LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti
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36. Il seguito della fuga. Vincenzo de Napoli rientra a San Marco
All'alba Vincenzo salì nella stanza in cui riposava don Gaetano. Lo trovò
sveglio e pensò che non avesse dormito. Chiese dello straniero e quando seppe
che era già partito, esternò al padrone i suoi sospetti.
«L'amicu nun m'è parso gagliardu!» intendendo dire che diffidava
di lui. «Voi vi fidate troppo degli stranei. Io, a quelli, li riconosco a
due miglia di distanza.»
Gaetano, troppo stanco o preso da altri pensieri, non rispose. Tuttavia per tacitarlo
e impedire che ponesse altre domande gli disse: «Vicie', lassa perdere. Fa
cuntu ca nun l'ha mai 'ncuntratu! Su cose che tu non t'immaggini …»
«Ma … era nu sbirru? o cose di politica?»
«Lassa perdi, Vicie', ca tieni già abbastanza guai!» tagliò
corto Gaetano.
Vincenzo non osò fare altre domande.
Nella torre giunse a giorno inoltrato Nicola, il colono di don Giovanni Jemmoli,
con il traino, provviste fresche, alcuni abiti in buono stato e un tabarro. Salutò
con deferenza don Gaetano, ricordandolo giovinetto quando veniva a studiare a Roggiano,
e fece un cenno col capo a Vincenzo. Gaetano gli disse che era il suo trappetaro.
«Tu non ti arricordi, ma io ti conosco. Sei Nicola Bosco.» gli disse
Vincenzo.
«Sissignore,» rispose Nicola «e vussuria chi è?»
chiese il contadino. «Vincenzo, u figliu di Carlucciu, 'i Bonifati.
Simu puru cumpari.» rispose l'altro. «Ah, chiri che chiamanu
'i Grabbiele.» «Propiu!» «Piacere, compa'!» furono
i preliminari che misero ciascuno a proprio agio. Nicola riattizzò il fuoco
con qualche lucise rimasto sotto la cenere, versò del latte in un bricco
che pose accanto al fuoco, estrasse da un misale un
pane, e una soppressata, li affettò, la carne di porco sul pane e poi il
pane tenendolo contro il petto. Prese dallo stipo una bottiglia di vino, due bicchieri
e dalla cassa due manciate di fichi secchi. Pose tutto sul tavolo e disse: «Se
gradite vi faccio due uova con i scarafuogli.»
Poi, indicando la fasciatura, chiese a don Gaetano che cosa si fosse fatto alla
testa.
«Mio fratello cugino, il figlio di don Antonio, il notaio, mi ha prima inquietato
e poi, senza ragione, con una coltella da caccia mi ha ferito alla testa.»
«Ah! Che delin …» esclamò il colono interrompendosi per
timore di offendere la famiglia di don Gaetano.
Vincenzo, per evidenziare il suo attaccamento al padrone, aggiunse, mostrando il
grosso bastone lungo circa quattro palmi appoggiato alla sedia: «Quannu aiu
vistu Doggatanu ccu sangu, ci'aiu fricatu na palata, ma ferma, a chiru mmerdu. Muortu
o vivu adduvi si trova!» E nel narrare ciò che aveva fatto, afferrò
il bastone, pronunciando l'ultima parola a denti stretti, quasi ad evidenziare la
violenza del colpo assestato a don Francesco. Quindi con aria rassegnata aggiunse:
«Che da troppo tempo sono uscito dal carcere. Sono cinque o sei mesi!»
facendo intendere di essere disposto ad accettare un'altra condanna.
«Ma io l'ho ammazzato!» lo interruppe Gaetano, a testa bassa, con i
gomiti appoggiati sulle ginocchia, riflettendo sulla gravità del gesto compiuto
su un cugino diretto: «Frate e bbuonu!» Quindi, sollevando il capo e
ammettendo la sua colpevolezza concluse: «Una è la causa, sempre io
ho da piangere la pena.»
È strano come l'assunzione di responsabilità spesso si manifesti di
fronte al gesto disinteressato di un innocente che si accusa pur di salvare un amico.
Questo è ciò che accadde in quel momento a Gaetano - e Nicola ne fu
testimone - la cui coscienza ispessita da tante ribalderie improvvisamente si bucò.
Il ricordo dei colpi inferti, del sangue che gli lordava le mani, della scalia nelle
tasche alla ricerca del libricino con i nomi, quando sarebbe bastato colpirlo ancora
con il bastone fino a lasciarlo svenuto, accrescevano il rammarico di aver agito
in preda ad una furia irrazionale. Nessuno sarebbe accorso perché Ciccio
non avrebbe avuto il tempo di gridare, né di invocare aiuto. Le immagini
dell'inseguimento, il ricordo dell'odio rabbioso che lo aveva spinto a colpirlo
due, tre volte volte sul petto, dritto al cuore, laddove si nutrono i sentimenti,
quasi a farglieli uscire con il sangue. Una volta esauriti i ricordi la ferita della
coscienza si rimarginò e subentrarono le giustificazioni. «Il vino,
il vino, avevo bevuto troppo!» disse ad alta voce.
Nicola ascoltò senza dire una parola, sapendo che qualunque cosa avesse detto
poteva essere presa per il verso sbagliato, come spesso capita a chi è nato
per usar le mani e non la lingua. Fu sul punto di venir meno a questo suo sano principio
quando don Gaetano disse qualcosa di incomprensibile a causa dei singhiozzi che
gli impedivano di parlare.
Vincenzo, all'improvviso, avvolgendosi nel tabarro portato da Nicola disse «Vado
a Sammarcu!» e come a voler alleviare il dolore del suo padrone aggiunse:
«E se non fosse morto?!»
Le menzogne, anche se manifestamente incredibili, riescono spesso a far breccia
nelle persone disperate, le quali vi cercano un rimedio alla propria angoscia. Molti
si convincono che non sia accaduto ciò che è evidente, altri confidano
nel miracolo, altri vedono nella menzogna degli altri, e ancor più nella
propria, la verità che può salvarli.
Gaetano non poteva essere certo che il cugino Francesco fosse morto e, per quanto
ricordava, respirava e gemeva quando Salvatore, il figlio di mastro Giuseppe, lo
prese alle spalle. Smise di piangere, e tenendosi sempre la testa tra le mani, cominciò
a spostare gli occhi ora a destra ora a sinistra come a cercare nella mente i ricordi
di quegli istanti.
