LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti
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46. Voci e pettegolezzi. Isabella Naccarato
Incapaci come siamo di abbracciare con un solo sguardo la contemporaneità
degli eventi, essi ci appaiono distinti ma in verità nessuno di quelli che
stiamo leggendo si svolse in tempi differenti, e così in altro capo del paese,
nel quartiere di Santomarco, Isabella Naccarato, Sabella, rendeva edotte alcune
sue amiche di verità che lei sola conosceva. Con la tipica inflessione dei
paulitani, essendo lei nata in quella città, riferiva che tra il morto e
donna Fiorina era tutto finito, «Già da Natale scorso!»
Sapevano tutti che era la mezzana di donna Fiorina, la quale le affidava i messaggi
per don Ciccio. «Don Antonio non sapeva niente di niente, chi decideva tutto
era donna Aurelia.»
Il racconto di Sabella prendeva le vie tortuose dei vizi e delle virtù di
ciascuno per arrivare all'argomento tanto atteso, ed era accompagnato da divagazioni
che imboccando la traccia principale a volte si perdevano in diramazioni senza fine.
«Dove eravamo rimasti», «Ah, si», «Che stavo dicendo»
e altre interiezioni permettevano di riprendere il racconto da dove era stato interrotto,
ma non sempre, ché talvolta un «Ah, si» era seguito da un «No,
no, un'altra cosa», che anziché distogliere l'attenzione riusciva a
coinvolgere ancor di più le amiche. La notizia che donna Fiorina era stata
promessa a don Luigi Sarpi era di quelle che lasciavano di sasso.
«Ha capitu a donna Pasqualina!» era il commento, che sottintendeva la
capacità della madre di trovare un buon partito alla figlia, appena scottata
da un affronto che solo Dio poteva perdonare. Sabella continuò il suo racconto:
«Un giorno, era poco vicino a Natale, mi vedo chiamare dal balcone della casa
di don Antonio ed era don Francesco, che tutti lo chiamano Ciccio - ma io preferisco
chiamarlo Francesco - il quale mi dice di andare da donna Fiorina a chiederle se
era vero che il giorno precedente era stata maltrattata dai suoi parenti senza che
glie ne avesse spiegato perché e per come.»
«E poi?»
«Questo si sapeva, si sapeva che donna Aurelia non ci'aveva piacere che il
figlio si pigliava alla cuggina. È cosa vecchia che già ad ottobre
…»
«Ch'è successo a ottobbre?»
«Saveria ne sa qualcosa.» continuò Sabella.
«Saveria chi?»
«Saveria Carruzzino.»
«I Carruzzinu du Casalettu 'i Guardia?»
«Nooo, chiri su atri Carruzzinu. Saveria, a zia d'Antoniu, u scarparu, u figliu
da bonanima di Michele, ma Michele è morto
ca nua nun'erimu mancu nate …»
«Io mi cridia Carrozzinu
chiri ca abbitanu …»
E per alcuni minuti il discorso si spostò sulla famiglia vera o presunta
di Saveria.
«Adduv' era 'rimasta? Ah, sì,
Saveria viene mandata a casa di Fiorina che si diceva che la madre di don Ciccio
donna Aurelia l'avesse gridata o l'avesse mandato a dire che il figlio si sposava
chi diceva lei e non …»
«Lei chi?»
«Lei, donna Aurelia.»
«Ah, continua.»
Sabella si fermò un istante, apparentemente per inumidirsi le labbra, ma
in verità per dosare sapientemente le informazioni al fine di mantenere viva
l'attenzione.
Poi riprese quasi d'un fiato:
«Saveria ha pensato che n'ambasciata di questa come faceva a portarla che
succedeva 'na guerra peggio di quella che esisteva.»
«Quale guerra?»
«A guerra 'i mammita!»
sbottò Sabella stanca di dover spiegare finanche le cose più ovvie
e risapute.
«Le due famiglie erano in guerra per via che donna Franceschina la sorella
di don Antonio e di Dodduminicu bonanima aveva dato na parte della robba e da casa
al nipote Francesco, u muortu»
spiegò in vece di Sabella una delle amiche meglio informata.
«Ma … ma don Francesco che cosa ha detto quando ha saputo che donna
Fiorina era stata promessa a Dolluigi u miedicu?» chiese l'amica che non aveva
perso una sola virgola del racconto.
