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TRUPPE FRANCESI A SAN MARCO
Sui quattro lati di un ampio spazio rettangolare si affacciano ancora oggi i palazzi
Cristofaro, Selvaggi, La Regina e la chiesa di San Giovanni Battista, detta anche
in un documento del 1209 degli Amalfitani.
La piazza è gremita di soldati francesi.
È l'anno 1810.
Alcuni ufficiali discutono animatamente con un signore di mezza età, dall'aria
afflitta. Tutt'intorno una marea di soldati, stanchi, inzaccherati, per la maggior
parte stesi supini o seduti a terra con la schiena appoggiata allo zaino.
Alcuni presentano ferite sul viso e sulle mani, altri hanno la testa fasciata, altri
ancora hanno la divisa macchiata di sangue, ma la maggior parte di loro sono solamente
stanchi.
L'uomo desolato, alle prese con un problema enorme, che non avrebbe mai immaginato
di dover un giorno affrontare, è il sindaco di Sammarco. Si chiama Carlo
Amodei, ma all'epoca al nome di ogni galantuomo e a quello dei sacerdoti, veniva
anteposto il titolo di don, cosicché anche noi lo chiameremo rispettosamente,
come facevano tutti i suoi cittadini, don Carlo. Tra gli ufficiali c'è anche
il figlio, don Andrea, al quale il don spetta per una doppia condizione: essere
stato sacerdote ed essere un Amodei.
Che cosa chiedono con tono concitato quegli ufficiali al sindaco?
Gli chiedono di mettere a disposizione alloggi e magazzini per le truppe.
Don Carlo, un po' per paura e un po' per venire incontro alle richieste del figlio
Andrea, requisisce alloggi e magazzini garantendo ai proprietari il pagamento dell'affitto.
A spese del Comune.
Che ci facevano a Sammarco tanti soldati?
Erano diretti in Sicilia per buttare a mare il governo borbonico e sostituirlo con
quello di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone. Anch'io ho avuto, al pari di voi,
qualche dubbio nel credere che migliaia di soldati francesi si fossero riversati
in un piccolo paese dell'entroterra piuttosto che attraversare il territorio a valle.
Il dubbio è comprensibile perché la gran parte di coloro che vivono
in un piccolo borgo, ignorato dagli storiografi, ritengono che la storia, quella
importante per capirci, si sia svolta altrove mentre presumono di essere loro stessi
e il piccolo luogo dei loro interessi il centro dell'universo.
Tuttavia, se nutrite qualche legittimo dubbio che qui a Sammarco ci fossero realmente
tanti soldati, prendete un qualsiasi libro di storia e andate a verificare che cosa
accadeva in quell'anno in Calabria.
Troverete, nelle ultime pagine, essendo la storia d'Italia scritta non solamente
da sinistra verso destra ma anche dall'alto in basso, che la Calabria era nelle
mani dei francesi e le truppe si dirigevano in Sicilia dove il governo borbonico
aveva mantenuto una metà del suo regno.
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Se non credete che qui si fermarono migliaia di soldati francesi, andatevi a leggere
la deliberazione del 18 maggio dell'anno 1823. La trovate custodita, al pari delle
altre, in un umido locale di un vecchio carcere impropriamente chiamato archivio
storico.
Vi leggerete che, passati tredici anni dai fatti accaduti, il sindaco Amodei era
ancora in debito con il comune di parecchi ducati.
Perché? Non lo chiedete a me che non sono uno storico e che la storia la
subisco. Fatevelo spiegare, piuttosto, da coloro che la storia la fanno, perché
si trovano sempre dalla parte dei vincitori.
Da parte mia posso dirvi che gli stessi soldati che all'andata erano in divisa,
al ritorno erano laceri e in fuga e, per giunta, in numero molto inferiore ai primi.