Sentì Vincenzo uscire e la porta chiudersi. Ripensò alle parole dette
da lui prima di uscire: «… e se non fosse morto?». Le ripetè
tra sé «e se non fosse morto?», «… e se non fosse
morto?»
Una sottile speranza iniziò a illuminare i suoi ricordi, come la luce di
un lumino, quelli che si accendono per devozione ai santi, o alla Vergine, o a San
Nicola. Gli pareva quasi di compiere il gesto devozionale, mentre nella sua mente
scorgeva e invocava la luce della memoria assieme al miracolo, a sostegno della
verità che ne poteva scaturire.
Come impazzito per lo sforzo di rivivere quei momenti ripeteva tra sé ciò
che gli affiorava nella mente. « Prima … avevo dato … avevo
colpito … la prima … poi la seconda … e alla terza volta Salvatore
mi prende alle spalle!»
La flebile fiammella agitava i ricordi: «Sì, l'ho colpito due volte,
poi Salvatore mi ha bloccato il braccio, mi sono girato, mi sono gi … girato
…» Stringendosi le tempie, cercò di isolarsi dai rumori e dalle
immagini che potevano distoglierlo dal rivedere quei momenti.
«La figura … sì … sì … la figura che ho
visto per prima …» Emise un lamento, si girò guardandosi alle
spalle, come a voler ripetere il gesto che aveva compiuto.
«No, no, no, non ho visto per prima la faccia di Salvatore, dietro …
dietro … quello alto, senza il cappotto, poi Salvatore … Salvatore
dopo …» Quasi sudato nello sforzo di far riaffiorare alla memoria i
ricordi, era adesso alle prese con un'immagine labilissima, che appariva e scompariva
dalla mente.
«No, no … sì … sì … c'era un … un
altro quando sono fuggito, Salvatore era dietro di me … e … non, no
…»
Come un lampo, un lampo che irrompe con la sua luce accecante lasciando per un istante
la visione degli oggetti illuminati, così Gaetano rivide tutta la scena.
Si era liberato di Salvatore, era ancora mezzo girato verso di lui prima di imboccare
il vicolo di de Pietro, pensò che in due lo inseguissero, uno era Salvatore,
lo vedeva, si era Salvatore, l'altro, l'altro, quello alto, senza cappotto, era
abbassato, chino su Francesco. Francesco …
Francesco aveva il busto sollevato, si era sollevato … sì …
sì …, l'altro, quello chinato su di lui lo … lo sorreggeva,
… no, non poteva sorreggerlo, aveva la mano alzata, … sì, la
mano era alzata, era sicuro di averla vista alzata. Sì, ne era certo …
perché … perché … Scosse il capo, come a negare la visione,
a non voler credere … La mano, la mano di quell'uomo chino su Francesco lui
l'aveva vista bene, sì l'aveva vista bene, perché … perché
… Luccicava!
Gridò: «Non l'ho ammazzato! Non l'ho ammazzato io!»
«Certo, certo, mo' vida ca vussuria avia ammazzato a unu …» lo
assecondò Nicola come si usa fare con chi è uscito di senno.
Vincenzo de Napoli, uscito dalla torre di Jemmoli, si diresse verso Camposereno
con l'intenzione di raggiungere la casa dei Mezzomonaco a Pietrabianca. Muovendosi
con circospezione e imprecando contro quel tabarro nero che lo rendeva troppo visibile
nel biancore della neve, quando fu prossimo al casino di Cola Bello vide nel giardino
Vincenzo Raimondi, il figlio di Michele, e preferì non farsi scorgere. Conosceva
le regole del vivere e lasciar vivere: un ricercato non doveva esser di danno agli
altri con l'impiccio di renderli testimoni. Lasciò la strada e attraversò
gli uliveti. Vide da lontano qualche contadino che nonostante il freddo e la neve
era uscito, forse a impaniare uccelli o a riprender fruscoli
caduti nella chiancola. Si tenne prudentemente nascosto
finché non fu certo di non essere più visto. Giunse alla torre dove
abitava Francesco Gruossu. Erano tutti già alzati, lui, la moglie e i tre
figli. Solo la piccola Filomena era ancora a letto. In casa c'era anche un contadino
che Vincenzo non riconobbe.
Un buonovenuto accolse l'ospite inatteso, che allungò una mano verso Francesco.
Questi rimase immobile senza ricambiare il gesto di saluto. «Anto', con questa
bellarrobba siamo stati in galera assieme!» disse al contadino. Poi indicandogli
il compagno di ferri gli spiegò chi fosse: «È Vincenzo, Vicienzu
'i Napoli, u trappitaru di don Gatano.» Vincenzo si rese conto di essere un
ospite indesiderato; la voce dell'uccisione di don Francesco si era già diffusa
nelle campagne. Francesco, o per il ricordo dei giorni trascorsi assieme in carcere
o per evitare guai maggiori a sé e alla famiglia, gli chiese in che cosa
potesse essergli utile. «Fora di dormi!» precisò dicendogli chiaro
e tondo che non era disposto a dargli rifugio.
«No, vado a Sammarco.
M'ana aiutà sulu a passà u jume ccu carru.» gli chiese
senza apparente risentimento.
«Sei il padrone!» rispose Francesco ben contento di togliersi davanti
il galiuoto. Si mise sulle spalle il mantello e aprì la porta per uscire,
seguito da Vincenzo. Questi sull'uscio si girò a salutare la donna della
casa: «Chiedo scusa per il disturbo, Innoce'.» e, rivolto all'uomo che
sarebbe rimasto con lei fino al rientro del marito, gli disse puntandogli un dito
contro: «Ma tu, … tu non sei Antonio, 'Ntonio Prastanu,
u pavulanu?» e chiuse la porta dietro di sé senza attendere
alcuna conferma.
Gli atteggiamenti di Vincenzo, studiati per raggiungere gli scopi che si prefiggeva:
intimorire, avvertire, minacciare, apparivano spontanei e in taluni casi finanche
cortesi. Solo un osservatore attento o un conoscitore dei camorristi, avrebbe compreso
dalle parole di Vincenzo che egli, uomo di avventure, aveva avvisato Antonio Prastano
di non osare molestare Innocenza e di tener la bocca chiusa.
