LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti
Sostare con il mouse su parole dialettali, straniere o antiche
41. Il rientro di Vincenzo a San Marco. Da Michele e poi da donna Fiorina a ritirare
il libretto
Avvolto in un mantello alquanto vecchio, con una coppola sbiadita e consunta, rasato,
nessuno avrebbe riconosciuto in quella figura scialba il trappitaro,
ricercato per omicidio in persona di don Francesco Cristofaro. Vincenzo si era tinto
il viso e le mani di fuliggine in modo da apparire uno dei tanti carbonai di Bocita
o della vicina San Lauro. La posizione delle braccia che quasi serravano il corpo
segnalava ad eventuali curiosi che la persona non gradiva essere infastidita né
avvicinata: una mano tratteneva un lembo del mantello, l'altra stringeva il manico
della scure poggiata sull'avambraccio. Vincenzo aveva fatto suo quell'atteggiamento,
osservato nelle persone rissose, per incutere timore e rispetto: se qualche sprovveduto
avesse osato fermarlo, bastava che la mano che tratteneva il mantello si aprisse
perché l'altra apparisse armata e minacciosa. Il gesto accompagnato da uno
sgraziato «Cchi'bù? …»
avrebbe fatto allontanare in fretta chiunque avesse avuto la sventura di fermarlo.
Il modo insistente di guardare i suoi interlocutori, quasi ad effigiarne il volto,
accresceva la paura di esser in seguito riconosciuti, per cui ognuno cercava di
sottrarsi anche al semplice disagio di essere osservato.
Sicuro di sé e con il proposito di togliersi dalla testa alcuni rovelli,
si diresse lungo la Silica e quindi tagliò per Santo Pietro. Camminando a
testa bassa passò dinanzi la casa di Michele, del quale sapeva di potersi
fidare. Fece un leggero fischio, simile a quello di un fringuello, e dopo alcuni
secondi Michele comparve sulla porta. Lo riconobbe e, dopo aver dato un'occhiata
in giro, gli fece cenno di entrare. Lo informò sugli ultimi avvenimenti,
senza chiedergli nulla di lui o di altri. Lo avvertì che alcuni testimoni
erano stati avvicinati e convinti a deporre contro di lui, scagionando gli altri.
Vincenzo ascoltò tutto senza batter ciglio. Bastavano poche parole per intendersi,
a volte anche un semplice gesto. Michele gli espresse altri dubbi e timori: tra
questi che le famiglie coinvolte si fossero riunite per decidere le azioni da intraprendere
in difesa dei propri familiari. Vincenzo chiese se tra queste vi fosse la famiglia
dove lui lavorava. «Soprattutto loro» fu la risposta di Michele. Gli
chiese ancora se anche altre famiglie erano intervenute in qualche modo e l'amico
gli rispose che non ne capiva niente di politica né voleva entrarci. Vincenzo
lo salutò e nell'atto di aprire la porta chiese: «E …»
Bastò questo perché Michele gli rispondesse: «No, Fiorina non
è più a casa sua! È dalla sorella.» Vincenzo spiò
fuori dalla porta e uscì, imboccando la strada che portava dietro la chiesa
di Santa Caterina e si infilò nello stretto vicolo che separava questa dalla
casa di don Emiddio. Si avvicinò ad una finestra a piano terra le cui ante
erano leggermente scostate. Batté un lieve colpo sul vetro e con voce bassa
chiamò: «Fiorina». Dopo alcuni secondi si aprì uno spiraglio.