«Che ha detto … che ha detto …» rispose Sabella che nulla
poteva sapere della reazione di Francesco Cristofaro essendo cessato il suo ruolo
di mezzana.
«Oramai è mmuortu, pace all'anima sua!»
«Muortu ammazzatu …» aggiunse un'amica.
«Eh, dai fratelli di donna Fiorina» completò un'altra.
«Perché l'hanno ammazzato non s'è capito …» disse
un'altra ancora.
Stranamente Sabella taceva, come se avesse perso improvvisamente ogni interesse
a riferire ciò che sapeva. Oppure perché non volle andare oltre.
«U giudice che mi ha interrogata mi ha raccomandato: Non parlare con nessuno!»
E come se non le fosse uscito alcun pettegolezzo dalla bocca salutò le amiche
concludendo «Chi ti dice che cos'è veramente successo …»
Quando fu sul punto di allontanarsi sentì chiedersi alle sue spalle: «E
don Luigi Sarpi sa spusa a donna Fiorina?»
Sabella si girò con calcolata lentezza e rivolta al gruppo delle amiche che
non si erano mosse di un passo dal luogo in cui erano, rispose: «Dolluigi
il medico è promesso a donna Aquilina, la figlia di don Antonio …»
«Ahhh» fecero le amiche «quindi donna Fiorina è rimasta
…» Quella parola, sconveniente in bocca ad una donna, non fu pronunciata,
e il raccontò continuò con rinnovato interesse.
47. Arresto di don Luigi
Le voci e i pettegolezzi servirono a distogliere l'attenzione dell'inquirente da
altri possibili moventi: quasi tutti i testimoni ascoltati attribuivano ai fratelli
Cristofaro della Portavecchia la responsabilità dell'omicidio del sostituto
cancelliere loro cugino fratello. Molti di loro, uscendo dalla stanza ove il giudice
li aveva interrogati, propagavano immediatamente il contenuto della loro testimonianza
come se fosse la verità, e le altre persone che venivano chiamate a testimoniare
non facevano altro che ripetere quanto i primi avevano riferito. Lo spessore delle
prove a carico degli inquisiti cresceva di ora in ora, a tal punto che il giudice
decise di farli arrestare entrambi assieme al domestico per i colpi inferti con
il palo che aveva con sé. Dopo qualche dubbio su chi fosse il domestico di
casa Cristofaro autore dell'aggressione, visto che la maggior parte degli indizi
si appuntavano su Vincenzo de Napoli, il giudice decise di far scarcerare il giovane
esposito e di accusare l'altro di tentato omicidio. Il giudice in persona con le
guardie si recò alla casa di donna Pasqualina. Vi trovarono solo il sacerdote
don Luigi, sorpreso nella sua cappella privata mentre rovistava sotto e sopra l'altare
alla ricerca di qualcosa. Quando gli misero i ferri, al giudice che gli chiedeva
cosa cercasse così affannosamente, rispose che si trattava del suo breviario
delle preghiere.
Don Giuseppe Politi tirò fuori dalla tasca un libricino che gli mostrò
dicendogli semplicemente: «Questo?»
Don Luigi con l'aria più innocente di questo mondo disse un sì così
convinto da indurre l'altro a replicare con altrettanta sorpresa: «Ma si tratta
di un elenco di nomi, non di un breviario di preghiere!»
«È certo? È la prima volta che vengo incarcerato e non vorrei
farmi mancare l'aiuto di Dio» rispose il canonico con un tono che non tradiva
alcun sentimento.
«Certissimo, don Luigi. Se volete dare un'occhiata voi stesso …»
e gli aprì sotto il naso quel libricino con tanti nomi e cognomi. «Vedo,
vedo.» disse don Luigi, senza attribuire più alcuna importanza all'oggetto
e al suo contenuto.
Il giudice volle approfondire l'argomento: «Se solo sapeste dirmi perché
cercavate questo … diciamo breviario, anche addosso al corpo di don Francesco
quando fu ucciso, mi rendereste cosa sommamente utile».
«Io?! Non andrete dietro alle chiacchiere di gente che dice di aver visto
questo e quello e poi questo e quello erano tranquillamente a casa. In primis mio
zio don Antonio che dice di aver …» disse con foga il prete.