Altrettanto fece, in maniera più esplicita con Francesco Gruossu, una volte
oltrepassato il fiume: «Franci', cittu!
Nun m'à vistu!!» Mentre si allontanava gli gridò:
«Tieni na bbella mugliera! Che Ddiu ta guarda!»
Francesco assentì con un lieve gesto del capo. Attese che Vincenzo si fosse
allontanato e poi, fingendo di spronare il mulo nell'acqua, «Và, và»
disse a voce alta «che
'sta vota ci fa' i viermi!» sapendo che il sodale di un tempo sarebbe
finito in galera.
Non poté attribuirsi alcun merito, quando Vincenzo di Napoli, figlio di Carlo,
fu preso e incarcerato con l'accusa di omicidio. E si regolò bene a non farsene
vanto, perché Vincenzo, una volta uscito dal carcere dopo pochi anni, lo
avrebbe sempre trovato alla torre di Chiararia. E se non ci fosse stato lui in casa
vi avrebbe trovato Innocenza, la moglie.
37. Don Gaetano chiede un salvacondotto a Jemmoli per andare a Roggiano per dare
la sua versione dei fatti
Gaetano, in preda all'agitazione per il ricordo degli eventi, ormai convinto che
altri e non lui aveva ucciso Francesco, decise di costituirsi. Rifletté a
lungo, ripetendo come in un canovaccio ciò che avrebbe dovuto dire al giudice.
O a Giovanni Annicchiarico, il brigadiere? Cominciò anche a valutare a chi
costituirsi; sarebbe stato meglio affidarsi a quest'ultimo o al capo delle guardie
Luigi Conte? Con entrambi esisteva un vincolo di amicizia e senz'altro sarebbe stato
trattato meglio, avrebbe potuto chiedere di contattare il fratello, la madre, forse
addirittura qualche testimone che confermasse la sua versione dei fatti. Annicchiarico
gli parve un soggetto poco disposto a favorirlo, tenuto conto anche delle parole
pronunciate a casa De Chiara.
Nel pomeriggio venne a trovarlo don Giovanni Jemmoli, il quale, per evitare futuri
guai con la giustizia, usò alcune precauzioni prima di entrare in casa: si
accertò che non ci fosse nessuno che potesse vederlo, sia all'esterno che
all'interno della torre. Girò lo sguardo tutt'intorno al suo podere, poi
emise un richiamo. Quando Nicola si affacciò sulla porta, gli chiese se ci
fossero altri all'interno e, solo quando fu rassicurato dal colono, entrò
dirigendosi verso colui che stava proteggendo.
Lo abbracciò e, vedendolo di umore migliore, gli chiese se gli fosse giunta
qualche buona nuova, magari portatagli dal domestico Vincenzo.
«A proposito, dov'è ora Vincenzo?» domandò con la speranza
di non doverlo mai più incontrare.
«È tornato a San Marco, per … per sapere se Francesco era morto
o vivo.» «Come vivo?» replicò il sacerdote. «Ma se
l'avete ucciso voi stesso!» «Non io …»
«NON VOI?! E CHI ALLORA!»
Il timore che da un istante all'altro uscisse dalla bocca di Gaetano un'altra verità,
per la quale non era assolutamente preparato, lo fece indietreggiare quasi a voler
dire: «Non ci sarà un altro complice che mi chiedete di ospitare?!»
«Non posso dirvelo … ora.»
«E quando me lo potrete dire?» disse don Giovanni alzando la voce «Quando
verranno ad arrestarci tutti?!»
E continuò con tono alterato: «Don Gaetano, le vostre beghe e, fatemelo
dire, i vostri disordini morali ve li tenete a casa vostra!»
Gaetano lo guardava con un'aria rassegnata e senza la minima volontà di replicare.
«Tanto è inutile, non mi crederebbe.» pensò con lo sguardo
perso nel vuoto, mentre inseguiva un'idea migliore riguardo al proposito di costituirsi.
«Don Giovanni» disse, come se l'interlocutore avesse manifestato sentimenti
di solidarietà invece che di insofferenza «avrei bisogno di un salvacondotto
per Roggiano.»
«Pure! ma allora non volete capire …»
Gaetano lo interruppe: «Vado a fare una deposizione giurata da don Luca, don
Luca Battendieri - Non è sempre lui il supplente giudiziario?»
«Sì … e allora?» rispose dubbioso ma con un filo di speranza
il prete. «E allora dirò come sono andati realmente i fatti e che ad
uccidere mio cugino non sono stato io.»
«Se mi state dicendo la verità …»
«La verità.» ripetè il giovane guardando don Giovanni
negli occhi.
«Vi procurerò il salva condotto.» disse questi, libero dell'assillo
di aver ospitato un assassino. Poi, come improvvisamente assalito da un nuovo dubbio:
«Non sarà Vincenzo l'omicida?!»
«Tranquillamente no. Na palata non ha mai ammazzato nessuno.» lo rassicurò
Gaetano riferendosi al colpo inferto dal domestico con il palo di legno.
Anche Nicola, che nel frattempo non si era spostato di un palmo dal posto in cui
si trovava, provò un enorme sollievo. Non era mai stato davanti ad un giudice,
neppure per testimoniare - e se ne vantava con tutti - figuriamoci esser accusato
di aver rifocillato un … un … Non volle neppure pensare quale reo
aveva dinanzi e concluse che rifocillare don Gaetano, quello che aveva studiato
a Roggiano, non era una colpa, ma al massimo una debolezza. «Sì, lo
conoscevo da quando era studente, di famiglia per bene …» pensò
Nicola, come se fosse sotto interrogatorio.