Donna Fiorina lo invitò ad allontanarsi dal paese, perché volevano
far ricadere ogni colpa su di lui. Vincenzo, per nulla preoccupato, infilando la
mano tra le sbarre della grata disse che aveva avuto l'ordine di consegnare lui
il libretto. Dopo qualche istante ritirò la mano che stringeva qualcosa e
la infilò sotto il mantello. Infine diede un'occhiata all'imbocco del budello
per accertarsi che non lo vedesse nessuno e, afferrata la grata con entrambe le
mani, vi infilò quella parte del viso che poteva passarvi. «Fiorina,»
chiese «l'ultimo bacio …» Lei gli staccò prima una poi
l'altra mano e sommessamente gli disse: «Và, và, delinquente,
che la paglia s'è già bruciata.» Vincenzo sorrise e prima che
lo spiraglio si chiudesse le mandò un bacio sulle punta delle dita, dicendole:
«Donna Fiorì, che donna che siete!» Quindi si avvolse nel manto
e si allontanò di alcuni passi, fermandosi subito dopo sotto la casa di don
Leone Catalano.
42. Vincenzo consegna il libretto a don Leone Catalano
La stalla era socchiusa, segno che qualcuno stava governando la vettura. Sbirciò
all'interno e quando si accorse che vi era solo il vecchio Raffaele, entrò
chiamandolo per nome.
«Chi è?» chiese questi guardando verso la sagoma scura sulla
porta.
«Vincenzo, Vincenzo di Carluccio 'i Napoli.» rispose a voce bassa l'altro.
«Ah, … ma ti cercano. Ti cercano in tutto il paese, che eri con Doggatano
…» lo informò il domestico di casa Catalano con il tono di chi
vuole aiutare un amico ad uscire dai guai.
«Lo so, lo so» tagliò corto Vincenzo. «Ma io non c'entro,
ho solo tirato qualche palata!»
«Lo immagino …» disse senza ironia Raffaele. «Prima avevano
incolpato a Peppinuzzu …»
«A chi?! Pippinuzzu u cacagliu?!»
chiese ridendo Vincenzo. «Povarieddru …»
aggiunse con una nota di sincero rammarico. «Mi chiama
Tata Vicienzu.»
Raffaele si dimostrò insofferente di fronte alle commiserazioni di Vincenzo,
temendo che la sua presenza nella stalla gli potesse procurare guai. «Vincè,»
gli disse con tono deciso «sei qui per quale motivo?»
«Don Leone …» accenno timidamente il trappitaro
«don Leone mi deve aiutare.»
«Ti deve?» chiese Raffaele accentuando l'obbligo richiesto dal ricercato.
«Don Leone ti deve aiutare …» e subito dopo aggiunse. «Vincè,
don Leone è stato ascoltato ieri. L'ho sentito da dietro la porta che diceva
a don Giovanni, il giudice, che Don Luigi, Don Gatano, Don Eugenio, tu e Giuseppe,
u servituru di Campulongu, siete abituati a commettere
discolezze e insolenze,
di notte. Che lo sanno tutti …»
«Rafè» lo interruppe Vincenzo «e inutile che mi parli di
fatti che conosco. C'è una cosa più importante …»
«Quale?»
«Quella perché don Ciccio è stato ucciso …»
«Vincè, non pigliar la serra di giro, che lo sanno tutti perché
don Gaetano ha ucciso il cugino e ha ferito a don Antonio.»
«No, il motivo vero non è quello …»
«E quale sarebbe Vincenzo de Napoli?» chiese una voce all'improvviso
alle spalle di Raffaele.
Questi si girò riconoscendo la voce di don Leone Catalano, mentre Vincenzo
rimase immobile e muto.
«Sei ricercato, ti introduci nella mia stalla, ti metti a conversare con il
mio domestico. Potrei sapere che altro vorresti da me?» chiese con voce alterata
il padrone di casa. «Don Leone … la cosa che vi devo dire vale più
della mia pena.» «Se è così importante, perché
non sei andato direttamente dal giudice o alla gendarmeria?»
«Perché so che voi … voi siete uomo di onore. E …»
Don Leone lo interruppe e gli disse di salire, lasciando Raffaele a guardia nell'atrio
di casa. Don Leone fece sedere Vincenzo e gli chiese quale fosse il segreto che
doveva confessargli. «Riguarda te o … la mia persona?»
