LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti
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31. Riunione in casa di donna Pasqualina e arresto di Giuseppe Quintieri
Peppinello si era da poco addormentato sul letto di don Gaetano, quando in casa
di donna Pasqualina iniziarono frenetiche consultazioni tra i famigliari per decidere
che cosa fare prima che la giustizia si muovesse con perquisizioni e arresti. In
casa c'erano la madre e i figli Vincenzo e Carlo, rientrato notte tempo dal seminario
appena si era diffusa la notizia. Dal quartiere di Santa Caterina erano arrivati
anche Raffaela, la prima figlia, col marito don Emiddio De Pasquale. Fu questi ad
assumere le decisioni più importanti in quei drammatici momenti che vale
la pena narrare, perché non tutto ciò che era avvenuto era stato riferito
o riferito nel modo veritiero in quella casa.
«La decisione che prenderemo» iniziò a dire Emiddio, chiudendo
la porta alle sue spalle «è di quelle che non dovranno mai uscire fuori
da queste mura.» Vincenzo e Carlo lo guardarono in silenzio con un misto di
ansia e di curiosità. «Uno ed uno solo è il responsabile.»
«Ma …»
«Non ci sono né ma né mi!» disse interrompendo l'obiezione
di Vincenzo e ripeté: «Uno ed uno solo è il responsabile!»
Dalla porta che immetteva nella stanza dov'era la cappella privata, entrò
don Luigi. Tutti, tra i presenti, sapevano che era in casa, in attesa degli sviluppi
della situazione. Non esisteva ancora alcuna solida prova a suo carico, tranne la
dichiarazione di alcuni testi di averlo visto entrare nella casa in cui si trovava
il corpo senza di vita di Francesco. Il giudice Politi giunto da Cosenza aveva da
poco iniziato le indagini. Don Luigi appariva provato e stanco. Nessuno sapeva esattamente
come fossero andate realmente le cose, lo stesso don Luigi che era stato presente
sul posto del delitto e prima ancora nella fase della provocazione e della rissa,
non riusciva a collegare alcuni momenti dell'azione conclusasi troppo rapidamente
ed in luoghi diversi da quelli che si potevano prevedere.
«Gaetano è stato precipitoso,» iniziò a dire, «quando
ha visto Ciccio con il coltello.»
«Ma lo aveva davvero il coltello?» chiese Vincenzo. «Cazzo se
l'aveva!» rispose don Luigi.
«Lo stocco e lo stile?» domandò
Emiddio. «Saranno ritrovati e consegnati al giudice» rispose Vincenzo.
«Intendevo …» stava per precisare Emiddio, ma fu interrotto da
un secco: «Saranno ritrovati!»
Altri non avrebbero compreso che cosa intendesse il primo, né che cosa significasse
che le armi sarebbero state ritrovate, ma bastarono quelle parole perché
l'argomento fosse chiuso.
Vincenzo riprese a spiegare come erano andate le cose in casa dopo la cena e l'uscita
di Peppinello, ubriaco, in cerca di Luigi e Gaetano. «È rientrato con
me» aggiunse don Luigi «e anche lui è stato visto girare nei
posti dov'eravamo noi, con un palo in mano.»
«Non vorrai che il giudice creda che sia lui il colpevole?» obiettò
Carlo. «Lo sanno tutti che è scemo.»
«Comunque zio Antonio in un primo momento ha detto che c'era lui e non Vincenzo
di Napoli.» Aggiunse don Luigi.
«Lasciamolo da parte completamente a Peppinuzzu, che nostra madre si metterebbe
a gridare, e poi non regge. Figuriamoci! Peppinuzzu con uno
stocco o uno stile in mano.» continuò Carlo.
«Carlu', non fare il sapio, adesso: se regge,
se non regge. Non ti dico che deve essere lui il colpevole, che lo so che scoprirebbero
subito quando è uscito da casa. L'hanno visto Fedele, Micuzzo e …»
disse don Luigi senza aggiungere il nome del terzo testimone. Quindi con tono seccato,
questa volta rivolto direttamente al fratello minore, aggiunse: «A me delle
tue fantasie di rivoluzionario non me frega niente, ma siccome ci sei di mezzo anche
tu, cerca di stare al tuo posto. Se no vai a piangere di là con nostra madre!»
Carlo tacque e si concentrò sulla punta delle scarpe. Il confronto sulle
decisioni da prendere continuò tra i due cognati, Luigi ed Emiddio.
«Quante sono le ferite? Non quelle col palo.» chiese quest'ultimo.
«Tre.» rispose don Luigi.
«Tutte mortali?»
«Alla seconda era ancora vivo!»
«La terza … chi?»
«Non ha importanza chi, alla terza
s'ha mangiato a frisuddra!» rispose don Luigi. «C'è
il cappotto …» aggiunse.
«Cioè?» chiese Emiddio.
«Ci hanno visto una volta a me col cappotto e Gaetano senza, un'altra a me
senza e Gaetano col cappotto.»
«E questo che significa?» domandò l'altro perplesso.
«Non vi è certezza su chi fosse realmente uno degli inseguitori!»
«Ah» disse Emiddio senza attribuire grande importanza a questo espediente
e subito dopo aggiunse: «Ma Vincenzo è stato visto? Visto bene?»
«Vincenzo è furbo! Ha fatto la scuola delle catene. Il
cervone che porta sempre l'aveva lasciato a casa, e guarda caso lui che
esce sempre col manto, quella sera si era messo il cappotto che gli avevo dato io.
Quello un po' vecchio.»
«Va bene, ma don Antonio l'ha visto in faccia.»
«Zu' Antonio aveva detto che era Peppinuzzu u ciuotu quello che l'aveva colpito.»
«Si, ma poi ha ritrattato. Pure di Carlo aveva detto che c'era, e di Vincenzo
Talarico, e ha ritrattato anche di loro.»
«Io non c'ero davvero.» disse Carlo, chiamato in causa. «L'equivoco
era nato perché Beniamino mi aveva visto uscire dal seminario.»
Emiddio continuò come se Carlo non avesse parlato: «Con don Antonio
ci hanno parlato don Luigi Sarpi e don Baldassarre Conte: 'Ma vi pare che Peppinuzzu
poteva fare una cosa simile?' - gli hanno suggerito - 'Vincenzo, il
trappitaro, doveva essere.' E poi anche per Carluccio e l'altro, Vincenzo
Talarico, lui diceva, ma non era sicuro. Tant'è vero che don Giambattista,
il giudice, lo aveva pure avvertito.»
«Il problema è come tirarne fuori Gaetano.» continuò Emiddio.
«E questo è strettamente legato all'altro problema che vedrebbe coinvolto
Carlo, perché a quanto si dice circola anche il suo nome assieme a quello
di altri giovani per … Avete capito.» Gli altri ascoltarono con attenzione,
ad eccezione di Luigi, che nel merito di questa ultima storia di presunti cospiratori
preferiva non entrare. Tuttavia aveva portato a termine il suo compito di far scomparire
una delle prove del complotto. Vi fece un vago accenno: «Quell'elenco è
ora in buone mani. Anzi in mani misericordiose. Però, lasciatemelo dire,
a me sembra tutta una comunella di perdigiorno.»