38. Nel frattempo a San Marco Argentano. Voci e pettegolezzi. La deposizione di
don Antonio al giudice istruttore venuto da Cosenza
Nel giorno successivo al delitto, nonostante fosse ancora l'alba, un andirivieni
di persone, a piedi, a cavallo, in carrozzino, attraversava in lungo e in largo
strade, vicoli e piazze, da Santa Maria al Critè, dalle monache alle due
piazze, da Santo Pietro al Vescovato e a Santa Catarina. Fuori le mura, nel tratto
di strada dalla chiesa di Santo Marco a quella dei riformati, un insolito corteo
funebre seguiva un traìno che trasportava il corpo
senza vita di Francesco Cristofaro. Cinque cavalcature che portavano i medici incaricati
dell'autopsia, tre guardie urbane e decine di curiosi, bene informati sulla pratica
delle prove giudiziarie, avevano trasformato il candido manto nevoso in un zangaro.
Il maggior numero delle persone, però, non si era allontanato dal luogo in
cui era avvenuto l'omicidio, e coloro che avevano fatto rientro a casa trovavano
quelli più anziani, che per infermità o acciacchi non avevan potuto
muoversi, pronti a chieder notizie. Si formarono quindi anche nei quartieri del
Casalicchio, della Giudeca, di Capo le Rose, della torre, capannelli di persone
che commentavano quanto era accaduto o quanto era stato riferito.
I commenti non si fermavano ai protagonisti, veri o presunti, del tragico avvenimento,
ma riguardavano i parenti, gli affini, gli amici, i conoscenti, i fatti recenti,
quelli passati e quelli remoti dei comprimari e delle comparse. Insomma, tutto diventava
argomento di colloquio entrando per via diretta o indiretta in una specie di giudizio
universale.
I racconti non erano fatti solo di parole, bensì anche di gesti e di suoni:
della palata che colpiva un arto o la testa, della lama che entrava nelle carni,
del fuggire precipitoso di questo o quel protagonista, dell'accorrere di vicini
e parenti. Ognuno metteva nella narrazione le sue personali doti mimiche e la fantasia
che rendeva vivida la scena, mentre altri guardandosi in giro con circospezione
e abbassando la voce, inserivano i loro personali sospetti, per cui tali voci come
un vortice ritornavano nei luoghi che le avevano originati, talvolta infilandosi
nelle porte e finendo addirittura, inaspettatamente, in bocca agli stessi protagonisti.
«E allora, don Antonio, chi vi ha colpito con un palo?» chiese il giudice
giunto da Cosenza al padre dell'ucciso.
«Vincenzo, il trappetaro di don Luigi mio nipote.»
«Ah, non Giuseppe Quintieri come avevate detto al giudice Cavallo!»
«No, mi ero sbagliato.»
«E siete sicuro che ci fosse anche don Carlo Cristofaro, il fratello minore
di don Gaetano?»
«No, non c'era.»
«Ma al giudice Cavallo avevate detto il contrario. E che c'era pure don Vincenzo
Talarico.»
«No, non c'era nemmeno lui! Mi ero sbagliato.»
«Don Antonio, siete sicuro di sentirvi bene? Non è che la palata e
la ferita vi hanno confuso le idee?»
Questa domanda fu posta senza particolare enfasi, ma don Antonio vi scorse una qualche
cattiveria.
«Signor giudice» rispose con voce ferma «subito dopo l'aggressione
mio figlio è stato ucciso. Non so ancora esattamente da chi e perché.
Sta di fatto che erano più di uno e forse le voci di questo o quello presenti
sul posto …»
«Volete dire, don Antonio, che non siete certo dei nomi e vi siete affidato
alle voci di piazza?»
Don Antonio, da uomo di legge, si rese conto che forse aveva dato più credito
alle voci che circolarono subito dopo l'omicidio che alla sua conoscenza diretta.
Ma questa, ahimé, era così vaga che … Trovò la soluzione
al problema.
«Signor giudice, io sono notaio, cancelliere, uomo di legge, persona per bene,
galantuomo per dirla con una parola. Volete che sappia come si chiamano i servitori
dei miei scellerati - chiedo scusa - dei miei nipoti?»
«Beh, se fate i nomi dei vostri aggressori i nomi devono corrispondere alla
persona.»
«E allora vi dico chiaro e tondo che per me un servo vale l'altro: che fosse
Giuseppe, o come diavolo si chiama l'esposito cacaglio,
o fosse Vincenzo Napoli, 'i Napoli, o come accidenti si chiama quel
forabbannito, non fa alcuna differenza.»
«Credete?»
«Intendo dire che erano e sono entrambi al servizio di Gaetano e di Luigi,
i miei dan … nipoti, e a loro rispondono!»
Il giudice vedendo che don Antonio si stava alterando e temendo di esser causa di
qualche accidente per la ferita ancora fresca, lo tranquillizzò e chiese
che gli fosse portato un bicchiere d'acqua.
Il notaio volle anticipare l'altra contestazione, quella di aver dichiarato la presenza
sul luogo dell'aggressione dell'altro nipote, Carlo, studente al seminario assieme
al figlio Beniamino, e di Vincenzo Talarico, il secondo eletto e sostituto di don
Gaspare, il sindaco. Usò un tono di voce basso e un eloquio pacato, chiamando
il giudice per nome a dimostrazione che egli era vicino agli ambienti giudiziari.
«Signor giudice Politi, voi comprenderete che essendo io persona offesa -
e credo che nessuno voglia mettere in dubbio tale mia condizione - nell'animo e
nel fisico, ho meco le sofferenze atroci di chi si vede colpito due volte …»
Il giudice lasciò che l'uomo che stava interrogando come parte lesa potesse
chiarire in tutto e per tutto il motivo che lo aveva spinto a fare i nomi di persone
che risultavano altrove al momento dell'aggressione.
«Sì» disse con tono comprensivo invitandolo a continuare.
«Posso aver visto, dico posso, nel momento che subivo l'aggressione, prima
una e poi l'altra, più persone e senz'altro ve n'erano. La mente umana, come
voi mi insegnate, è una sfoglia di cipolla, per dirla alla calabrese, e non
è difficile che in date circostanze veda …» «Lucciole
per lanterne?» interloquì il giudice istruttore.
«No, quei volti che sono familiari con l'aggressore. Carlo è il fratello
minore di Gaetano …»
«E don Vincenzo Talarico?»
«E don Vincenzo Talarico … don Vincenzo Talarico … lo sanno
tutti che … che …»
«Che cosa sanno tutti di don Vincenzo Talarico?»