«Vedo che siete ben informato anche di ciò che mi han detto testimoni
e parte offesa» lo stuzzicò il giudice.
«Eccellenza …» tentò di rabbonirlo l'altro per non spiegare
come fosse venuto a conoscenza di deposizioni che certamente l'interessato non poteva
aver riferito proprio a lui. «Non sono Eccellenza» lo interruppe freddamente
l'inquirente.
«Volevo dire soltanto che per esperienza so di confessioni che mi sono state
fatte con l'intenzione di incolpare altri. E se accade a me che rappresento la giustizia
divina, figuriamoci a voi che rappresentate so .. quella umana.»
Il giudice lo invitò a dire se c'erano elementi nuovi a sua discolpa prima
di essere arrestato e condotto alla carceri di Cosenza, mostrando di non volersi
addentrare in questioni di valore indiziario astratte.
Donna Pasqualina uscì dalla sua camera con il vestito nero delle grandi occasioni,
a dimostrazione che la dignità di quella casa non doveva essere minimamente
messa in dubbio. Con tono freddo e distaccato disse al giudice che si trattava di
un errore madornale, che lei poteva ben testimoniare come suo figlio fosse pienamente
innocente, per come si comportò prima e dopo la tragica morte di Francesco.
«Egli si preoccupò di accompagnare a casa un bambino tremante di febbre
…» iniziò la donna in difesa del figlio.
«Pare anche di vino, perché era ubriaco» aggiunse il giudice
Politi.
Intervenne don Luigi per chiarire che egli assolutamente non poteva essere complice
del delitto proprio per quanto aveva detto la madre. «Si forse era anche ubriaco
e tremava come una canna, il servo di don Eugenio Romita, Francesco o 'Ncicco come
lo chiamano. Sono rimasto a casa di don Eugenio che lo ha fatto mettere a letto
e gli ha dato una cartella. Mezz'ora
almeno. Poi ho sentito gridare …»
Don Giuseppe lo interruppe: «C'è una bella distanza tra la casa Romita
e la piazza. Avete un udito finissimo».
Senza cogliere l'ironia il prete continuò: «Quando arrivai in piazza
era già successo tutto, chiedetelo a Luigi Amatuzzo, che mi ha incontrato
quando lui tornava dalla casa di Scarpello dove c'era l'ucciso …»
«Veramente hanno visto voi in casa Scarpello subito dopo, troppo presto per
arrivare dal Crité fin sotto Santo Pietruzzo!» gli contestò
il magistrato.
Intervenne polemicamente donna Pasqualina: «Mio figlio mente, Luigi Amatuzzo
mente, insomma don Giuseppe Politi, solo don Antonio mio cognato dice la verità?!»
Il giudice capì che quel colloquio privo dei canoni della verbalizzazione
non avrebbe portato da nessuna parte e tagliò corto: «Don Luigi, sulla
base delle testimonianze e prove a vostro carico, non posso fare altro che confermare
il mandato di arresto». Quindi senza fare alcun commento alle ultime parole
di quella donna che egli giudicava in ogni caso sventurata, le disse pacatamente:
«Donna Pasqualina, abbiate la compiacenza di riferire a vostro figlio don
Gaetano, ove mai lo vedeste, che si costituisca». Subito dopo aggiunse con
tono quasi affettuoso: «Per il suo bene».
La donna lo guardò negli occhi quasi con aria di sfida: «Lo farei se
minimamente sospettassi della colpevolezza dei miei figli. Perché non avete
arrestato Vincenzo …» «Vincenzo chi?» chiese il giudice
fermandosi sulla soglia in attesa della risposta.
Donna Pasqualina pensò a Fiorina nuda, al fazzoletto rosso di Vincenzo De
Napoli a terra vicino al letto, alle parole amare della figlia: «Madre, potete
dire ai miei fratelli che la
virgo in capillis non è più tale ». In quell'istante
le sembrò di vederla, già adulta, a dirigere una casa vuotata di affetti.
Il giudice ripeté la domanda: «Vincenzo chi?», convinto che gli
avrebbe fatto il nome del servitore. Donna Pasqualina fissò un punto oltre
gli occhi del giudice e con calma rispose: «L'altro mio figlio.»
«Andiamo» ordinò don Giuseppe Politi alle guardie. «Don
Vincenzo dovrà rispondere solo della sua arma trovata sul luogo del delitto»
rispose alla donna che non lo stava ascoltando.