«Nessuno dei due» rispose Vincenzo, estraendo dalla tasca un libricino
sgualcito. Fece il gesto di porgerlo a don Leone, che senza toccarlo gli chiese
cosa contenesse.
«Perché è tanto importante e perché pensi che mi possa
interessare?»
«Perché … lo aveva … era in …» cercò
di spiegare l'uomo indeciso se continuare o posare sul tavolo ciò che teneva
in mano. «Guardate voi stesso!» disse alla fine scegliendo la seconda
soluzione.
Fissò lo sguardo negli occhi del padrone di casa, in attesa di un suo gesto.
Questi prese lentamente il libretto, guardando anch'egli negli occhi l'altro, poi
lo aprì, sfogliò e lesse alcune pagine, lo chiuse, e tenendolo tra
le dita, disse: «Potrebbe … potrebbe … contenere informazioni
interessanti.»
Dopo alcuni secondi, con voce ferma, chiese: «Vuoi soldi?»
«Non sia mai, don Leone. Per voi questo e altro …» rispose Vincenzo
forse memore di qualche passato favore.
«Chi sa, oltre a te, che cosa è scritto nel libretto?»
«Non saprei chi oltre a don Francesco …»
«Intendo dire dopo don Francesco.»
«Chi l'ha preso a don Francesco, suppongo.»
«Perché? non lo hai preso tu?»
«No, io me lo sono trovato nella tasca a casa di …, alla torre di Jemmoli.»
Si pentì immediatamente di aver rivelato il luogo in cui si era rifugiato
assieme a don Gaetano, e tentò di correggersi «Volevo dire un giorno
che andai …» ricorrendo ad una palese menzogna.
«Lascia stare, che ho capito cosa facevi alla torre» lo interruppe
don Leone. «Oltre a te e a Gaetano chi c'era alla torre?»
«Nicola, il colono.»
«E poi, oltre a lui, e a don Giovanni Jemmoli - che ci sarà stato,
o no? - chi hai visto?»
«Il forestiero, il ghiegghio
del papa …»
«Chii? E chi è?» chiese meravigliato don Leone.
«Non lo so, è stato capo sbirro a Roma, si chiama … si chiama
… Chia … Cav …»
«Il francese?»
«Non so se è francese, don Leone. Se mi chiedete come era vestito,
come era fatto, vi posso rispondere, ma se era francese non ve lo so dire. Siciliano
o di Napoli, no, perché in carcere …»
«Si, va bene, ho capito» lo interruppe don Leone Catalano. «Non
ha importanza. Ora esci da dove sei entrato, senza farti vedere.»
Quindi estrasse da un cassetto alcuni grani e glieli porse. Vincenzo, risentito,
facendo il gesto di ritirare la mano, disse: «Don Leò, voi mi offendete!
Io vi sono sempre debitore …»
A queste parole l'offerente approfittò per suggerirgli una versione dei fatti.
«A proposito, Vincenzo, quella storia dei viglietti,
quelli di don Gaspare il sindaco alle drude, è
quella la vera causa che …»
«Certo, don Leone, certo. Don Gaetano e don Luigi erano troppo, troppo arrabbiati
con don Francesco, perché è stato lui …»
«Sì, sì, lo so, lo so, lo sanno tutti.»
«Sì, lo sanno tutti che don Gaetano aveva anche bevuto troppo …
anche gli altri …»
«Eh, … sì, il vino!» Il tono della voce di don Leone si
era abbassato quasi stesse riflettendo sui danni provocati dal troppo bere, poi
improvvisamente risalì di qualche nota: «Don Salvatore e don Giacomo
sanno quando smettere … sono fatti di altra pasta … sono - lo dicono
tutti - giovani a modo». Si fermò un istante, guardando Vincenzo negli
occhi, in attesa di un cenno di conferma, quindi concluse: «Come lo zio, don
Gaspare Valentoni».