Don Antonio cominciò a sudare, pensò che si stava infilando in un
argomento scabroso, dal quale ne poteva uscire addirittura con i piedi avanti, come
si diceva dei morti ammazzati. In un baleno gli sfilarono nella mente decine di
persone, gente importante, e i nomi che gli aveva fatto Ciccio, il figlio. Congiurati.
Cercò una via d'uscita convincente per il giudice e insospettabile nei suoi
confronti.
«Che ama anch'egli intrattenersi in convivi notturni …» Poi,
riflettendo che anche quell'espressione poteva ingenerare dubbi sulle finalità
di certe riunioni, anche a costo di affossare l'onorabilità del sostituto
del sindaco, ricorse alla seguente spiegazione: «Intendo dire che non disdegna
di riunirsi con altri per mangiare e bere!»
Sì, disse mangiare e bere, che non erano indice di vita dissoluta, né
di cattive abitudini.
«Tutti mangiamo e beviamo …» aggiunse con un filo di voce, che
il giudice non riuscì a percepire.
Avrebbe voluto piangere in quel momento, don Antonio. Se Ciccio, pace all'anima
sua, non avesse fatto quelle sue considerazioni, non a lui, che era il padre e sapeva
il pericolo che correva, ma ad altri. Il pensiero corse alla nipote Fiorina, a Ninuzza,
a Beniamino … chiunque poteva aver riferito che Ciccio aveva i nomi …
li portava in tasca … A chi altri poteva averli mostrati?
Il giudice Giuseppe Politi chiese al commesso Nicola Pulici se avesse verbalizzato
anche quest'ultima parte. Alla risposta negativa, espressa con la meraviglia di
chi è abituato a far bene il proprio lavoro, il magistrato istruttore si
rivolse al notaio per chiedergli se avesse altro da aggiungere.
«Certo.» rispose l'interrogato con nuovo vigore «Tutto l'odio
nasce dal fatto che gli assassini di mio figlio …»
«Gli assassini? … Cioè chi?»
«I fratelli Luigi e Gaetano, sì perché anche Luigi era presente!
Ed entrambi ce l'avevano a morte con Ciccio per la storia dei
viglietti …»
«Quali viglietti?»
«Ah, non lo sapete, non vi hanno informato …»
«Informatemi, voi, don Antonio …»
«Loro, i miei - faccio per dire - nipoti, che ora non mi sono più niente,
loro c'hanno le drude, tutt'e due. Incinte. E siccome
il sindaco le aveva mandate ad avvertire: 'Non crediate di partorire di nascosto
e lasciare proietti a spese del comune',
dicono che sia stato mio figlio Ciccillo a suggerire questa soluzione al sindaco
don Gaspare Valentoni.»
Don Antonio credette di aver trovato finalmente il movente per spiegare la provocazione,
l'aggressione e l'assassinio del figlio. Certo, era l'unica cosa da fare, per allontanare
il sospetto che anch'egli fosse a conoscenza di cose che non doveva sapere.
Avrebbe voluto chiamare in disparte il giudice, parlargli a quattr'occhi, senza
la presenza del commesso giurato e dirgli i veri motivi che erano all'origine del
delitto. Che nelle tasche del defunto suo figlio doveva … dovevano esserci
… E poi del tizio che da alcuni giorni circolava nelle case, un forestiero
…
Come se avesse intuito i pensieri che turbavano don Antonio, don Giuseppe Politi
gli chiese con l'aria di chi non attribuisce eccessiva importanza alla questione:
«C'è un forestiero che ho conosciuto a Roma alcuni anni addietro. Mi
dicono che stia visitando le Calabrie. Non è venuto, per caso, anche nel
vostro comune?»
«Può darsi, ma come lei sa in questi giorni mi stava sostituendo mio
figlio bonanima …»
«Ah, certo. Giuseppe, Esposito, quello che lei credeva essere il suo assalitore,
mi ha detto nell'interrogatorio che ha incontrato un forestiero e che pensava che
fossi io, il giudice …»
«Ma guarda …» rispose distrattamente don Antonio, e subito dopo
chiese: «C'entra qualcosa con la morte di mio figlio?»
«Nooo, era ufficiale delle guardie di sua Santità, quando lo conobbi.»
«Ah, ne girano di tutti i colori … Intendo dire che non ho visto nessuno,
io.» Poi, con aria afflitta, concluse maledicendo l'ora che aveva segnato
la morte del figlio: «Sono da giorni a casa e solo oggi … che non fosse
mai successo, surda l'ura!»
Il giudice istruttore e il commesso si accomiatarono da lui con parole di circostanza.
I famigliari, in attesa fuori dalla stanza, rientrati, lo trovarono che piangeva
sommessamente e si unirono al cordoglio di lui come in un lamento funebre.
39. Don Gaetano dà la sua versione dei fatti al sostituto giudice di Roggiano
Come avesse fatto don Giovanni Jemmoli a procurarsi un salvacondotto per Gaetano
in così breve tempo resta un mistero, spiegabile solo dalle sue amicizie
negli ambienti giudiziari. Lo stesso don Luca Battendieri non era rimasto insensibile
alle insistenze dell'amico e alle sue preoccupazioni di aver in casa un ricercato
per omicidio.
Quando vide il lasciapassare che gli avrebbe consentito di entrare a Roggiano senza
timore di essere arrestato, Gaetano Cristofaro rimase stupito per la tempestività
del rilascio. «Accidenti, don Giovanni, ne avete di conoscenze!» disse
Gaetano leggendo il documento.
«Eh, se non le ha un sacerdote …» si giustificò senza
alcuna boria il prete. Poi aggiunse: «Ho parlato anche con don Luca, ti aspetta
per la deposizione.»
Gaetano si sistemò alla meglio gli abiti che gli erano stati forniti e infilò
il cappotto un po' grande per la sua corporatura minuta. «Poco male, dovrò
indossarlo per poco …» ironizzò alludendo ad un possibile arresto.
«La verità ci rende liberi.» sentenziò don Giovanni accompagnandolo
fuori dalla torre.
Gaetano si diresse senza fretta verso la casa di don Luca Battendieri. Attraversò
i luoghi che conosceva per avervi trascorso buona parte della sua fanciullezza,
sperando di continuare e vederli in circostanze più felici. Passò
dinanzi la casa di Immacolata e abbassò il capo, calandosi il berretto sulla
fronte per evitare di essere riconosciuto. Non incontrò alcuno che conosceva,
né alcuna guardia.