«Se volete un mio parere,» concluse «Dobbiamo stringere su Vincenzo
de Napoli.»
«Sono d'accordo,» disse Emiddio. «Anch'io,» disse Vincenzo.
«Per quanto vale, anch'io.» disse Carlo.
Prima che la riunione si sciogliesse, bussarono alla porta. Emiddio raccomandò
a tutti di parlare il meno possibile, di mostrarsi rattristati, e di aspettarsi
di tutto. Anche l'arresto di qualcuno. Don Luigi si infilò rapido nella cappella
di casa, e gli altri, benché innocenti, attesero ansiosi gli eventi. Tutti
si erano dimenticati di Peppinello, che dormiva immerso nelle sue fantasie che lo
rendevano così diverso da tutti gli altri. Fu bruscamente riportato nel mondo
degli esseri umani da un trambusto e da una luce improvvisa: prima il calpestio
di più persone nel corridoio e poi un lume e un volto chino su di lui che
lo guardava minaccioso. «No, non è don Gaetano!» sentì
dire. «È Giuseppe, Giuseppe Esposito, il servo.»
«Fa lo stesso, è ricercato anche lui» disse un altro. «Alzati
e vestiti!» gli fu ordinato. Vide i fucili, le divise, le catene. Gliele misero
ai polsi mentre si stava infilando i calzoni. Pensò di aver fatto qualcosa
che non si doveva fare, e anche che stesse ancora sognando. «Ammacardio!»
disse.
«Se speri che sia morto, è morto, don Ciccio. E tu sei complice dell'assassino!»
gli fu detto da uno dei presenti che gli sembrò Francesco Falbo, il gendarme.
Quando fu in piedi riconobbe il brigadiere don Giovanni e don Luigi Conte, il capo
delle guardie. C'erano altri due gendarmi che non conosceva. Lo trascinarono via
dalla stanza, scalzo con i vestiti indossati a metà.
«Donna Pasqualina, vi togliamo un brutto incomodo e il nostro disturbo.»
disse il capo urbano. Poi rivolgendosi a don Vincenzo gli chiese dove fosse il suo
stile. «Dove è sempre stato, in camera mia!» rispose questi.
«Bene, allora consegnatemelo. Se potete.»
L'ultima frase fece sorgere il sospetto a Don Vincenzo che il riferimento fosse
all'arma del delitto e si fermò guardando l'ufficiale che ben conosceva.
«Vedo che sapete già come è stato ucciso don Ciccio Cristofaro!»
gli disse don Luigi Conte, continuando: «Brutta cosa tenere armi in questi
frangenti!»
Uscirono, per primo Peppinello in mezzo alle due guardie e gli altri a seguire.
«Largo, largo» intimarono i gendarmi ai curiosi in attesa dinanzi l'ingresso
della casa. Donna Gaetana Scornajenco e la figlia spiavano dagli sportelli socchiusi
della finestra di fronte. Don Michele e don Salvatore erano sul balcone, in attesa
dell'uscita del loro congiunto con i ferri ai polsi. Videro al posto suo Peppinello,
il servo, e sperarono che le voci che si erano sparse fossero infondate. «Meno
male» disse don Michele «che Gaetano fosse capace di uccidere il cugino,
nemici e buono, non era mai possibile.»
«Speriamo che sia stato Peppinuzzu» rispose don Salvatore «ma
…»
«Ma ché?» si spazientì il padre che già era spazientito
per le brutte cose udite. «Lo sapevo che un giorno o l'altro li avrebbero
presi i cugini tuoi, a don Luigi e Gatano, per le storia della costituzione …
Che pure a te prima o poi vengono a pigliarti!!» Don Salvatore non volle contraddire
il vecchio genitore, già provato dai dolori familiari, e volle rassicurarlo:
«Padre, vussuria non deve avere di queste paure che vostro figlio non vi darà
mai questo dolore» e lo invitò a rientrare che il freddo gli avrebbe
fatto male.
In strada e dalle abitazioni di fronte il mormorio della gente accompagnava il passaggio
di quegli uomini con il giovane in catene. Imboccarono lo stretto vicolo che porta
al Casalicchio, attraversarono il quartiere in mezzo a decine di persone, chi a
favore e chi contro le famiglie dell'ucciso e dell'uccisore ma tutti concordi nel
dire che a rimetterci erano sempre gli innocenti. «Sssss, silenzio!»
interveniva ora uno ora l'altro gendarme, nel sentir messa in discussione la regia
giustizia, sentenziando: «C'entra, c'entra!»
Quell'antico torrione, che Peppinello aveva osservato solo da lontano, tanto lugubre
a vedersi e ancor più ad ascoltar i lamenti che ne provenivano, si aprì
per il giovane galiuoto. Stridere di
maschetti e di cardini, comandi e parole d'ordine, Giuseppe Quintieri
Esposito vi fu introdotto con le catene ai polsi. Il custode delle carceri se lo
prese in consegna ai sensi dell'art.593 del Regolamento di Procedura Penale e ne
rilasciò ricevuta. Accompagnandolo all'ultimo piano, nella cappella ricavata
nel reparto delle recluse, gli chiese cosa avesse commesso di tanto grave da essere
carcerato.
Il giovane non seppe rispondere, balbettò qualche scusa e poi si mise a piangere.
«Donna Fio-fio-rina …» disse tra le lacrime.
«Donna Fiorina? Che c'entra donna Fiorina?» gli chiese meravigliato
il custode. «L'ave-l'avevo spi-spi-spiata. »
«Ah, è grave, molto grave …» lo rimproverò bonariamente
l'uomo facendolo entrare in un vano con un altarino alla parete. «Qui potrai
pentirti a dovere!» gli disse chiudendo la porta alle sue spalle.
Qualche ora dopo al piano sottostante furono rinchiusi anche Gaetano Papa e Antonio
Pasqua. «Chi era l'uomo col cervone e col cappotto?» fu chiesto ad entrambi
dal giudice. «Non lo so,» avevano risposto «era buio, c'era nebbia,
il viso non si scorgeva da sotto il cappello.» pensando a quello sguardo cattivo,
alla barba rossiccia e alla corporatura alta del
trappitaro, uscito da galera da pochi mesi. «Megliu
u carcere che 'na curtiddrata.» si consolarono una volta chiusi
in esperimento nella torre. Tutti e tre,
inutile dirlo, fecero della notte giorno.