Quando le guerre non si vincono, ma si perdono, non c'è nessuno che stia
dalla parte degli sconfitti, e così il povero sindaco don Carlo Amodei dovette
pagare di tasca sua tutto ciò che aveva offerto ai soldati francesi, giunti
a Sammarco "... in mille, e due mila per ogni giorno".
Don Carlo, per farla breve, finito l'effimero regno di Giuseppe Bonaparte e di Murat,
dovette pagare tutte le spese sostenute per accogliere i soldati che erano transitati
per Sammarco. Erano talmente tante che gli fu accordato di versare le somme a rate
e, nel 1823, "con sua moglie, avanzata in età, e due figlie femmine nubili"
gli fu concesso di pagare "il residuale debito di ducati sessanta oltre ai sessantasei
d'interesse" entro i successivi quattro anni.
Era il giorno di Pentecoste.
Se adesso vi dicessi che la moglie di Don Carlo Amodei la domenica sera ringraziò
lo Spirito Santo per aver illuminato quei dieci galantuomini che formavano il decurionato
-oggi si chiama consiglio comunale- voi direste immediatamente: "Ecco come si
inventa la storia!"
Infatti non è pensabile che un documento d'archivio possa contenere addirittura
le espressioni devote che la consorte del sindaco poteva aver rivolto al messaggero
di Dio. Sarei il primo a dire che una simile storia può essere frutto solo
di immaginazione feconda.
Dopo aver letto le argomentazioni che seguono, scoprirete che voi siete i sostenitori
della veridicità di quanto avete appena letto, mentre io ne prendo laicamente
le distanze.
Ecco la dimostrazione di quanto affermo.
Credo che sappiate che le Pentecoste cadono di domenica. Io non lo sapevo, né
sapevo che la data ricorre cinquanta giorni dopo la Pasqua e rappresenta la discesa
dello Spirito Santo sugli apostoli, radunati a discutere della morte e della resurrezione
del loro maestro.
Se vi sorgesse il dubbio che questa deliberazione esista davvero o che don Carlo
Amodei avesse una moglie anziana e due figlie nubili oppure che il 18 maggio 1823
fosse il giorno delle Pentecoste, chiudete il libro, andate in archivio e controllate
quanto ho scritto, poi aprite il vostro computer e fatevi calcolare, da un programmino
che troverete facilmente in rete, quale ricorrenza religiosa cadeva in quella data.
Se poi mettete in dubbio la mia affermazione su ciò che disse la signora
Amodei, io vi dico solo che donna Teresina Campilongo era persona devotissima e
la sventura che le capitò di vedere suo figlio Andrea fattosi prete, sposare
con l'abito talare addosso, a ludibrio dei sacramenti, una "briffalda"
-come era chiamata allora una donna di facili costumi- sotto un albero della libertà
giacobino, quindi fuggire come un bandito dal suo paese per rientrarvi con l'uniforme
delle truppe francesi che avevano cacciato il santo re Ferdinando, e infine vederlo
morire a trentadue anni, non erano cose da lasciare indifferente una pia donna.
Che la Provvidenza, da sola o in conseguenza delle scelte del figlio, ci avesse
messo lo zampino è cosa che non penso io, che non credo affatto nella Provvidenza,
ma sicuramente donna Teresina, e gran parte di voi, l'avranno pensato!
Fatemi dire una cosa riguardo alla vostra incredulità, sperando che sia l'ultima:
se ogni volta devo dar conto della attendibilità delle fonti, va a finire
che invece di raccontare ciò che mi è accaduto, mi toccherà
trascrivere tutti i documenti consultati, farvi ascoltare le registrazioni dei colloqui,
farvi vedere foto e filmati che provino la veridicità della mia storia.
Penso che la precisazione possa fermarsi qui.
Perché non vi chiedete, piuttosto, che cosa c'entra tutto ciò con
il segreto di cui ho parlato all'inizio, che rappresenta la questione centrale di
tutta la vicenda?
C'entra moltissimo, perché senza il passaggio di quei soldati la storia avrebbe
seguito percorsi diversi.
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