Don Luigi fu portato nelle carceri di Cosenza con l'accusa di omicidio in persona
del cugino Francesco Cristofaro.
48. Don Gaetano ritornato a San Marco, nascosto in casa. Colloquio con la madre
Rimasta sola donna Pasqualina si affacciò sulla scala che portava ai magazzini
e disse a chi stava lì sotto di salire. Disse solamente: «Sali»
e dopo qualche istante nel vano della porta apparve Gaetano. La madre lo precedette
nella stanza usata per ricevere parenti e amici, si sedette e senza dire una parola
fece segno al figlio di accomodarsi. Gaetano era sbarbato, pulito e vestito con
abiti nuovi. La ferita era visibile ma non era tale da compromettere la sua salute:
appariva come un graffio profondo con un lieve ematoma intorno. Gli chiese se gli
facesse male e quando lui fece cenno di no con il capo, la donna distanziando i
piedi e sollevando di poco la gonna sopra le scarpe, come era solita fare ogni qual
volta affrontava un argomento spinoso, gli disse senza alcun preambolo: «Non
sono d'accordo! Mi avete lasciato fuori dalle vostre beghe politiche e avete scelto
di fare quello che avete fatto».
Gaetano a testa bassa, con gli avambracci sulle ginocchia, taceva. «Tirati
su» gli ordinò la madre «e guardami in faccia, quando ti parlo.
Ho deciso che non possono pagare i miei figli per colpe che riguardano altri! O
mi sbaglio?» Senza attendere alcuna risposta, continuò con voce ferma:
«Luigi sarà rilasciato, perché la testimonianza di don Eugenio
vale! Ma tu sei stato visto da Scarpello mentre colpivi a Francesco …»
Si fermò un attesa di una conferma che non venne. «Scarpello potrebbe
essersi sbagliato; era buio, c'era nebbia, ci possono essere mille scuse, ma lui
era legato a loro e a noi non farebbe mai questo favore!»
«Allora?» chiese Gaetano con impazienza.
«Allora, la verità deve saltare fuori, succeda quello che succeda!»
Si fermò un istante indecisa se continuare, assalita dal pensiero che Gaetano
e Luigi fossero stati scelti apposta perché soliti andare in giro armati
e ubriachi. Continuò: «Salvatore e Giacomo che se ne vanno, i judei
che non se ne affaccia uno, come se non esistessero, anche dei Selvaggi nessuno,
don Gaspare, bla-bla-bla, e poi manda gli avvisi. E oggi? guarda in faccia Catarineddra:
pare che le ridano gli occhi. Non so se anche la magara, ma figurati se non compravano
pure lei. Ma sono incinte davvero? Te lo sei chiesto? E potrei continuare!»
Piano, piano, le parole della madre cominciavano a far nascere dei dubbi in Gaetano,
ma per essere certo che non fossero solo un alibi assolutorio si chiese se fosse
vero che egli era ubriaco quando colpì Francesco, si chiese se lo odiava
per il lascito della zia Francesca, si chiese se il pensiero che potesse un giorno
toccare sua sorella Fiorina lo rendesse furioso. Dopo aver risposto affermativamente
a tutte le domande cominciò a riflettere sulle riunioni politiche alle quali
partecipava più per far contento Giacomino Campolongo che per convincimento
ideale. Quando nelle riunioni si facevano i nomi dei contra partito, e tra questi
i nomi di Campagna, Catalano, De Chiara, per citare le maggiori famiglie, egli aveva
avanzato il sospetto che anche il cugino Francesco fosse tra questi, solo per il
fatto di non averlo mai visto tra i membri del circolo e per la inimicizia nata
con la causa civile. Si chiese ancora quanto egli contasse tra quei membri e chi
di loro gli avesse mai chiesto un parere: non gliene venne in mente nessuno. Si
chiese infine se potessero averlo usato per attribuirgli un omicidio che nessuno
di loro avrebbe avuto il coraggio di compiere. Anche a queste ultime domande gli
fu facile dare le risposte giuste: contava veramente poco perché, tranne
Giacomino, nessuno gli aveva mai chiesto di far parte del circolo, anzi gli avevano
sempre parlato del fratello Carlo: ma come è preparato, ma che bravo giovane,
ma perché non si iscrive a questo circolo! Pareri non gliene aveva chiesti
mai nessuno, ma denari sì, ora per questa iniziativa, ora per quel fratello
in difficoltà, e lui sempre pronto a metter la mano in tasca. All'ultima
domanda, cioè se potessero averlo usato per i loro scopi, rispose a se stesso
che tutti sapevano dell'odio suo verso Ciccio, del carattere rissoso, dell'ambizione
di superare gli altri in ribalderia. Pensò a Vincenzo de Napoli, cercò
di ricordare chi gli avesse caldeggiato di prenderlo in casa come aiuto
trappitaro, ma tranne Fiorina che, impietosita, gli aveva detto di far
lavorare quel povero diavolo, non gli venne a mente alcuno dei suoi amici, parenti
o conoscenti. Si ricordò infine che Luigi, si proprio Luigi, fu l'ultimo
ad accostarsi al corpo di Francesco prima che lui fuggisse verso il Puzzillo.