32. In casa Campolongo. Un forestiero. Il rientro di Giacomo e Salvatore. Poi in
casa Valentoni
Giacomo e Salvatore Campolongo, rientrati in casa in preda ad una evidente agitazione
per la lite e l'inseguimento a cui avevano assistito, trovarono il padre, don Generoso,
a colloquio con il forestiero, cioè il signore svizzero, o francese che fosse,
che avevano avuto occasione di incontrare alcuni giorni prima mentre usciva dalla
loro casa. Chiesero scusa per l'intrusione e prima ancora che Giacomo aprisse bocca
il padre gli aveva presentato lo sconosciuto come un lontano cugino, da tempo dimorante
in Svizzera per i suoi traffici. L'immagine di Ciccio inseguito nel vicolo da Gaetano
e dal servitore era troppo viva nei loro occhi e la voce che fosse stato ucciso
non erano cose da tacere al padre, abituato a discutere con i figli di ogni questione,
soprattutto di quelle politiche. In questo caso, però, non vi erano argomentazioni
sulle quali il genitore si sarebbe ben volentieri intrattenuto, trattandosi di una
gazzarra, di una rissa e di un omicidio!
Mentre Salvatore cercava le parole e i modi per affrontare quel drammatico avvenimento,
il forestiero esclamò: «Sappiamo già tutto. Chi ha ucciso il
signor Francesco Cristofaro?»
Salvatore e Giacomo, con la bocca aperta per lo stupore, pensarono entrambi che
la giustizia doveva essere ben rapida per aver già iniziato le indagini a
cadavere ancora caldo. Credettero che il padre per chissà quale motivo volesse
tenere nascosta la vera identità dell'uomo e che questi fosse un giudice
o un commissario regio. Giacomo abbassò lo sguardo, Salvatore lo rivolse
verso il padre che fu pronto a tranquillizzarlo sulla domanda posta dallo sconosciuto:
«È importante sapere chi lo ha ucciso!» Poi aggiunse: «O
chi lo ha avvicinato prima che morisse.»
Salvatore disse che era stato Gaetano Cristofaro, dalle voci e dal fatto che loro
l'avevano visto inseguire il cugino. Giacomo aggiunse che potevano essere stati
anche due: Gaetano e il trappitaro Vincenzo De Napoli. Salvatore riferì la
voce uscita da casa Scarpello, dove giaceva il corpo senza vita di Ciccio: «Dicono
che forse c'era anche don Luigi …». Lo straniero parve spazientirsi:
«Insomma chi è stato l'ultimo a colpirlo?» disse con una punta
di stizza. Don Generoso mitigò il tono ma tenne ferma la domanda: «Don
Luigi è passato poco fa con il domestico Giuseppe, l'Esposito. Gaetano e
il trappitaro sono fuggiti insieme?» «Sì, erano insieme.»
risposero all'unisono i due fratelli. «Com'era vestito il signor Francesco?»
domandò l'ospite. «Era in giacca, senza il cappotto. Come Gaetano.
De Napoli aveva il cappotto.» gli fu risposto da Giacomo.
«Bene. Devo proprio andare.» disse inaspettatamente il signore dando
la mano a don Generoso e, quindi, ai figli. «Un'ultima cosa: noi non siamo
assassini.» disse uscendo dalla stanza. «Certo, certo. Nemmeno a pensarci.»
replicò don Generoso accompagnandolo con una mano sulla spalla.
«Spero di recuperare quell'elenco prima che finisca in brutte mani.»
furono le ultime parole udite da Giacomo e Salvatore.
Giuseppe Pastore, il domestico, con l'aria di chi deve farsi perdonare qualche mancanza,
entrò nella stanza dove erano rimasti i figli di don Generoso e in tono di
scusa disse: «Della cena a casa di don Luigi non ho detto niente …»
«Va ti curca!» gli rispose Salvatore,
seccato, accompagnando le parole con un movimento del capo.
Don Generoso rientrò nella stanza. Fissò per alcuni istanti prima
l'uno poi l'altro figlio, quindi, a sorpresa, ponendo le mani sulle loro spalle
con tono rassicurante disse: «Purtroppo Gaetano è una testa calda e
Ciccio qualche difetto lo aveva.» Quale fosse 'il difetto' non lo disse, né
i figli chiesero spiegazioni, segno che don Francesco 'se l'era cercata'.
«Domani andrai da zio Gaspare e ti farai spiegare bene come sono andate le
cose.» concluse don Generoso rivolto a Giacomo. «Ci vado adesso, invece.»
dissentì il figlio, avviandosi all'uscita, mentre il padre tentava di fargli
cambiare idea: «Ascolta …» , ma Giacomo era già nelle
scale.
Uscì dall'alto portale in pietra avvolto nel mantello che gli copriva la
bocca e si diresse verso il corso delle monache al termine del quale, prossimo alla
piazza di basso, c'era il palazzo Valentoni. Incontrò varie persone che andavano
e venivano dalla piazza, e certamente da Santo Pietruzzo, ma nessuna lo riconobbe
intabarrato com'era. Non si fece vedere quando picchiò con il battente sulla
porta. Carmine, il domestico, venne ad aprire e lo fece entrare, chiedendogli se
c'erano altri con lui. Giacomo salì le scale a due gradini alla volta ed
entrò nella stanza d'ingresso. Salutò con deferenza lo zio che stava
parlando con don Nicola Bova, il tesoriere. In un angolo, seduto nell'ombra, c'era
il cugino svizzero da poco uscito da casa sua. Salutò entrambi con un cenno
del capo. Don Gaspare non si perse in preamboli e girando il capo verso il nipote
disse: «Spero che tu non abbia bevuto! Don Nicola mi dice che ad inseguire
Francesco c'erano Gaetano avanti e quel tizio con un bastone dietro.» «Sì,
così ho visto anch'io, ma non saprei dire chi dei due lo abbia finito …»
rispose Giacomo.
Intervenne don Nicola: «Pare che sia stato Gaetano, dopo che l'altro lo aveva
colpito col bastone …»
«Non ha nessuna importanza chi sia stato» disse dall'ombra lo svizzero,
cambiando quanto aveva detto in casa di Giacomo «l'importante è che
Francesco sia morto.» Don Nicola corresse: «Importante … vuol
dire … voleva dire che … il guaio è che Francesco è
morto.»
«Il mio italiano lascia a desiderare, padre,» spiegò lo straniero
«intendevo dire esattamente che … purtroppo … purtroppo Francesco
è morto.» «Pace all'anima sua.» aggiunse don Nicola facendosi
il segno della croce. Seguirono alcuni istanti di silenzio, sembrando che ognuno
dei presenti riflettesse sulla morte, o sulla tragedia, o su qualcosa legata alla
brevità della vita. «Eh, che cos'è la vita!» sospirò,
infatti, don Ignazio, mentre don Nicola si congedava.
Rimasero soli lo zio, il nipote e lo straniero. In strada e nella piazza continuava
l'andirivieni di curiosi e di gendarmi incaricati di prelevare sospetti e testimoni
dalle loro case.
«Verranno a cercarmi.» disse Giacomo.
«Sai cosa dire?» gli chiese lo zio, con un tono che sembrava più
una raccomandazione che una domanda. «Si, certo. Io e Salvatore eravamo distanti.