«Certo» disse Vincenzo «come don Gaspare, il sindaco».
Con quest'ultima affermazione gli sembrò di aver pienamente soddisfatto la
raccomandazione di don Leone di non tirare in ballo anche i due fratelli Campolongo.
Quindi chinò lievemente il capo in segno di saluto e uscì dalla stanza.
Nell'atrio Raffaele de Cola, il domestico, gli augurò «Va'
cu' Signure» e lo fece uscire dalla stalla, dopo aver controllato
che nel vicolo non ci fosse nessuno.
Vincenzo intuì che non era il caso di ritornare alla torre e si diresse dai
fratelli Mezzomonaco, illudendosi che gli avrebbero trovato una sistemazione sicura,
magari ad Altomonte.
43. Testimonianze. Trovate le armi
Nello stesso momento nella piazza di basso si producevano nuove prove, non solo
da chi era stato diretto testimone di questa o quell'azione, bensì anche
da chi in maniera fortuita aveva rinvenuto l'arma del delitto. Ci fu anche chi andò
a cercare nella neve se qualcosa fosse caduta dalle tasche dell'ucciso. Chi parlò
di soldi, chi di documenti compromettenti. Una voce insinuò pure il dubbio
che don Gaetano era stato spinto di proposito a bere per uccidere il cugino per
motivi politici, come se dietro quella parola si nascondesse un universo tenebroso
di persone senza scrupoli. Raffaele Madorno, il domestico di don Luigi Bova, con
il suo amico Salvatore Dardis si recò nel luogo dove era caduto don Francesco
la sera prima, alla ricerca di soldi o di qualcosa che l'ucciso aveva in tasca.
Glielo aveva detto la sorella, Ninuzza, l'amante di don Ciccio: «Secondo me
lo hanno ucciso per i soldi che aveva in tasca o qualcosa di prezioso.»
«E tu che ne sai?» le aveva chiesto il fratello.
«Lo so, lo so, che con me si confidava: Ho qualcosa qui in tasca che non sai
quanto vale, mi aveva detto»
«E che cosa potevano essere. Ducati d'oro?»
«Poteva anche essere un gioiello …»
E così sperando in un tesoro, perché da sempre la povera gente sogna
di trovare tesori, Raffaele Madorno si avviò con Salvatore Dardis sotto casa
Scarpello. Finsero la curiosità da tutti dimostrata nel visitare il luogo
del delitto. Raffaele smosse lentamente la neve con un piede, quasi a saggiarne
lo spessore, poi disse di aver avvertito qualcosa sotto la scarpa. Si chinò
e rapidamente mise in tasca la mano con ciò che essa racchiudeva.
«Cos'è?» chiese sospettoso l'amico.
«Niente. Poi ti spiego.» rispose a bassa voce l'altro.
Allontanatisi di alcuni passi, Salvatore disse: «È la coltella di caccia
di don Antonio».
«Ah, aveva una coltella di caccia?»
«Si lo sanno tutti, con quella ha ferito alla testa don Gaetano.»
«E ora che ne fai?»
«Niente io. La do a Salvatore Scarpello che la consegna al giudice.»
«Lascia stare, rimettila dove l'hai trovata. Non immischiarti in affari che
non ti riguardano.»
«Come non mi riguardano?» rispose con tono di sufficienza, «hai
visto mai che non aiuto la giustizia? E poi lo sanno tutti quanto ero legato a don
Ciccio».
«Tu?»
«Beh, non proprio io, ma mia sorella Gaetanuzza sì. Forse se la sarebbe
anche sposata …»
Chiamò Salvatore e gli consegnò l'arma: «Lavala, è sporca
di sangue. L'ho trovata qui davanti la tua porta».
Salvatore Scarpello chiese «Ne sei certo?»
«Certo, certissimo. C'era anche Salvatore Dardis, qui presente, con me!»