Sollevò lo sguardo sulla madre, fece un cenno di assenso con la testa e le
disse: «Potreste avere ragione, ma Carluccio?»
«Carluccio è troppo giovane, studia, non sarà certo lui a sovvertire
il governo. Il suo nome e l'età potranno solamente far sorridere»
rispose lei.
«Va bene. Devo costituirmi e raccontare tutto?» chiese Gaetano.
La madre abbozzò un sorriso e disse: «I nomi sono già nelle
mani dei contra partiti e tra poco in quelle del procuratore».
«E Carluccio come ne uscirà?»
«Forse lo abbiamo salvato appena in tempo. C'è una nobildonna di Napoli,
viene da sopra però, che si porta via figli di mamma per farli combattere
per l'Italia. L'ho sentito parlare con Giuseppe, u judeo, e con il figlio di Vincenzo
il caffettiere. Figuriamoci se sanno dov'è l'Italia!»
«Madre, c'è un'ultima cosa che devo confessarvi» disse esitante
Gaetano. «C'è quel forestiero, francese o svizzero, che gira tra i
circoli distribuendo soldi per la rivoluzione. È venuto anche a Rogiano …»
«E allora?» chiese la madre appena il figlio interruppe il racconto.
«Non so se sia veramente un sovversivo o uno sbirro. Sa di me, di Luigi e
di Vincenzo De Napoli molto di più di quanto ne sappiano gli altri.»
«E come fa a saperlo?»
Gaetano non rispondeva. Si guardava nervosamente le mani, mormorando qualcosa, finché
non si decise a parlare: «Non lo so, ma mi ha chiesto di autoaccusarmi del
delitto, che poi lui avrebbe pensato a procurarmi un salvacondotto.»
«E tu? Che hai fatto?» disse con evidente timore per la sorte del figlio.
«Ho fatto una dichiarazione di tutt'altro tenore, al sostituto giudice di
Rogiano, don Luca Battendieri. Io sono innocente e Francesco è stato ucciso
per errore dal padre.»
«Con tre coltellate e due palate in testa?» chiese la madre con una
punta di sarcasmo.
Gaetano non rispose. Abbassò la testa per non incontrare il suo sguardo.
Lei, guardando la sua testa, i capelli in disordine e la calvizie incipiente, pensò
che tra poco sarebbero venuti a prenderle anche lui. Sperò che almeno Carlo
non avesse a subire la stessa sorte.
49. L'arresto dei congiurati
Chi aveva gettato le reti attendeva pazientemente che qualcuno dei congiurati si
tradisse, o uscendo nottetempo da casa per rendersi latitante, o inviando qualche
messaggio ai propri fratelli. Chi aveva preparato le reti e vi aveva praticato di
proposito qualche buco attendeva, invece, gli arresti perché si allentassero
le ricerche sui responsabili del delitto Cristofaro.
Due settimane dopo, mentre Vincenzo e don Gaetano erano ancora latitanti, un suono
di campane a festa annunciò la concessione della costituzione, accolta con
acclamazioni, espressioni di giubilo e qualche sparo.
Non tutti esultarono per questa notizia, e tra questi vi erano sia coloro che amavano
mantenere vecchie abitudini e privilegi e sia coloro che ritenevano tale concessione
solo un espediente per rabbonire gli animi. La notizia, tuttavia, rinviò
di alcune settimane gli arresti, sia quelli dei due accusati del delitto di don
Francesco e sia quelli dei congiurati, perché gli intendenti di polizia si
trovarono alle prese con nuove disposizioni spesso confuse o contraddittorie, e
i congiurati di ieri, almeno i più moderati, divennero i difensori della
costituzione e del regno.