Non immaginavamo che Gaetano sarebbe arrivato a tanto …»
«Va bene, va bene!» lo interruppe lo svizzero, uscendo dall'ombra «L'importante
che Francesco non ha …»
Si fermò un istante e quindi chiese a don Ignazio: «Ma è corretto
dire 'ha' oppure 'abbia'?»
«Abbia. È meglio usare il congiuntivo.» rispose l'interpellato,
come se una spiegazione sulla correttezza linguistica in quella circostanza fosse
la cosa più naturale di questo modo.
«Ah, grazie, allora diremo che l'importante» continuò lo sconosciuto
con il suo accento straniero « è che Francesco non abbia dato a nessuno
…» Si fermò un istante, abbassò la voce, ripetendo la
frase appena pronunciata e si avvicinò circospetto alla porta, aprendola
di scatto.
«La pvudenza non è mai troppa!» disse con la sua erre particolare,
richiudendo la porta e continuando: «quell'elenco di nomi.»
«Vede Cris …» Don Ignazio non finì di pronunciare il nome
dell'ospite e continuò il discorso: «Quei nomi potrebbero essere già
sul tavolo del giudice Cavallo, ma se non ci fossero ancora arrivati, non ci arriveranno
più.» «Se non li ho personalmente in mano io, non sono tranquillo.»
disse lo svizzero.
Continuarono a parlare, Giacomo spiegando ciò che sapeva e ciò che
aveva visto, don Ignazio spiegando che lo stratagemma delle drude
lo teneva lontano da ogni sospetto, lo straniero preoccupato di recuperare le informazioni
riservate a cui aveva fatto cenno.
In quel frangente bussarono alla porta. Carmine introdusse don Eugenio Romita e
don Luigi Cristofaro.
Senza alcun accenno di saluto né formalità, entrambi andarono diritti
al sodo. Iniziò don Luigi: «Morto!
S'ha mangiatu a frisuddra!»
«Che?» chiese lo straniero all'oscuro di quell'espressione. «Niente,»
tagliò corto don Ignazio «vuol dire che è morto!»
«Ah, ma voi ripetete sempre la stessa cosa: è morto, è morto,
è morto …» replicò spazientito il primo. «Chi ha
messo le mani nelle tasche del morto?! Chi ha i nomi?!» disse alzando la voce
e scandendo le parole perché fosse compreso bene il proprio pensiero.
Don Luigi lo tranquillizzò: «Nelle tasche del morto non ci sono più.»
«Li avete voi?» chiese lo straniero con un filo di speranza nella voce.
«Non io,» rispose il sacerdote «ma di certo Gaetano, mio fratello.»
«E adesso dov'è?»
«È fuggito signor … signor»
«Lasci stare come mi chiamo e il signore, mi dica dov'è suo fratello
ora!»
«A casa non c'era. Sicuramente sarà andato a Roggiano alla casa di
don Giovanni Jemmoli.»
Rendendosi conto che il forestiero stava perdendo la pazienza, don Eugenio intervenne
per mediare: «A Roggiano ci sono anche miei amici e lì Gaetano, se
non trova ospitalità da don Giovanni …»
Anche Giacomo volle dire la sua: «Don Giovanni ha una torre a Valle fico,
isolata …»
Lo svizzero strinse le mascelle, socchiuse gli occhi, ed emettendo un sospiro profondo,
sibilò tra i denti: «Lanet olsun!
Voi calabresi avete la grande capacità di fare le rivoluzioni con le parole!»
E continuò guardando ognuno dei presenti negli occhi: «Qui sono in
gioco migliaia di ducati, molti dei quali messi di tasca mia, per la causa nazionale!»
Don Ignazio pacatamente lo interruppe: «Via, che il nostro modo di affrontare
gli argomenti» disse «non mette in discussione la causa nazionale. Parlerete
voi stesso con Gaetano.»
Chiamò Carmine, gli ordinò di sellare due cavalli e accompagnare subito
l'ospite da don Giovanni Jemmoli, a Roggiano. Poi, congedandosi dall'uomo, gli spiegò:
«Mentre voi amate usare qualche espressione turca, così noi calabresi
amiamo discutere alla maniera bizantina.»
Attese che si fossero allontanati dalla stalla sottocasa, quindi risalì nella
stanza e congedò gli altri ospiti, raccomandando di dimenticare ciò
che avevano visto e udito quella sera. Don Luigi fu l'ultimo ad uscire.
33. Fiorina e Vincenzo de Napoli
Gaetano, liberatosi di Salvatore Scarpello, riuscì ad infilarsi nel vico
Puzzillo. Giunto dinanzi l'arco d'ingresso della casa di don Vincenzo de Pietro
piegò a sinistra e poi si accostò sul lato destro del vicolo dove
un vecchio muro separava la città dai campi e da un profondo vallone. Superato
il muro, percorse un tratto della parte scoscesa finché fu certo di non essere
visto. Lì attese che arrivasse Vincenzo De Napoli con un cappotto per lui.
Dopo circa mezz'ora Gaetano cominciò a temere che Vincenzo potesse essere
stato fermato, poi gli sorse il dubbio che potesse aver fatto il suo nome. Cominciò
a riflettere su quante persone lo avevano veduto: certamente Salvatore Scarpello.
E chi altro? Se Salvatore era l'unico testimone, Luigi avrebbe pensato a farlo tacere,
con le buone o con le cattive, e in ogni caso la parola di Scarpello valeva meno
della sua. Poteva dire a sua discolpa che era stato assalito - la ferita alla fronte
era la prova - e si era difeso. Il resto era venuto di conseguenza: era adirato
per il fatto del viglietto alla sua druda, era avvinato, aveva perso la testa, insomma
passò in rassegna tutte le attenuanti, in caso fosse stato accusato del delitto.
Non escluse neppure che Francesco potesse essere ancora vivo. Per un attimo si illuse
che le profonde ferite che gli aveva inferto non fossero mortali. Pregò perché
questa sua speranza si trasformasse in grazia, e fece anche un voto: avrebbe acconsentito
al matrimonio con Fiorina, anzi l'avrebbe accompagnata all'altare lui stesso come
fosse la buonanima del padre Domenico. Ebbe tutto il tempo di pregare, sperare e
far voti: il tempo passava e Vincenzo ancora non si vedeva. Vincenzo attraversando
la cava delle spatere aveva raggiunto la casa di don Gaetano dal lato sottostante,
dov'era il trappito. Entrò
nella cantina: Catarineddra gli voltava le spalle. Salì rapidamente le scale
e bussò alla porta di donna Fiorina per chiederle un cappotto per don Gaetano
e dirle che si sarebbero rifugiati a Roggiano.
