformerebbe in un censore.
La carne pendeva tremula, lasciando scoperti i denti, là dove un secondo
prima la guancia rosea era stata appena increspata da un sorriso che supplicava
pietà. Il giovane non gridava, non piangeva, non implorava, sembrava, invece,
che superato il terrore fosse quasi felice. Il sorriso che gli attraversava il volto
era orribile e gli conferiva l'aspetto macabro di una morte sfinita ma appagata
della sua danza.
Colui che lo aveva ridotto in quello stato attraversò senza fretta Santo
Petruzzo e rientrò, senza essere visto, nella sua casa, al quartiere Sir
Andreace, all'angolo opposto della piazza dove aveva compiuto la sua vendetta.
Perché di vendetta si trattava.
Tutti voi avete assistito a questa aggressione che io vi ho fatto vedere e se volete
andiamo anche a dare un'occhiata al luogo preciso dove essa è avvenuta: qui,
vicino alla stradina che scende verso le attuali vie Galluppi e Tarrutenio o, come
era chiamato allora, al quartiere del Puzzillo. Oggi, nei locali che si affacciano
su quel tratto di strada, vi è la sede della Misericordia.
Chi era la vittima di questa aggressione?
Nato nel distretto di Compiano, in Toscana, era arrivato a Sammarco nel quartiere
Santa Maria, proveniente da Fuscaldo, con un fratello, un terzo girovago, una donna,
non più giovane ma ancora attraente, e un seguito di cavalli nani e due quadrupedi
per trasportare le masserizie, attraversando la strada delle marine di ponente.
Fu avvertito che le truppe francesi avevano occupato la piazza di basso, dove egli
avrebbe voluto organizzare il suo spettacolo equestre, e gli fu consigliato di seguire
il percorso da Capo le Rose alla strada del Crité e di accamparsi nella piazza
di sopra. Forse, se si fosse fermato nella prima le cose sarebbero andate diversamente.
La storia, però, lo sappiamo tutti, non è fatta con i "se"
e con i "ma", e oltretutto la piazza sarebbe rimasta per più giorni
luogo di bivacco di tanti soldati che vi stazionavano il tempo necessario per ristorarsi
e, alla loro partenza, erano sostituiti da altri legionari.
La piccola comitiva, come diremmo oggi, anche se allora la parola veniva usata per
indicare una banda di briganti, si mosse per raggiungere la piazza di sopra, o della
Torre, non seguendo il percorso che abbiamo fatto noi, ma attraversando il quartiere
del Critè, che oggi corrisponde in gran parte alla via Vincenzo Iulia.
Immaginate che cosa poteva accadere quando un forestiero passava per gli stretti
vicoli di uno dei quartieri più popolati del paese dove centinaia di persone,
di tutte le età, vivevano a contatto di gomito: decine di occhi curiosi lo
seguivano per tutto il percorso.
Immaginate che cosa accadde quando quattro individui, con quattro cavalli nani,
un asino con due ceste, un mulo che trasportava travi di legno e teloni, e un cane,
tutti muniti di campanelli, comparvero nella piazzetta di Santa Maria e iniziarono
la salita che porta al Capo delle Rose.
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Tutti si affacciarono dapprima dalle finestre e poi cominciarono ad uscire dalle
case, disponendosi lungo la strada per assistere all'insolito passaggio: le donne
guardavano con curiosità i giovani forestieri, gli uomini con sospetto e
i bambini si accostavano temerariamente agli animali cercando di toccarli.
Andrea -questo era il nome colui che guidava l'allegra brigata- afferrava ogni tanto
qualcuno dei monelli che tentavano di avvicinarsi ai quadrupedi più piccoli,
e, sollevandolo in aria, lo poneva scalciante sul dorso di un cavallino, tra l'invidia
degli altri e il divertimento delle donne presenti.
Tra i numerosi sguardi gli capitò di incrociare quello di una giovane, piccola
e ben fatta, che teneva in braccio il proprio bambino, più esile degli altri.
Si fermò e lo sottrasse ridendo dalle braccia della madre, posandolo sull'animale,
addestrato a trotterellare in maniera buffa ogni qual volta aveva un peso sulla
groppa. L'andatura costrinse la donna ad accelerare il passo per star dietro al
figlio che sembrava ancor più gracile e senza peso. Dopo alcuni metri, all'iniziale
imbarazzo era subentrato un piacevole trasporto, pensando a quel giovane abile e
disinvolto che rendeva il figlio felice e lei meno afflitta. Approfittò del
muoversi naturale della testa per osservarlo meglio e si accorse, abbassando subito
lo sguardo, che lo sconosciuto che teneva il cavallo per la coda le sorrideva sfacciatamente.
Gli occhi di lui si insinuarono lubrici nella scollatura di lei, cercando di immaginare
la nudità di quei seni ancora ben sodi, che si alzavano e si abbassavano
con il ritmo che il trotto imponeva. Nel contempo toccandosi le parti basse del
corpo, come a voler sistemare i calzoni, strizzava un occhio in direzione dei truci
sguardi maschili, alla ricerca di un consenso che difficilmente avrebbe incontrato.
Oltre che volgare, Andrea era un individuo scaltro, che aveva saputo adeguarsi alle
diverse situazioni politiche presenti nei paesi che attraversava.
In questa sua venuta in Calabria, quasi al seguito delle truppe francesi, affermava
di essere un sincero rivoluzionario, un "Jacopino" antiborbonico,
di conoscere il "fransuà" e avendone appreso qualche parola
e qualche suono, bestemmiava alla maniera toscana con accento francese.