Durante il percorso aveva riflettuto a lungo se raccontare esattamente come erano
andate le cose. In fondo don Luca Battendieri era persona di cui si poteva fidare.
L'unico problema era fare il nome di chi, dopo di lui, si era piegato su Francesco
ferito. Non poteva farlo. Per due motivi: il primo riguardava l'identità
della persona, l'altro il ruolo assegnato a ciascuno la sera dell'aggressione.
Tradire comportava più rischi di quanti non ne comportasse l'assunzione di
responsabilità. Decise che ciò che più contava in quel momento
era avere la coscienza a posto. Proprio per questo avrebbe dato una versione dei
fatti che scagionava lui e gli altri, e avrebbe fatto dello zio l'unico responsabile
della morte del figlio. «Sì,» ragionò «del resto
se la sono cercata entrambi!»
E tacitò per sempre la propria coscienza.
Giunto in piazza si infilò rapido nell'atrio di casa Battendieri. Bussò
alla porta e don Luca in persona gli aprì, facendolo entrare.
Lo guardò con occhi severi e poi, conoscendolo bene, gli chiese con tono
paterno che cosa avesse combinato.
«Niente di cui debba vergognarmi.» disse sostenendo lo sguardo di don
Luca. «Se posso vi do una deposizione sotto giuramento di tutto quello che
è accaduto.» «Questi è don Rafele Caracciolo, il cancelliere
comunale che raccoglierà la deposizione.» gli disse il sostituto giudice,
indicando la persona seduta al tavolo con l'occorrente per scrivere. «Ho preferito
farlo in casa mia per evitare che altri possano vederti.»
«Grazie, don Luca. E anche a voi don Rafele grazie per l'incomodo. A quest'ora
…»
«Niente, niente.» tagliò corto don Luca. «Sbrighiamoci
che devi andartene prima che la gente cominci a circolare.»
E Gaetano iniziò a parlare, mentre il cancelliere scriveva. Ogni tanto veniva
interrotto perché don Raffaele era rimasto indietro o perché spiegasse
meglio quanto voleva dire.
Alla fine, prima di fargliela sottoscrivere, don Luca gli lesse per intero la deposizione.
«Si è presentato Gaetano Cristofaro del fu Domenico di anni 22 domiciliato
a Sammarco e ora di passaggio per questo comune di Rogiano, e dopo averci presentato
un salva condotto regolarmente ottenuto …» «A proposito
grazie …» disse Gaetano.
«Di che cosa … Io non c'entro!» replicò secco don Luca,
continuando subito dopo la lettura.
«e fatto in Cosenza lì …» «Che data devo
mettere per il salva condotto?» chiese lo scritturale.
«Il 29 dello spirante mese.» rispose don Luca con estrema naturalezza.
«Siamo al quindici …»
«E tu scrivi ventinove!»
«Allora scrivo ventinove …» disse dubbioso don Raffaele, riprendendo
immediatamente a scrivere dopo un'occhiata torva del giudice.
Gaetano stava per chiedere il motivo di quella posposizione di due settimane della
data, ma avendo colto l'occhiata rivolta al commesso, tacque.
La lettura continuò senz'altri intoppi.
«ed ha dimandato esser osservato sulla testa per una ferita che gli è
stata cagionata nel seguente fatto.
Il giorno di venerdì dello spirante mese di Gennaio»
Per un istante quello «spirante mese» destò una perplessità
in Gaetano, ma poi memore del precedente avvertimento preferì non fare alcuna
osservazione.
«verso le ore quattro circa della notte, dopo di aver cenati nella mia casa
di unito ai miei Fratelli; d. Salvatore e d. Giacomo Campolongo, d. Domenico canonico
Talarico, e d. Eugenio Romito, passeggiavo con i sopradetti Fratelli Campolongo
nella piazza di Sammarco medesimo: mi si presentò mio zio d. Antonio Cristofaro
di unito al di lui figlio d. Francesco; ed il primo con voce indegnosa mi disse ma
non vuoi finirla ? al che pacatamente risposi 'pare che io non vi abbia mai mancato'
e costui colle dita m'insultò sul mento, al che ripigliai col dimandarlo
'Cosa vi ho fatto perché così mi maltrattate ?' A questo diverbio
si accostò d. Francesco Cristofaro mio cugino al quale il padre gli impose
di ritirarsi, ma non l'obbedì. Allora d. Antonio mi diede uno schiaffo, ed
il figlio d. Francesco mi colpì con un coltello nella testa, facendomi la
ferita che mi vedete. Essendo invaso da entrambi e ristretto nell'angolo della scala
che conduce alla casa d'abbitazione di essi di Cristofaro in modo da non poter evadere
perché da due quasi ristretto da muri e dalla parte libera ristretto dai
detti d. Antonio e d. Francesco Cristofaro armati da coltelli cercando a difendermi
delle pugnalate che replicate volte mi langiarono infruttuosamente, e vedendomi
negli estremi, conoscendo che opinatamente voleano sacrificarmi cercai e mi riuscì
di fuggire. In questo frattempo d. Antonio nel desiderio di sorprendermi ed uccidermi,
s'incontrò col figlio Francesco e prendendolo in mia vece li tirò
un colpo di coltello. Dopo di ciò il detto d. Francesco non ostante ferito
m'inseguì e giunto sotto il palazzo dei signori Campagna cadde a terra e
voltandosi a me disse non uccidermi, ed indi sopragiunse Salvatore Scarpello
sartore domiciliato in Sammarco stesso e mi afferrò il braccio trovandomi
inerme senza nessuna armatura, al quale dissi di non averlo io ucciso, perché
come mi osservava io ero inerme.
Lo passo ciò alla sua conoscenza e giustizia per quel uso che si conviene.
Fatto in Rogiano nel giorno, mese ed anno come sopra e dopo lettura si è
firmato dal dichiarante, da noi e dal cancelliere» Il cancelliere
porse la penna a Gaetano. Questi ebbe un attimo di esitazione, guardò don
Luca Battendieri quasi a cercare il suo assenso prima di firmare, poi scrisse il
proprio nome e cognome con quel caratteristico svolazzo sulla T perché non
toccasse la F successiva.