Donna Fiorina aprì, lo guardò un istante, portò la mano alla
bocca per non gridare e quindi lo tirò all'interno della stanza, chiudendo
la porta a chiave. Vincenzo l'afferrò per la vita, la strinse a sé
e la baciò. Fiorina notò alcune macchie di sangue e gli chiese cosa
fosse successo. Lui la mise rapidamente al corrente di tutto, mentre lei lo accarezzava
e manifestava ora stupore ora spavento, ora preoccupazione. Le disse che stavano
scappando dal paese, che don Gaetano era intirizzito dal freddo, che lui doveva
sbrigarsi a raggiungerlo. Fiorina continuava a baciarlo. «Ora non possiamo.
Avremo tutto il tempo.» Lei gli ricordò che diceva sempre così,
anche poche ore prima, quando lei si era chiusa nella stanza e lui l'aveva raggiunta
dalla cantina. Sarebbe stato mille volte meglio che li avessero scoperti assieme,
nudi, a letto, a fare l'amore, invece di vederlo fuggire chissà dove.
Nessuno avrebbe mai immaginato che Fiorina, nonostante la sua giovane età,
fosse così forte e decisa. E decisa lo era davvero, decisa a segnare il passaggio
da vergine a donna con l'uomo che voleva lei. «Don Ciccillo, don Luigi, don
… don … don, che possa loro suonare la campana a morto: tutti con
la boria di avere, di prendere e lasciare, come i suoi fratelli con le loro briffalde da strada.» ragionava
tra sé. Anche le donne, tutte sottomesse e disposte a farsi penetrare controvoglia
e in silenzio, magari col sorriso perché ai signori piacevano così,
spensierate, felici di prenderlo. Fiorina aveva deciso da tempo se e a chi consegnare
l'utero, senza i vincoli di convenienza imposti a salvaguardia del potere maschile.
La verginità? Il peccato originale della donna, la definiva. Decise che quella
era la notte della sua rivincita sugli uomini, ad iniziare dai suoi fratelli.
Aveva scelto l'uomo che riteneva migliore, né sognatore, né buon partito,
né sottoposto. Un bell'avanzo di galera, perché bello Vincenzo lo
era davvero. «Toccato dal diavolo» diceva Fiorina con le parole della
madre. Decise che avrebbe goduto 'ad libitum', senza remore, con quell'uomo, in
quella stanza, in quel momento. Prima aveva immaginato di consumare il suo rapporto
amoroso nella cantina, nella stalla, nel magazzino, ora invece volle sentirsi padrona
in tutto: di sé, della casa, del proprio corpo. E di lui. Si spogliò
lentamente, senza la frenesia del desiderio, di tutti gli abiti, mentre lui osservava
a disagio quanto la giovane donna gli centellinava: le braccia sui cui immaginò
di posare il capo, le spalle sulle quali avrebbe fatto scorrere entrambe le mani,
i seni piccoli con quegli occhi dilatati che incrociarono il suo sguardo, il ventre
mai impregnato di vita, i fianchi forti e ospitali, quella macchia nera del pube
su cui avrebbe tra poco posato le labbra, le gambe tornite dalla coscia alla caviglia
interrotte dal lieve increspamento delle ginocchia. Sollevò gli occhi per
guardarle il viso che non aveva mai potuto osservare a lungo: la fronte piccola,
gli occhi scuri con ciglia fitte e nere, il naso corto, diritto, e impertinente,
le labbra piene, atteggiate ad un sorriso che poteva essere di scherno o di compiacimento.
La vide uscire, un piede dopo l'altro, dal cono dei suoi vestiti, avvicinarsi, togliergli
il cappello dalle mani, posarlo sulla sedia e poi sedervisi di sopra, tenendogli
una mano. Fiorina cercò di cogliere l'espressione del viso di lui in quel
momento. Per chi lo ignorasse, il cappello e la coppola rappresentavano per l'uomo
d'onore ciò che oggi si chiamerebbe lo status symbol. Ciò che portavano
in testa briganti, camorristi e mariuoli era come la corona per i regnanti: guai
levargliela, toccarla, calpestarla o, peggio, sedersi di sopra come aveva fatto
lei. Vincenzo non mosse un solo muscolo del viso e, sorridendo a quella ragazzina
nuda e apparentemente indifesa che aveva di fronte, disse con quel tono di rispetto
e sottomissione dei manutengoli: «Donna Fiorina, il mio cappello quest'oggi
ha ricevuto un grandissimo onore!» «Ora mi mostri se sei sincero o soltanto
insolente!» rispose lei cominciando a spogliarlo di ogni indumento che aveva
indosso. Quando anch'egli fu nudo come lei, lo prese per mano e lo portò
con sé sul letto. Si sdraiò su un fianco e Vincenzo fece altrettanto.
Lui le accarezzò i capelli lasciandovi l'odore dell'olio, le passò
lentamente il pollice sul viso seguendone il profilo, scese più in basso
tra i seni, con la mano aperta quasi a voler misurare la distanza, la fece scivolare
sul ventre accarezzandole con l'indice i bordi dell'ombellico, infine si spinse
lentamente più giù fino a sfiorare col dorso della mano quell'incavo
che lo avrebbe accolto. Salì su di lei e lei lo abbracciò. Lui la
baciò sulla bocca, sul collo e sulla bocca nuovamente, sugli occhi, sulle
guance e nuovamente sulla bocca, mentre le accarezzava i capelli, le toccava i fianchi,
le sollevava la schiena attraendola verso di sé con violenza. Lei avvertì
la parte intima di lui che voleva entrare nella sua parte intima e aprì un
poco, ma appena un poco, le gambe perché lui potesse farlo. Non lo fece.
Si fermò mentre l'accarezzava e la baciava. Poi come in un andirivieni simile
ad una danza o una mosca cieca in cui il contatto ora c'è ora manca, fece
scivolare sempre più in profondità quell'arma giocosa fino al sopraggiungere
dell'umore che era l'invito ad entrare. Fiorina, allora, prese in mano quel gioco
e lo guidò al suo interno come e quanto volle. Lui, il delinquente, la lasciò
fare pensando di non sciupare quel momento che doveva essere il ricordo piacevole
della vita.
A guastarlo ci pensò donna Pasqualina che iniziò a bussare e chiamare
la figlia una, due, tre volte e poi ancora, ancora, ancora, mentre il corpo di Fiorina
sussultava sotto la violenza del rapporto che si stava consumando con la cadenza
di quei continui, molesti, dolorosi, incessanti richiami. Dopo l'ultimo sussulto
Vincenzo balzò giù dal letto e si vestì rapidamente. Prese
il cappotto di don Gaetano, il proprio cappello ammaccato, scavalcò il balcone
e saltò giù nella neve fresca. Fiorina stremata rispose: «Sì,
mamma.» e andò ad aprire la porta nel momento in cui Vincenzo usciva
per sempre dalla sua vita.
Donna Pasqualina ebbe l'amara sorpresa di trovarsi di fronte la propria figlia nuda
come l'aveva partorita diciassette anni prima.