Tra i suoi numeri equestri ne presentava uno veramente disgustoso, nel quale era
simulato un accoppiamento di una donna con una delle sue bestie. Convinto che l'esibizione
fosse gradita alle "bucaiolè", come egli chiamava con accento
francese le femmine, che a suo dire ne ricavavano piaceri inconfessabili, fingeva
di scegliere tra il pubblico una donna, che poi era la sua "druda"
-l'amante- con le apparenze e l'accento di una gentildonna della corte napoletana,
invitandola con modi galanti a sdraiarsi al centro del circo. Il seguito era una
volgarissima sequela di incitamenti all'animale e di insulti alla donna, accompagnati
dalle urla e dalle espressioni scurrili del pubblico, tutto maschile.
Se invece dei francesi, al governo, ci fossero stati i borboni, la donna avrebbe
assunto le vesti di una cortigiana francese.
Questa era la fama che lo aveva preceduto, in gran parte documentata negli atti
di alcuni processi che subì per stupro, minacce e furto. Nessuna condanna
subì per oscenità visto che esse riguardavano una "briffalda",
senza considerare che allora le donne nella scala dei valori erano poste da molti
uomini un gradino al di sotto del cavallo.
Andrea lasciò per un istante la coda dell'animale, si accostò alla
madre del bambino e, fingendo di parlarle più da vicino per superare il frastuono
di voci, urla e risate, accostò la sua bocca all'orecchio di lei, poi le
cinse la vita con un braccio e con il dorso della mano sinistra le sfiorò
le spalle scoperte e il collo.
Fu un attimo: il cavallo, non più trattenuto, né approfittò
per togliersi il piccolo fardello dalla groppa. Il bambino volò in aria come
un fantoccio e cadde malamente a terra, sbattendo il capo su una pietra.
Gaetanino M., sette anni appena, passò dalla vita alla morte, tra le grida
delle donne e l'accorrere silenzioso degli uomini.
Molte persone, quando avvengono simili tragedie, ritengono che esse siano volute
dalla giustizia divina che provvede ad infliggere la dovuta punizione per qualche
peccato commesso.
È opinione diffusa, inoltre, che i santi protettori stiano lì, in
cielo, a scrutare per chi e come interrompere gli effetti della condanna. In genere
scelgono coloro che li invocano oppure, in caso di intere categorie, quelle che
li hanno eletti al ruolo di patrocinatori stabili. Quando non adempiono al loro
mandato la causa va ricercata nella vittima e nei suoi ascendenti.
Se la vittima è un bambino, state pur certi che la sua morte è dovuta
a un atto riprovevole commesso da una madre scellerata. E nel caso del povero Nino,
oltre alla madre, anche il padre aveva le sue colpe.
Chi era Gaetanino, detto Nino?
Si dà il caso che fosse il figlio di Saverio, uomo violento, dedito al vino,
con qualche simpatia giacobina ed estremamente geloso. E chi non lo sarebbe stato
con una moglie giovane, bella, corteggiata e sicura preda di insidie maschili? Tra
le persone accorse per prime c'era mastro Domenico, il calzolaio, alto, con le spalle
robuste, dall'incedere lento, sempre il primo a reggere le statue dei santi nelle
processioni, e noto ancor più per la santa fede borbonica. A lui Saverio,
pur di idee diverse, aveva affidato l'onore della sua Gesualda.
Il candido collo di lei, appena sfiorato da una mano sconosciuta, gli apparteneva
di diritto, così come i seni, che il forestiero aveva impunemente guardato,
e l'intero corpo con i suoi desideri.
Il diritto gli derivava dal fatto che la donna affidatagli dal legittimo marito,
rinchiuso nelle galere di Napoli da oltre sei anni, era divenuta la sua "druda".
Ne poteva godere sia di giorno, che di notte, ma preferiva quest'ultima perché
gli incontri diurni si risolvevano in rapporti sempre più spesso interrotti
dalla comparsa improvvisa di quel figlio non suo. Mastro Domenico non si accostò
neppure al corpicino su cui Gesualda piangeva, anzi pensò che la Provvidenza
aveva fatto il suo dovere interrompendo una stirpe di senza Dio.
Fattosi largo tra la folla con la facilità che gli derivava dall'altezza
e dalla brutalità dei modi, chiese ai tre forestieri chi di loro tenesse
a bada il cavallo, cercando di ricordare la fisionomia di colui che aveva toccato
la sua donna.
Andrea, che era sopravvissuto ad esperienze ben peggiori di quella, pur avendo acquisito
un modo di fare tracotante e spavaldo, comprese che a nulla sarebbero servite le
spiegazioni e non pensò neppure per un secondo di far ragionare il grosso
individuo, che egli riteneva un parente del ragazzino morto. Come il suo istinto
gli suggerì, dopo aver finto di farsi avanti per subire la giusta vendetta,
di colpo lo spinse a terra e gridandogli alla maniera toscana, di andare "alle
Ballodole", cioè all'inferno, si diede alla fuga verso la piazza
da cui provenivano ordini e rumori di truppe. Era convinto che in mezzo alla calca
sarebbe riuscito a farla franca.
Invece ...
Il resto lo sapete già. Ciò che certamente non sapete è che
gli uomini che lo avevano visto toccare Gesualda e le donne che avevano visto quest'ultima
piangere sul figlio morto dissero in seguito "C'è vuluta!",
per confermare che Dio esisteva davvero.
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