Con buona pace di tutti, sembrava che le acque si fossero calmate e che, spenti
i clamori del delitto e dei tentativi rivoluzionari, gli unici a dover riflettere
sulle ingiustizie della vita fossero don Antonio, Marianna e Catarineddra. Il primo
perché i responsabili dell'omicidio del figlio erano uccelli di bosco o giravano
con la coccarda al petto come salvatori della patria, le seconde perché si
ritrovarono sedotte e abbandonate per loro colpa, loro grandissima colpa. E come
logica conseguenza erano additate dall'opinione pubblica come responsabili della
morte di don Francesco, perché se fossero state, non più caste che
un tale sacrificio non si poteva chiedere a don Gaetano e a don Luigi, bensì
più scaltre, negando di essere incinte, nulla di quanto è stato narrato
sarebbe accaduto.
Improvvisamente, o come suol dirsi a ciel sereno, apparve minacciosa quella lunga
nube chiamata il monaco di Torano, a preannunciare quel BUM! detto da don Leone
nel suo colloquio con il sindaco.
La nube, dallo strano nome di Jannivoi,
si presentò nella primavera successiva al delitto con la divisa dei gendarmi
reali, che in forze circondarono il paese impedendo ad ognuno di entrare o uscire.
Altri gendarmi con l'ausilio delle guardie urbane entrarono nelle case con l'ordine
di arresto per «attentato ad oggetto di distruggere e cambiare il Governo ed
eccitare gli abitanti del Regno ad armarsi contro l'Autorità Reale con voci,
notizie, scritti, ed altri fatti allarmanti e sediziosi, cospirazione ad oggetto
di distruggere e cambiare il governo ed incitare gli abitanti del Regno ad armarsi
contro l'Autorità, associazione in banda armata ad oggetto di distruggere
e cambiare il Governo con avervi esercitato impiego, funzione e comando».
Pareva che il paese fosse stato messo in stato di assedio. Fu dato l'ordine mediante
banditori che nessuno doveva uscire dalla propria casa finché non fosse giunto
un contrordine. Si videro giovani saltare dalle finestre e dirigersi verso i campi.
Genitori che cadevano dalle nuvole a sentir dire che il loro figliolo era un cospiratore,
parola che molti ignoravano. Madri e mogli che supplicavano in ginocchio i gendarmi
di lasciare andare il proprio figlio o marito con la promessa dinanzi a Dio che
non l'avrebbero fatto più. Ma ci furono anche uomini di una certa età
che furono trascinati fuori di casa. Persone ricche, meno ricche o prossime a diventar
povere; indigenti non ce n'erano perché a iscriversi ai circoli erano sempre
coloro che sapevano leggere e scrivere.
Quando bussarono alla porta di donna Pasqualina, Peppinello, alla vista dei gendarmi
balbettò che non aveva più spiato attraverso il buco della serratura.
Il brigadiere Annicchiarico sorrise, gli disse di farsi da parte, entrò con
due gendarmi e uscì subito dopo con al centro degli stessi don Carlo Cristofaro.
Peppinello riflettendo che in casa di maschi era rimasto solo don Vincenzo, disse
al brigadiere che l'ultimo figlio libero di donna Pasqualina era nella sua stanza.
Sembrò quasi contrariato quando gli risposero che don Vincenzo non aveva
commesso alcun reato. Don Carlo fu fatto salire su una lunga carrozza chiusa, al
cui interno vi era l'amico Giacomo Campolongo, anch'egli in manette. Lo salutò
con affetto e fece un cenno con il capo agli altri arrestati tra i quali riconobbe
Pasquale Amodei, don Raffaele Candela, il dottore Baldassarre Conte e il fratello
Raffaele, don Raffaele Misuraca, Bernardo, Luigi, Vincenzo e Raffaele La Regina
e il loro padre don Domenico a cui chiese dove fosse Giuseppe. «È riuscito
a partire appena in tempo con Francesco Roberti, il figlio del caffettiere, con
la contessa Belgioioso» rispose per lui il figlio Vincenzo.