«Si, l'abbiamo trovata proprio qui» confermò l'altro testimone.
E all'incirca le stesse cose dissero al giudice che li interrogò entrambi.
Un giudice istruttore scrupoloso si sarebbe di certo meravigliato di questo ritrovamento
avvenuto casualmente da chi cercava ben altro nella neve, e certamente avrebbe riflettuto
che con gendarmi, guardie urbane, commessi giurati e cancellieri presenti sul luogo
del delitto, nessuno si fosse dato la briga di cercare sul posto le prove del delitto.
Il fatto è che a quel tempo lo stato dei luoghi aveva scarsa importanza e
le indagini si basavano quasi esclusivamente sulle dichiarazioni dei testimoni che
in tal modo diventavano importantissimi per stabilire l'innocenza o la colpevolezza
di un imputato.
Quando nel magistrato nasceva qualche dubbio sull'attendibilità di un testimone,
in genere quando si trattava di testimoni appartenenti a ceti sociali subalterni,
essi venivano mandati in esperimento, cioè in carcere,
a riflettere quale fosse la dichiarazione più conveniente.
E così fu trovata l'arma del delitto, cioè lo stile con cui fu ucciso
Francesco Cristofaro. Lo portava in mano alla vista di tutti, sempre lui, Salvatore
Scarpello, colui che fermò la mano dell'omicida, colui che lo rincorse nel
vico Puzzillo, colui che riconobbe l'assassino di don Ciccio. Stava portando quell'arma
dal giudice, ma cammin facendo incontrò Luigi Talarico, il figlio di mastro
Giuseppe, il quale incuriosito gli chiese dove stesse portando quell'arma.
«Quale, questa?» chiese disinvolto il giovane.
«Certo, visto che avete solo quella in mano» rispose l'interpellante.
«Dal giudice, perché l'ho trovata sul posto dove è stato ucciso
don Francesco.» «Ma guarda, mi par di conoscerla bene. È lo stile
di don Vincenzo Cristofaro. Gliel'ho veduto varie volte quando andavamo a caccia.»
«E da che cosa lo riconoscete?» chiese Salvatore incuriosito.
«Dalle incisioni che ha su ambedue i lati e dai fregi in argentone sul manico.»
«Bene, allora a maggior ragione devo andarlo a consegnare al giudice. Posso
dire che l'avete riconosciuta come l'arma di don Vincenzo?»
«Puoi? Devi!» lo corresse Luigi Talarico. «Sono amico di entrambe
le famiglie Cristofaro, ma sono per la giustizia!» disse con enfasi.
E Salvatore Scarpello andò ad adempiere al suo dovere di cittadino, avendo
soddisfatto l'obbligo sociale.
44. Il sindaco e il giudice Politi a colloquio
Il sindaco ritenne suo dovere invitare il giudice istruttore don Giuseppe Politi,
giunto da Cosenza, e gli mandò un invito formale recapitatogli dal messo
comunale. Il giudice, appena terminò di ascoltare uno dei testimoni che aveva
convocato, si recò al comune, dove fu accolto con cortesia e discrezione.
Furono allontanati alcuni collaboratori, il messo, la guardia urbana. Rimasti soli
don Gaspare Valentoni spiegò al giudice i retroscena del delitto, cioè
i dissapori esistenti tra le due famiglie.
«Purtroppo una causa civile su certe proprietà di donna Maria Francesca,
la zia dell'ucciso, ha peggiorato i rapporti. I germani don Luigi e Gaetano, in
principal modo il primo, erano oltremodo accesi contro il povero Francesco»
stava spiegando il sindaco al giudice.
«Da spingerli all'omicidio? Intendo dire premeditando l'omicidio?»
«Questo, don Giuseppe, non ve lo saprei dire, ma mi parrebbe fuori da ogni
logica, anche la più perversa.»