Disse, come faceva sempre, che la T centrale era la croce da cui il cognome Cristofaro
traeva origine.
Salutò con deferenza e fece ritorno senza alcun vincolo o restrizione a Valle
della fico e da qui ...
40. L'autopsia e le voci incontrollate che rischiavano di sommergere tutto e tutti
Il traìno si fermò dinanzi la scalinata
della chiesa della Riforma. Il cadavere di don Francesco, avvolto in un telo e adagiato
in una cassa di legno, fu portato con fatica, per la neve su cui si rischiava di
scivolare, nell'atrio coperto antistante la chiesa.
Le guardie fermarono i curiosi ad alcuni metri dal carro. Salirono in fila i cinque
medici incaricati dell'autopsia: Pietro de Marco, Baldassarre Conte, Luigi Sarpi,
Gaetano Marchianò e Bernardo Viola, questi ultimi due di Cervicati, seguiti
dal giudice Giambattista Cavallo e dal cancelliere Luigi Bavoso. Il cadavere fu
posto su un tavolo e ognuno preparò gli strumenti per le proprie funzioni:
i medici incaricati dell'autopsia li disposero in ordine su un secondo tavolo, più
piccolo, e il cancelliere si mise di spalle per non vedere il cadavere mentre veniva
sezionato.
La curiosità di coloro che si accingevano al proprio delicato incarico e
degli sfaccendati in attesa all'esterno era rivolta soprattutto a scoprire in quanti
avessero infierito sul corpo di Francesco Cristofaro. Perché la voce pubblica
aveva già stabilito che ad uccidere il giovane sostituto cancelliere non
era stato solo don Gaetano suo cugino fratello, bensì anche l'altro cugino
fratello, il canonico don Luigi Cristofaro e, perché no, anche il galiuoto
che si portavano appresso.
Poiché la ricerca della verità avveniva sul lato destro dell'atrio,
nessuno dei curiosi avrebbe potuto vedere, né tantomeno conoscere i particolari
di quelle operazioni. Solo il futuro genero di Gaetano Marone, la guardia posta
a tutela della riservatezza delle operazioni in cima alla scalinata, avrebbe saputo
quanti colpi erano stati inferti a don Ciccio bonanima, osservando con attenzione
le mani incrociate dietro la schiena del futuro suocero.
All'interno don Luigi Bavoso aveva iniziato a scrivere, ripetendo per filo e per
segno quanto gli veniva dettato dal più anziano dei chirurgi, don Pietro
de Marco, quasi sessantenne.
«Abbiamo rinvenuto le seguenti lesioni. Prima una ferita a parte sinistra dell'occipite
la prima sita a parte sinistra dell'occipite sottocutanea di figura obbliqua ed
angolosa nel mezzo, lunga un pollice e mezzo circa, larga tre linee circa ed irregolare
ne' suoi margini, senzacché avesse peraltro interessato gli organi del capo.»
Il dito pollice della destra, serrata a pugno nell'altra mano della guardia Marone,
si aprì ad indicare la prima ferita.
«La seconda sita anteriormente e superiormente all'articolazione dell'omero
sinistro, in direzione trasversale di figura regolare ad angoli acuti, penetrante
in cavità, ed interessando fino alla profondità di due dita traverse
il pulmone corrispondente.»
Il pugno di Marone lasciò apparire il secondo dito.
«La terza sita nel mezzo dello sterno a destra longitudinalmente penetrante
in cavità con frattura della costola sottoposta interessando il pericardio
e con esso l'orecchietta dritta del cuore, cosicché il pericardio era ingombrato
da uno strato di sangue di circa once dieci.
Si aprì anche il terzo dito della mano della guardia urbana.
« La quarta sita trasversalmente tra il mezzo del margine della scapola sinistra
e spina dorsale, regolare, ad angoli come le prime, penetrante in cavità
da sopra a sotto, ferendo lo stesso pulmone sinistro verso il suo mezzo nella profondità
di due dita traverse.
Gaetano Marone aprì il quarto dito tenendo chiuso, non senza qualche difficoltà,
il mignolo.
«La quinta finalmente finalmente consisteva in un'ecchimosi
sita sulla vola della mano dritta in corrispondenza del metacarpo.»
Apparve, infine, l'intero palmo della mano dell'occulto suggeritore ad indicare
che i periti erano giunti alla quinta ed ultima ferita.
Dopo una breve interruzione per concordare i propri pareri, i medici stilarono le
loro considerazioni finali, dettate questa volta dal più giovane di loro,
don Luigi Sarpi.
«I periti quindi giudicavano la prima ferita, cioè quella dell'occipite,
prodotta da strumento tagliente-contundente, e pericolosa di vita per gli accidenti.
Le tre penetranti in cavità prodotte da strumento di punta e taglio, pericolose
di vita per la loro natura, ed infine quella della mano prodotta da strumento contundente
di minor pericolo.»
Il giudice chiese se si poteva stabilire con quale tipo di arma era stato colpito
don Francesco e quale delle tre ferite ne avesse procurato la morte.
« Con altro esame suppletorio gli stessi periti sanitari, dietro quesiti proposti
dall'Inquisitore delegato giudicavano:
1° Che la ferita nell'occipite offrendo nelle sue labbra una irregolarità,
riguardo al taglio de' comuni tegumenti, e figura della ferita stessa, ed inoltre
una congestione sanguigna diffusa ne' vasi capillari in tutta la ferita e ne' contorni
di essa, che sia stata prodotta da strumento contundente che potea pur tagliare
come palo, pietra ecc.
2° Non potersi con certezza stabilire se le ferite penetranti in cavità
siano state prodotte da uno o più strumenti, attese le svariate posizioni
del corpo in atto di essere offeso, la diversa violenza e direzione con cui può
essere vibrato un colpo, e la possibilità di due strumenti simili o quasi
simili.
3° Che ciascuna delle tre ferite penetranti in cavità dovea isolatamente
produrre la morte per aver offesi organi essenzialissimi alla vita.»