34. La fuga di Gaetano Cristofaro e Vincenzo De Napoli a Roggiano
La lunga attesa di Gaetano finalmente terminò. Scorse nel vallone, mentre
appariva e scompariva tra gli ulivi imbiancati, la sagoma di un uomo che stava venendo
verso di lui. Lo chiamò a bassa voce e quello, appena fu ad un passo da don
Gaetano, gli chiese se don Francesco fosse realmente morto. «Sì»
rispose Gaetano indossando il cappotto «A meno di un miracolo!»
«Miracolo? Allora c'ha pensato vostro fratello canonico!» disse Vincenzo
scoppiando a ridere.
Nel buio, seguendo il riverbero della neve, corsero verso San Pietro, cadendo, rialzandosi,
imprecando e ferendosi le mani su rovi e pietre. Latrati, porte che si aprivano
e si richiudevano immediatamente, voci allarmate che intimavano di star lontani,
lumi sollevati e subito spenti per le minacce di morte, corse, salti e ruzzoloni,
arrivarono così alla Silica, la strada che portava ai Trivulisi. «Attraverseremo
il fiume con il carro di Vincenzo Vidiri.» suggerì Gaetano.
«No, a quell'altezza possiamo imbatterci in qualche branco di lupi. È
meglio dai Mezzomonaco!» disse Vincenzo al padrone.
«In ogni caso sbrighiamoci che quel merdo mi ha ferito alla testa!»
«Fatemi vedere, do' Ggata'.»
«Camina mo', camina!!»
Ciascuno dei due per attraversare il fiume aveva pensato ad amici diversi: al figlio
di un vecchio colono Gaetano, a due avanzi di galera Vincenzo.
Benché i campi fossero rischiarati dalla neve, il percorso risultava insidioso
e difficoltoso, per la presenza di quel manto bianco che occultava fossi e canali.
Vincenzo conosceva ogni piccolo particolare di quel cammino che in varie occasioni
aveva fatto per fuggire alla giustizia, per incontrarsi con una delle tante giovani
donne, o per dileguarsi al sopraggiungere dei mariti. La mezza litra di olio in
più che alcuni pensavano di aver lucrato sulla sua disattenzione era, invece,
la gratitudine del trappitaro alle fedifraghe. Era ben conosciuto da mariti, mogli
e anche da qualche suocera ancor giovane. Si teneva ben lontano dalle giovanette,
non perché avesse scrupolo alcuno, ma perché diceva che «potevano
strillare» come le oche e far accorrere gente. La galera gli pesava, soprattutto
per la mancanza di odori femminili che si mescolavano al profumo d'olio che aveva
perennemente addosso.
Impiegarono più di un'ora per raggiungere la casa di Mezzomonaco. Vincenzo
fece un fischio, simile ad un richiamo, e dopo alcuni minuti la porta si aprì.
Dall'interno senza luce una voce pronunciò il suo nome e chiese chi fosse
l'altro.
«Don Gatano.» rispose Vincenzo.
«Trasiti.» Solo allora si accese un lumino
ad olio che rischiarò debolmente l'unica stanza di quella casetta di frusta.
Forcone, falce e accetta erano tutti vicini, pronti ad essere usati come armi da
difesa, ma nessuno dei due uomini che abitavano in quel tugurio, manifestò
intenzioni ostili. Prima l'uno, poi l'altro abbracciarono Vincenzo e diedero il
buonovenuto a don Gaetano, accostandogli una delle due sedie che possedevano.
«Portani
a Rugianu, adduvi don Giuvanni.» fu la richiesta del trappitaro senza preamboli
né spiegazioni.
«Vestati e va piglia u carru!»
ordinò il più anziano all'altro.
«Solo per passare il fiume!» precisò Gaetano. «A Roggiano
ci arriviamo a piedi.» Ma i fratelli, portandosi una mano alla testa come
per togliersi in segno di rispetto un'inesistente coppola, insistettero per portarli
fino ai confini: «Servire a vussuria e a
don Vincenzo è un grandissimo onore!» Sentendo chiamare il suo domestico
con il don, Gaetano avrebbe voluto ridere, ma, sia per il fastidio che gli procurava
quella ferita alla testa e sia perché conosceva le regole non scritte di
quel genere di individui, si trattenne, desideroso di giungere il più presto
possibile a casa di don Giovanni Jemmoli.
Un quarto d'ora dopo erano al di là del fiume, diretti a Roggiano e dopo
un'altra ora sotto l'abitazione del sacerdote. Gaetano bussò più volte,
quindi chiamò a voce alta don Giovanni, dicendo di essere un amico di San
Marco. Appena la finestra si aprì, si fece riconoscere come don Gaetano Cristofaro
e di aver urgente bisogno di aiuto perché ferito alla testa. Il sacerdote,
nonostante l'ora, non si era ancora coricato e sentendo la voce dell'amico Cristofaro
di San Marco, e maggiormente che era ferito, andò sollecitamente ad aprirgli
la porta.
Lo fece entrare assieme all'altra persona che lo accompagnava, senza chiedere chi
fosse, né come Gaetano si fosse procurato la ferita alla testa. Distogliendo
per un istante lo sguardo da Gaetano e rivolgendolo verso il suo accompagnatore,
lo riconobbe. La presenza di Vincenzo De Napoli non era affatto rassicurante, anche
perché nei suoi spostamenti Gaetano usava muoversi da solo o con il giovane
domestico Giuseppe Quintieri.
«Saliamo un attimo, che vi spiego quel che mi è accaduto.» disse
Gaetano al sacerdote e mentre salivano la scala improvvisamente disse: «Ho
ucciso Ciccio Cristofaro, mio cugino!» Don Giovanni, che lo precedeva con
il lume, si voltò per guardarlo in viso e verificare di aver sentito bene.
«Ucciso?!» chiese incredulo. «Gaeta' che cosa stai dicendo?»
aggiunse nella speranza che il giovane volesse dire altro.
«Non volevo ucciderlo, mi ha provocato, mi ha ferito alla testa.»
«Potresti averlo solo ferito. Sei sicuro che sia morto?» chiese il prete.
«L'ho lasciato a terra con due stilettate. Di quelle che non perdonano.»
rispose Gaetano. «Don Giovanni dovete nasconderci fino a quando don Gaetano
si riprende.» intervenne Vincenzo.
Don Giovanni guardò Gaetano per avere una conferma alla richiesta del suo
accompagnatore. Il silenzio che seguì fu la conferma che entrambi chiedevano
ospitalità per sfuggire alla giustizia. «Un bel guaio, proprio ora
che …» prese tempo il sacerdote, preoccupato di rendersi reo di favoreggiamento.
«Che? …» chiese Gaetano aspettandosi una risposta che non arrivava.
Don Giovanni si ricordò che la sua torre - come erano chiamati i casali di
campagna - a Valle della fico, era disabitata e abbastanza isolata. Nel caso i due
fossero stati sorpresi nel suo podere, la sua parola di sacerdote valeva più
di quella di un omicida e del suo complice: avrebbe detto che vi erano penetrati
a sua insaputa.
Non si fece più alcuno scrupolo di offrire rifugio ai due ricercati e riprese
da dove si era interrotto: «Che Nicola, il mio torrese, non abita più
nella torre a valle della Fico …» «Volete dire che è disabitata?»