«Ah, don Gaspare, se sapesse quante logiche perverse ho incontrato nella mia
vita di magistrato! Non dia mai niente per scontato.»
Don Gaspare chiese al giudice se avesse gradito un caffè, di quelli che si
gustano solo a Napoli, che lo avrebbe fatto portare immediatamente, dimenticandosi
di aver allontanato anche l'usciere. «Dopo, caso mai dopo» disse il giudice che aveva
già individuato il caffettiere elogiato dal sindaco, a pochi passi dalla
casa comunale. Da acuto osservatore qual era, aveva effigiato nella mente ogni particolare
che potesse aiutarlo nelle indagini comprese le botteghe sulla piazza in cui era
avvenuta l'aggressione, quelle sotto la casa dell'ucciso e quelle sul lato sinistro,
all'angolo del palazzo Selvaggi. Tutte di calzolari le prime, un botteghino di vendita
privilegiata e una caffetteria sotto il palazzo di don Francesco e di donna Maria
Fera.
Alcuni erano già stati interrogati, uno mandato a riflettere sulla sua deposizione
in carcere e altri in attesa di convocazione.
Il giudice Politi approfittò di questa parentesi per chiedere se ci fossero
famiglie infatuate dalle nuove idee politiche, non perché c'entrassero con
le sue indagini, ma per pura curiosità, visto che ogni paese aveva i suoi
nostalgici del Ventuno. Don Gaspare pensò che la domanda non fosse così
innocente come poteva apparire ed essendo convinto assertore che nella vita ogni
bene doveva essere conquistato per meriti e capacità individuali, gli rispose
che egli ignorava se ci fossero teste calde per idee politiche, ma aggiunse ridendo
che ve ne erano molte per gli eccessi nel bere. «Ne avete un esempio nel processo
che state istruendo: la notte dei vernacchi!»
«La notte dei vernacchi?» chiese con
una leggera meraviglia il giudice.
«Così ho definito quella esecrabile buffonata, con persone adulte e
di buona famiglia a far peti con la bocca!» rispose il sindaco.
«Don Gaspare dimenticate che oltre ai vernacchi
ci fu un omicidio, e a momenti due.»
«No, non lo dimentico, intendevo dire … mi riferivo agli eccessi nel
bere, perché si sa che le farse spesso si trasformano in tragedie.»
«Nella farsa sono inclusi anche i vostri nipoti, i nipoti di vostra moglie,
don Salvatore e don Giacomo e speriamo che non lo siano nella tragedia» disse
il giudice con aria severa, e continuò: «Le loro teste si scaldano
solo col vino o anche a qualche pensiero sul nostro sovrano?»
«Suvvia, giudice, non vorrà imputare i due giovani di idee sovversive!»
«Esclude anche la partecipazione al delitto?»
«Certo che la escludo. Si allontanarono come possono testimoniare tutti appena
iniziò l'alterco tra zio e nipote.»
«Mmmm, come giudice istruttore non posso escludere nulla. Nulla, capisce …»
e guardandolo negli occhi continuò: «Neppure il movente politico».
«Politico?!» ripeté il sindaco stupito, escludendo questa possibilità
con tono deciso: «Ma quale politica, don Giuseppe! Non andrete dietro a certe
voci di persone insignificanti! Ve lo dico io, che cosa ha scatenato la rabbia dei
germani Cristofaro contro lo zio, che ne so qualcosa!»
Il sindaco pronunciò queste parole alzando la voce, tanto che il giudice
lo invitò a calmarsi e a spiegare meglio quelle che egli riteneva le cause
prossime o remote del delitto.
Don Gaspare iniziò come se avesse interrotto un discorso: «Le due briffalde! Scusate la parola, ma di queste si tratta».
Don Giuseppe non fece alcun cenno, né disse parola alcuna, aspettando il
prosieguo della spiegazione.