La carrozza si avviò cigolando e sobbalzando verso la consolare seguita da
un'altra carrozza in cui erano incatenati don Giacomo Greco, Salvatore Pisano, Achille
Pugliese, Domenico De Bonis, Antonio Talarico, Luigi Talarico, Raffaele Talarico,
Pasquale del Giudice, Vincenzo Martino e infine da due carri scoperti trainati dai
muli su cui erano saliti, oltre a quattro gendarmi, gli altri accusati Francesco
Aiello, Salvatore Aiello, Pasquale Aloia, Gaetano Caruso, Gennaro De Carlo, Francesco
D'Ardis, Giuseppe Loffredo, Raffaele Madorno, Pietro Marino, Domenico Marzullo,
Giuseppe Naccarato, Luigi Pagano, Pietro Pagano, Luigi Parise, Giuseppe Pastore,
Salvatore Rogato, Salvatore Rotondaro, Raffaele Salerno, Pasquale Stummo, Giuseppe
Totta.
In testa e in coda alla carovana diretta alle carceri di Cosenza altre guardie e
un sottufficiale a cavallo. Dopo qualche tempo nelle stesse carceri entrarono don
Gaetano e Vincenzo. Furono messi in celle separate tra loro e dai congiurati.
50. Colloquio tra don Antonio e il giudice Politi su arresto Caviallavita
Alcuni mesi dopo questi arresti, il giudice Giuseppe Politi, in un ennesimo colloquio
con don Antonio Cristofaro, alla ricerca di nuove prove e testimonianze contro le
persone che cenarono assieme a Gaetano e Luigi la sera dell'omicidio, gli riferì
la notizia che quel misterioso amico svizzero dal cognome impronunciabile, del quale
gli aveva parlato in uno dei suoi ultimi incontri, era stato arrestato.
«Ah, quel tale Cristiano, che diceva di essere francese, ma poi si scoprì
che era svizzero» aggiunse subito don Antonio dimenticando che nel precedente
colloquio aveva detto di non conoscerlo, e quando il giudice gli ricordò
quella circostanza si giustificò: «Sì, ne ho sentito parlare
dopo, dal sindaco». Poi, già afflitto dai mille guai che il destino
gli aveva riservato e timoroso di vederli crescere anche di un solo granello, aggiunse:
«O da qualche altro».
Il giudice Politi continuò a riferirgli dell'arresto: «Ad ogni buon
conto ve lo dico perché, essendo voi cancelliere e notaio, possiate guardarvi
da persone come lui, che dicono abilissimo nel falsificar documenti».
«Ah!» disse don Antonio «e allora dite, dite».
E il giudice gli spiegò che questo tal straniero era stato arrestato nella
locanda in cui alloggiava, sulla consolare per Spezzano. Ai gendarmi regi aveva
dichiarato «di essere francese, e in un secondo tempo, al giudice aveva confessato
di essere cittadino svizzero, di chiamarsi Cristiano Caviallavita di Giovanni, di
anni 38, civile, di essere nato e domiciliato in Richtberg nel Cantone Svizzero
dei Grigioni, e di essere celibe. Aveva detto di avere capitali in varie nazioni
che gli consentivano di viaggiare per diporto e di essere in Calabria per suo capriccio
di conoscer luoghi selvaggi».
«Ma guarda tu» disse con aria meravigliata il notaio mentre il giudice
continuava a raccontargli che nella borsa gli avevano trovato «salvacondotti
della Russia, della Turchia, della Prussia, due cambiali, carte di assicurazione
di capitali sulla cassa di risparmio dell'Imperatore in Odessa, ricevute di deposito
della banca di Costantinopoli».
Don Antonio lo interruppe nuovamente chiedendo se tutte le cose che stava ascoltando
fossero vere o facessero parte di un romanzo.
«È tutto vero, don Antonio, com'è vero che l'assassino di vostro
figlio è stato condannato a diciannove anni di ferri!» rispose don
Giuseppe Politi.
«E vi pare giusto?» gli chiese il notaio con una vena di amarezza. «Diciannove
anni contro gli oltre quaranta che poteva campare il mio povero figlio!»
Il giudice, dopo che la commozione fece il suo corso, riprese il racconto enumerando
tutte le strane cose trovate nella borsa dello straniero.