«Ecco, esattamente questo stavo pensando …» disse ben sapendo
quale sarebbe stata la risposta.
«Meglio ancora, don Giova'. Così nessuno saprà mai che ci avete
ospitato!» «Non era questo il problema …»
«Non posso chiedervi sacrifici impossibili. Solo un posto dove fermarci qualche
giorno.»
Don Giovanni tranquillizzato dalle parole dell'amico, dopo aver osservato la ferita
sulla testa gli disse: «Prima ti faccio medicare dal dottore Luigi Petrangelo
e poi ve ne andate alla torre. Lì starete al sicuro.»
Mandò a chiamare il medico, che giunse in meno di un quarto d'ora. Gaetano
giustificò la ferita dicendo di esser caduto sulla neve battendo la testa
su una pietra. Don Luigi fece la medicazione senza nulla chiedere. Meno sapeva,
meno avrebbe dovuto riferire al giudice che lo avrebbe interrogato. La luce era
scarsa, il sangue usciva copioso, il paziente era in evidente stato di agitazione,
senz'altro avvinato, furono le discolpe che formulò nella sua testa mentre
fasciava quella di Gaetano.
«Ora vi faccio accompagnare alla torre da 'Ntonio.» disse il sacerdote
quando il medico fu uscito.
«Non vi incomodate. Conosco bene la strada e dov'è la terra di Vussuria.»
disse Vincenzo, aiutando don Gaetano ad alzarsi.
35. Caviallavita e il rifugio alla torre di Jemmoli
Uscirono e si incamminarono per alcuni metri alla luce del lume che il padrone di
casa tenne sollevato per breve tempo. Quando chiuse la porta, Gaetano e Vincenzo
rimasero al buio. All'angolo della casa, a pochi passi da loro, la sagoma scura
di un individuo e del suo cavallo, fecero sospettare entrambi che don Giovanni o
il medico li avesse traditi. Vincenzo tentò di farsi avanti, come a impedire
l'arresto del suo padrone, ma Don Gaetano lo fermò trattenendolo per un braccio,
poi in silenzio scrutò la figura immobile dinanzi a lui.
La corporatura, l'altezza, quella particolare foggia del cappotto, l'immobilità
innaturale dello sconosciuto, dovettero produrre nella mente di don Gaetano il ricordo
di qualcuno o qualcosa a lui familiare.
Con una certa esitazione si rivolse all'uomo che era avanzato di qualche passo:
«Signore …»
«Sì …» disse l'altro, come in attesa di una domanda. E
don Gaetano a voce bassa proseguì: «Ch'avia
alla vita?» Vincenzo, accostando la bocca all'orecchio del padrone
rispose con un filo di voce che non riusciva a vedere. «Non
ci affittuisciu, è troppo scuru!» gli disse «Forse
è nu revorveru!» riferendosi all'oggetto
che spuntava da sotto il cappotto.
Gaetano gli strinse un braccio per farlo zittire, continuando a stare immobile e
muto dinanzi a quella sagoma scura. Al che il servitore temette che la ferita alla
testa avesse provocato a don Gaetano qualche accidente da non farlo più ragionare,
ma il suo assillo fu improvvisamente interrotto dalle parole dello sconosciuto:
«Sì, Cristiano.» Subito dopo l'individuo si avvicinò a
don Gaetano, gli pose una mano sulla spalla e dopo averlo guardato negli occhi disse:
«Don Francesco è morto.»
A Vincenzo parve di riconoscere in quella voce l'inflessione tipica dei
ghiegghi. Il nuovo venuto, cappotto con pelliccia sul bavero, una calda
coppola calata fino alle orecchie, poteva essere uno sbirro, di quelli che comandano,
che stava arrestando don Gaetano. Vincenzo diffidava sempre delle persone che non
conosceva e per le esperienze passate era portato a catalogarle tra gli sbirri o
tra le spie, a seconda dell'abito che indossavano; neppure i religiosi erano esenti
dal sospetto, memore delle confessioni ricevute in carcere da tanti falsi preti.
Il bastone che l'uomo teneva nella mano inguantata non era animato, ma Vincenzo,
diffidente com'era, tenne gli occhi su quel potenziale pericolo. E che cosa avesse
alla vita non si vedeva bene. Dalle sue osservazioni dedusse che si trattava di
un fermo di polizia riservato ai galantuomini. «Minchia …» pensò
ricordando i trattamenti di favore riservati ai signori. «Lupu nun mangia
lupu!»
Lentamente fece scivolare a terra il grosso bastone col quale aveva colpito don
Francesco Cristofaro e attese, impotente, che lo sbirro facesse il suo dovere.
Rapidamente passò in rassegna tutti i pretesti che avrebbe usato per giustificare
la sua presenza in quel luogo, con un assassino: l'incontro fortuito andava bene,
il dovere di servitore meno, meglio dire che lo aveva accompagnato dal medico. A
oltre sei miglia di distanza? No, forse perché costretto …
Nel mentre era alla ricerca di un pretesto, udì don Gaetano rivolgersi al
ghiegghio con tono confidenziale chiamandolo «Caro cugino», e l'altro
rispondere allo stesso modo. «Caro cugino.»
Vincenzo capì di essersi sbagliato, anche sulla questione del lupo. Raccattando
il bastone che aveva lasciato cadere, con rammarico dovette ammettere a se stesso
di non aver azzeccato l'identità dello sconosciuto. Per quanto non avesse
dimestichezza con le faccende della politica, dalla quale si era sempre tenuto prudentemente
lontano, l'appellativo di cugini li catalogava entrambi tra i
gravunari o cuntracuviernu.
Vincenzo, nel suo peregrinare fra tribunali e carceri ne aveva conosciuti alcuni,
tutti a suo dire «delinquenti per sfizio».
Ad ogni modo, rincuorato, anzi contento, di non essere finito in mano alla giustizia
sollecitò i due «cugini» a prendere rapidamente la via della
torre. «Muoviamoci, a star fermi non ci fa bene.»
Per tutto il tragitto, circa un terzo di miglio, le uniche parole che sentì
furono: «Bene, sì, fatto, domani» e qualche altra che non ricordava
o non aveva compreso. I due parlavano con frasi apparentemente senza significato,
o di circostanza, e ogni risposta era un sì, un no, oppure un probabile assenso
con il capo che Vincenzo non poteva vedere. La voce dello sconosciuto, a tratti,
gli sembrava familiare, come se l'avesse già udita, ma non riusciva a ricordare
né dove né quando. «I ghiegghi
parlano tutti allo stesso modo» pensò, mentre il tarlo del dubbio continuò
ad assillarlo per tutto il cammino.
Finalmente giunsero in un ficheto e subito dopo ad una costruzione in pietra su
due piani. Salirono la scala esterna, Vincenzo allungò la mano in un buco di naita, ne estrasse una chiave con cui
aprì la porta.