«Le due mantenute dei germani Cristofaro sono incinte. Io stesso ieri mattina
ho dato incarico alla buonanima del cancelliere don Francesco di scrivere gli avvisi
di rendiconto dei loro parti e di farli recapitare alle due drude.»
Poi, proseguendo il discorso come a voler giustificare questo atto amministrativo
quanto meno insolito, aggiunse: «Ma le pare giudice che il comune con le sue
scarse risorse debba mantenere anche i figli avuti per capriccio. Sa quanto costano
la ricevitrice dei proietti,
il baliatico
e via elencando? Ecco che cosa ha scatenato la rabbia dei fratelli …»
Il giudice ascoltò in silenzio anche queste ultime considerazioni, poi con
l'aria di chi sa comprendere anche le gravi incombenze di un sindaco, disse: «So
bene quanto sia difficile il compito di un sindaco, che deve dar conto delle sue
azioni al decurionato, al signor Intendente
della Provincia e ai cittadini, e sono certo che voi avete valutato il gran costo
degli esposti per vostro scrupolo».
Questa volta fu il sindaco a non profferire parola, in attesa del seguito del discorso.
«I viglietti che furon inviati alle
donne incinte mi pare che fossero parecchi, vero?» «Sì»
rispose il sindaco.
«Cioè quanti?»
«Credo che fossero … non vorrei sbagliarmi … dovevano essere
almeno sette … o otto.»
«Ah, vedo che voi siete parsimonioso. E fate bene. Avete anche verificato
che fossero stati recapitati a tutte?»
«Signor giudice, io ho piena fiducia nei miei sottoposti.»
«No, intendevo dire che siccome siete a conoscenza che gli avvisi furono recapitati
alle donne di don Gaetano e don Luigi, sarete anche a conoscenza dei recapiti alle
altre?»
E qui il giudice si fermò in attesa di una risposta che venne nelle forme
usuali di chi non sa, non vuole rispondere o mente, tutte ben note al giudice Politi
per la sua lunga esperienza con individui di ogni genere. Non volle mettere in ulteriore
imbarazzo chi l'aveva così gentilmente accolto e si congedò con parole
rassicuranti: «Lasciate stare, son cose prive di importanza. Vi ringrazio,
don Gaspare, per la vostra proverbiale cortesia».
Avviandosi all'uscita si fermò un attimo sulle scale, quindi, girandosi lentamente
verso il sindaco, chiese con l'aria di chi abbia dimenticato qualcosa: «Ah,
a proposito di baliatico, avete accertato anche che fossero incinte?» Allo
stupore di don Gaspare si mise a ridere facendo intendere che si trattava di una
facezia.
45. Don Leone Catalano dal sindaco
Una volta uscito il giudice il primo ad entrare nella casa comunale fu don Leone
Catalano. Il sindaco gli espresse immediatamente, sotto forma di domanda, il dubbio
che gli era sorto alle ultime parole pronunciate dal giudice Politi. «Da chi
è venuta la notizia che le drude di Gaetano e
di Luigi erano gravide?»
Don Leone lo guardò accostando le sopracciglia quasi a voler capire la domanda.
«A chi? A te! Se non lo sai tu!»
Don Gaspare replicò guardando oltre il suo interlocutore come a mettere a
fuoco un ricordo lontano: «Siamo certi che siano veramente incinte?»
«Ahhh, senti» disse seccato don Leone «non è che ora ti
metti anche a fare il …» e qui gli sovvenne la risposta «deve
essere stato don Luigi Sarpi, o don Baldassarre Conte, uno dei due medici».
Il sindaco continuò esprimendo altri dubbi: «Potrebbero aver mentito,
entrambe, o una sola di loro; averlo detto ai loro amanti e poi questi aver sparso
essi stessi la voce».
«A quale scopo?»
«E che ne so a quale scopo?»