Camillo, lentamente, senza farsi notare, si allontanò dal luogo in cui aveva
pazientemente atteso di sapere quante fossero le ferite, che egli trasformò
in altrettanti assassini. In preda ad un incontenibile appagamento, si stropicciò
le mani, un po' per il freddo, ma più ancora pregustando l'incontro con il
primo conoscente a cui riferire la nuova assoluta. Camillo era sarto, bravo e stimato,
ma essendo ghiegghio
non era pienamente inserito nella cerchia degli altri mastri. Il fatto che abitasse
alla Riforma, distante dal paese, contribuiva ad isolarlo dal resto degli abitanti.
Tuttavia in mezzo alle tante persone incolte che abitavano o frequentavano il quartiere
nei giorni di mercato egli appariva un pozzo di scienza. E così appena il
primo conoscente cominciò a chiedergli informazioni su quanto era accaduto
nella piazza dei signori Selvaggi, Camillo, misurando le parole, con gli occhi puntati
sulle unghie delle dita, iniziò a narrare.
Tutto lo appagava, gli occhi sgranati, le labbra ad o, le sopracciglia sollevate,
le mani sulle guance erano come gli applausi per un prestidigitatore alle prese
con i suoi marchingegni. In breve dal suo racconto ognuno aveva appreso cose diverse
e le cinque ferite inferte da cinque assassini si decuplicarono di bocca in bocca,
avendo ciascuno pieno diritto di arricchire le fonti del suo sapere. Dal quartiere
della Riforma le notizie rotolarono lungo la consolare fino alla porta San Marco,
e da Catuccio al sottostante quartiere del Casalicchio e da questo alla piazza della
Torre, e quindi in quell'intrico di vicoli ad occidente fino a lambire le ultime
case della 'Mbruona.
Finanche i testimoni oculari del delitto, a quella valanga di notizie, ebbero dubbi
e perplessità, e finirono per convincersi che dietro i rancori privati di
due famiglie si nascondesse qualcosa di più segreto e sordido, che non una
semplice lite e due viglietti alle
drude incinte.
L'omicidio si trasformò in una faida che vedeva coinvolte altre famiglie.
Sembrava che da un momento all'altro una grossa quadara
piena di frittole stesse per rovesciarsi
con danni incalcolabili.
Ai primi commenti fatti di «Mara mia» e di «Jesu», ne subentrarono
altri più consapevoli. «Si sapia», «Aviedda succedi»,
e infine quelli che facevano intravedere un disegno più vasto e occulto.
«Ma a chi la raccontano?», «Adduv'eranu i Lareggina?», «Possibile
che nuddru di judei s'è affacciato?»
- perché anche a quel tempo gli ebrei erano considerati pericolosi complottardi
- «E i Catalanu?», «Nun su'
di chira parte» rispondeva a chi era più addentro nella
politica.
Altri dubbi cominciarono ad insinuarsi quando qualcuno disse che tutto era partito
da Palermo due giorni prima. «U
miercuri, juornu 12 'i stu misi …» era addirittura venuto
l'ordine di eliminare don Francesco perché aveva scoperto che … E
qui le voci si allontanavano dal vero per timore o ignoranza.
Coloro che non sottovalutarono affatto tali voci furono il giudice istruttore giunto
da Cosenza, le famiglie Amodei, Campolongo, Candela, Conte, e La Regina, per citare
quelle più importanti, ma anche altre più modeste come Aiello, Aloia,
Caruso, De Carlo, del Giudice, De Bonis, D'Ardis, Greco, Loffredo, Martino, Marzullo,
Marino, Madorno, Misuraca, Naccarato, Pisano, Pagano, Pugliese, Parise, Rogato,
Rotondaro, Stummo, Salerno, Talarico ritennero che quell'omicidio potesse aprire
le porte ad un'inchiesta più vasta e coinvolgere uno o più famigliari.
«Ci siamo messi in mano a due idioti.» Era il commento più benevolo.
«Vuoi vedere che prima o poi parlano?» insinuava qualcuno. «E
che possono dire? Che erano 'nchiariti?» rispondeva
un altro alludendo al vino bevuto. «Chi l'ha proposto a quello ai Cristofaro?
Appena uscito di galera!» era un'altra insinuazione riguardante il ruolo di
Vincenzo, il rosso. «Ma questo libretto coi nomi esisteva davvero?»
veniva sussurrato mettendo in dubbio l'esistenza di una delle prove maggiori. «Se
li sapeva a memoria, com'è facile, cosa cambiava?» controbbatteva un
altro sussurro. «Cambia, cambia. Che la scrittura non era di don Francesco.»
«Noo? E di chi?» «…» rispondeva senza parlare con
gli occhi sollevati al cielo chi era bene informato.
In quelle ore e nei giorni successivi ci furono incontri tra coloro che si ritenevano
in maggior pericolo, e furono contattati in vario modo anche i testimoni. Finanche
nelle case dell'ucciso e degli uccisori giunsero messaggi perché quel delitto
d'impeto non si trasformasse in qualcosa di impetuoso, in grado di travolgere la
quiete di intere famiglie.
Come sempre accade in tali circostanze, si mossero anche sobillatori, mestatori,
spie e quanti covavano da tempo desideri di vendetta verso questa o quella persona,
questa o quella famiglia. E, in aggiunta alle tante voci che circolarono in quelle
ore ve ne furono due che aggiungevano mistero al mistero: l'una parlava di un forestiero
in giro per la Provincia disposto a pagare profumatamente non si sapeva bene chi
e per che cosa, l'altra di una nobildonna di Milano disposta a reclutare calabresi
per portarli con sé «druoccu a 'pinninu».
Volarono schiaffi, da padri a figli, i primi amanti del quieto vivere, i secondi
infatuati dall'idea di occupare il posto promesso nella storia. Non era facile,
tuttavia, mostrarsi educatori severi perché poteva darsi che il padrone della
bottega data in affitto al genitore amante del quieto vivere avesse le stesse idee
del figlio di quest'ultimo, entrambi aspiranti al posto nella storia. In tale commistione
di problemi politici e sociali, a cui nessuno era preparato, il delitto di don Francesco
Cristofaro rischiava di far esplodere una santabarbara.
A nessuno conveniva che le indagini si estendessero al punto da compromettere altre
famiglie: il delitto doveva restare circoscritto a quel ristretto ambito familiare
e anche l'autore doveva essere individuato in una sola persona, meglio se di cattiva
fama.
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