C'erano «carte in stampa e manoscritte, tra le quali un proclama per la Costituzione
concessa da Ludovico di Baviera, una canzone popolare per l'anniversario della costituzione
di Sassonia, un manifesto per un Istituto di ragazze in Corthal, un dialogo tra
Metternich e Radetzki scritto in italiano».
Quindi evidenziò il gran numero di documenti e di lasciapassare che gli avevano
trovato oltre al suo passaporto: «due brevetti militari avvolti in un vecchio
giornale tedesco, un brevetto di accesso al servizio del Sommo Pontefice, un brevetto
pontificio con il grado militare, passaporti per vari stati d'Europa, un passaporto
di Gerusalemme».
E aggiunse: «Ad esserle sincero io l'avevo conosciuto quando era ufficiale
nelle guardie svizzere pontificie».
Poi con fare misterioso disse: «Sapete infine che cosa gli trovarono nella
mariola del cappotto?»
«Che cosa?!» chiese don Antonio preoccupato che potesse trattarsi di
qualche documento uscito dal suo studio.
«Gli trovarono un appunto …» disse il giudice fermandosi un istante
per rendere la notizia ancor più misteriosa. «Gli trovarono un appunto
con l'annotazione di vari nomi, tutti di San Marco, noti per esser di parte liberale».
«Ah!» disse semplicemente il notaio, pensando al tono con cui il giudice
gli aveva riferito quest'ultimo ritrovamento. Poi guardandolo dritto negli occhi
come a voler scoprire se gli stesse nascondendo qualcosa chiese con una certa esitazione:
«C'e … c'entra con il delitto?»
«Chi? lui?» chiese il giudice.
Don Antonio avrebbe voluto rispondere: «Non lui, l'appunto» ma invece
assentì con un filo di voce: «Sì».
«Non credo proprio, don Antonio.» replicò don Giuseppe Politi
e subito dopo aggiunse: «Cosa volete che c'entri uno svizzero con l'uccisione
di vostro figlio». Quindi concluse il racconto dicendo che quel tal Caviallavita
fu portato dapprima «al carcere di Castrovillari e quindi nelle carceri di
Cosenza per i gravi sospetti di essere un emissario di propaganda politica».
Prima di congedarsi chiese con fare dubbioso, come se la domanda fosse rivolta a
se stesso:
«O voi pensate che c'entri?» e rimase per alcuni istanti soprappensiero.
FINE
Conclusioni
Don Gaetano Cristofaro fu riconosciuto unico responsabile dell'uccisione di Francesco
Cristofaro e fu condannato alla pena di diciannove anni di ferri in presidio. Dichiarò
subito dopo la sentenza che era contento di espiare e chiedeva che essa decorresse
immediatamente. Era il 4 maggio del 1848.
Contro Don Luigi non si trovò uno straccio di prova della sua partecipazione
al delitto.
Salvatore Scarpello, colui che riconobbe l'omicida, divenne e si mantenne rivoluzionario.
Donna Fiorina sposò un suo nipote diretto, figlio di sua sorella, di venti
anni più giovane di lei, forse per motivi di eredità, prima di imbarcarsi
per le Americhe. Giunse notizia della sua morte molti anni dopo quando il marito
si era già risposato.
Donna Pasqualina morì, forse di dolore, tre anni dopo.
Delle due drude Catarineddra e Marianna - nome di fantasia - e dei loro figli, se
nacquero, non si seppe più nulla.
Giuseppe Quintieri forse continuò a sognare. Si sposò ed ebbe figli,
ai quali raccontò la sua storia balbettando.
Vincenzo De Napoli si sposò, già maturo, e morì a soli cinquant'anni.
Don Eugenio Romita continuò a fare il farmacista, tranne una breve parentesi
in mano ai briganti.
I fratelli Campolongo continuarono a fare i rivoluzionari quando se ne presentò
l'occasione.
Don Carlo smise di farlo, o forse non la fece mai, si sposò e si occupò
del patrimonio di famiglia.
Tutti gli altri personaggi continuarono chi bene e chi male la loro esistenza nelle
contrade da noi indicate.
L'unico personaggio della cui esistenza il lettore giustamente dubiterà e
quel Cristiano Caviallavita, e del suo «revorveru»
appeso alla cintura. Ha ragione il lettore, di quel revolver non vi è traccia
nei documenti.
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