«I problemi sono più d'uno. Primo bisogna capire se hanno mentito loro,
le donne. Secondo se hanno mentito i due Cristofaro, e in questo caso anche le drude dovevano essere d'accordo. Potrebbe aver mentito
il medico, dicendo falsamente che fossero incinte!»
«Quest'ultima mi sembra una cosa impossibile. Le donne sanno sempre se sono
gravide, figurati se ascoltano i dottori.»
Don Gaspare Valentoni volle esternare tutte le perplessità che quella dannata
domanda del giudice gli aveva fatto nascere: «Immagina che fosse tutto falso,
montato ad arte. Io mando gli avvisi, i due prendono questo a pretesto per inscenare
la gazzarra sotto casa dello zio. Oppure …» e qui fece una pausa per
raccapezzarsi nell'intrigo di ipotesi che gli si affacciavano alla mente, per poi
riprendere: «Oppure …», ma non riuscì ad andare oltre
la prima ipotesi che i pensieri si affastellarono disordinatamente impedendogli
di fare altre congetture.
Don Leone, vedendolo alterato nella parola e nell'espressione del viso, gli venne
in aiuto, ma non nel senso che l'altro si sarebbe atteso: «Forse erano incinte
davvero. Gaspare non arrovellarti in sciocchezze, che ho una cosa importantissima
da dirti. E da mostrarti.»
«Che cosa?» chiese il sindaco ancora alle prese con i suoi pensieri.
«Guarda qui. Era nelle tasche di Francesco Cristofaro.»
Don Gaspare prese in mano il librettino che l'amico gli porgeva, lesse la prima
pagina, la seconda, poi, senza proseguire, alzò gli occhi verso don Leone
chiedendogli che cosa fosse quell'elenco di nomi.
«Non lo indovini? Eppure già da quelli dei tuoi vicini dovresti capire
di che cosa si tratta» fu la risposta.
«Fratelli?»
«O cugini.»
«È diverso?»
«Tu dovresti saperlo meglio di me.»
«Ah, fare il sindaco toglie tempo e …»
Non finì la frase che don Leone gli chiese se Francesco glielo avesse mai
mostrato o gli avesse accennato qualcosa sui nomi dell'elenco.
«Veramente no, se no me lo ricorderei, non ti pare? Ma … il delitto
… c'entra con …»
«A detta di chi me lo ha dato sembrerebbe di si» rispose don Leone.
Don Gaspare, soprappensiero, gli restituì il libricino con i nomi. Poi passandosi
una mano sulla testa come a volerne cacciare i pensieri concluse: «Ci mancava
anche questa!»
«Forse questa ti toglie tutti i pensieri. Basta farla arrivare al Procuratore,
meglio se direttamente, e bum! - imitò il rumore di uno scoppio - i fratelli
d'Italia … Ci siamo capiti.»
Don Gaspare replicò molto lentamente come se le sue parole dovessero assumere
il valore di una sentenza: «Il bum riguarderebbe anche gli altri, quelli che
vogliono starsene fuori». «E perché mai?» chiese don Leone
perplesso.
Sempre con lo stesso tono pacato e separando bene le parole perché fossero
ben comprese, il sindaco rispose: «Quello che hai in mano è una polpetta
avvelenata. Lì vi sono nomi che non sono né fratelli né cugini».
«E a che scopo sarebbe stato fatto?» chiese l'altro.
«Se mi dici come l'hai avuto ti potrei dire quale disegno c'è dietro
…»
Don Leone rispose con una di quelle frasi fatte con il senno del popolo: «Si
dice il peccato e non il peccatore, sindaco».
Seguirono piccole, inutili ed estenuanti schermaglie verbali che non servirono a
nessuno dei due a raccogliere ulteriori informazioni, né per l'una, né
per l'altra causa. Uscirono insieme separandosi all'uscita, per dirigersi ognuno
alla propria casa: Don Gaspare voltò l'angolo di palazzo Selvaggi e attraversò
la piazza, don Leone fece pochi passi.
|