Entrati nella stanza, arredata con pochi mobili funzionali ad una breve permanenza,
compresi alcuni letti distribuiti in punti diversi, Vincenzo accese due lumini ad
olio, ponendoli uno sulla spuntonera e l'altro sul tavolo al centro della stanza.
«Accomodatevi, signore.» disse Gaetano indicando la sedia all'ospite
che continuava a trattare con riguardo. «Chini cazzu è?» si chiese
tra sé Vincenzo, ma abituato a farsi i cazzi suoi si diede da fare per accendere
il fuoco. «No, lascia stare, il fumo potrebbe richiamare qualcuno.»
lo fermò Gaetano. «Staremo qui per poco, verranno a prenderci.»
Abituato a non far domande, Vincenzo emise un suono di assenso senza aprire la bocca,
ma per il proprio bene diede ugualmente il suo parere di esperto forabannito.
«Sarebbe meglio che vi asciugaste, con questi panni bagnati e la ferita, potreste
ammalarvi.» disse togliendosi dalle spalle il cappotto. «La legna è
ben secca e non farà fumo.» aggiunse per tranquillizzare il padrone.
Bastarono alcuni minuti perché le frasche di olivo prendessero fuoco. Don
Gaetano andò a chiudere per bene gli sportelli delle finestre affinché
non si scorgesse alcun chiarore all'esterno e quindi si tolse anch'egli il cappotto,
la giacca bagnata e la coppola. Armeggiò con alcune canne per sistemare i
suoi abiti vicini al fuoco. Lo stesso fece Vincenzo, ma con maggiore abilità.
Si coprirono con due coperte e si misero accanto al fuoco. Lo sconosciuto seduto
poco distante si accese una pipetta.
«Buon tabacco. Svizzero?» chiese Gaetano. «No, turco. Ne vuole
un po' ?» rispose l'altro allungando il contenitore verso di lui. Gaetano
emise un suono che voleva essere un no.
«Di duvi cazzu vena?» si chiedeva
Vincenzo immemore di farsi i fatti suoi. Per quel modo particolare di parlare poteva
anche essere straniero, napoletano no di certo che quella lingua l'aveva sentita
da vari camorristi. Forse veniva da Roma o più oltre, e di tabacco svizzero
o turco non ne aveva mai annusato, ma doveva essere il tabacco dei signori, quello
che nel putighino di don Giacomo Greco compravano La Regina e qualche altro.
Il profumo di quel tabacco aveva invaso la stanza e forse un atteggiamento involontario
di Vincenzo spinse quell'uomo elegante e distaccato a offrirgliene anche a lui.
«Fumi?» gli chiese. «Avendone!» rispose il trappitaro.
«Tieni!» disse l'altro porgendogli l'intera scatola.
Vincenzo senza cerimonie prese la scatola, ne estrasse un po' di tabacco, lo annusò,
chiudendo gli occhi ed emettendo un suono di appagamento. Quindi cercò tra
le frasche una foglia adatta a contenere quella pizzicata e ve la avvolse.
Lo sconosciuto scoppiò a ridere ma immediatamente chiese venia per esser
sembrato irriverente di fronte a quel gesto così spontaneo e antico. Sì,
disse «antico», e Vincenzo poco avvezzo a derisioni, cerimonie e scaramucce
verbali sembrò per un istante indeciso se continuare ad arrotolare il suo
fumo o se gettare tutto alle fiamme.
Gaetano, che conosceva bene la sua suscettibilità, intervenne in tempo: «Vince',
il signore viene da lontano dove non si fuma il tabacco avvolto nelle foglie.?»
«E daddove viene il signore?» fu la replica di Vincenzo a metà
tra curiosità e sarcasmo.
«Svizzera.» rispose l'uomo, aprendo la borsa che aveva ai piedi ed estraendone
un foglio piegato. «Questo è il mio salvacondotto.»
«E dov'è Svizzera? Dopo Roma?» chiese Vincenzo, curioso di sapere
da quale città provenisse quell'individuo, senz'altro ricco a giudicare dai
vestiti e dalla borsa.
Don Gaetano spiegò a Vincenzo che la Svizzera era un terra «ddruoccu
a pinninu», situata cioè molto lontano per raggiunger la
quale erano necessari molti giorni di cavalcatura. «E che ci fate qui?»
si lasciò scappare Vincenzo aggiungendo subito: «Scusate, volevo solo
dire che qui al di fuori dei francesi che mi raccontava mio padre, non avevo mai
…»
«Perché la Calabria è una terra antica» lo interruppe
il forestiero «e io gradisco tutto ciò che è antico, compreso
il vostro modo di fumare.»
A queste parole la rudezza di Vincenzo si stemperò e con un'alzata di spalle
concluse: «In carcere si fuma così!» fiero di aver detto al mezzo
sbirro di essere un galiuoto. «Lo so, li ho visti spesso anche nelle prigioni
di Roma.» disse conciliante il signore e poi, deciso a soddisfare immediatamente
ogni curiosità del giovane delinquente che aveva dinanzi, si sporse dalla
sedia e con fare misterioso sussurrò: «Ero ufficiale delle guardie
svizzere di sua Santità il Papa.»
«Sputa c'addumina!»
disse il trappitaro, compiaciuto con se stesso per
aver indovinato fin dall'inizio il mestiere dello sconosciuto.
Gaetano aveva ascoltato il colloquio senza più intervenire, consapevole che
quell'uomo sbucato così all'improvviso da casa Jemmoli, lontano dalla sua
patria, avvezzo a pericoli e con alle spalle una storia così misteriosa,
sapesse ben tener testa ad uno sprovveduto come Vincenzo. E come se i suoi pensieri
si fossero materializzati ecco apparire bene in vista il fodero di cuoio attaccato
alla cintura del forestiero e un sorriso che ostentava sicurezza.
Vincenzo e Gaetano, avvolti in una coperta, ancora bagnati, il secondo con la testa
fasciata, entrambi in fuga e braccati per l'omicidio di don Francesco Cristofaro,
apparivano in tutta la loro meschina inferiorità di fronte a quell'uomo libero
di agire, di parlare, di muoversi. «Vussuria,
non mi avete mai detto il vostro nome. Neppure quando …» osò
dire Gaetano confortato dalle confidenze che il forestiero aveva sin lì fatto,
ma senza rivelare in quale altra occasione i due si erano visti. Il forestiero rise
e con affettazione chiese di essere scusato, che proprio se ne era dimenticato.
Poi con lo stesso tono aggiunse che gli piaceva tanto la Calabria che aveva scelto
di chiamarsi con un nome calabrese.
Gaetano lo guardò con curiosità in attesa di sentirgli pronunciare,
il nome ma dalla bocca dell'uomo uscì la domanda che Gaetano gli aveva posto
al primo incontro: «Ch'avia alla vita.» senza più avere il suono
di un'interrogazione.
«Ma è la domanda che vi ho fatto per scanagliarvi …» balbettò
confuso Gaetano.
«Kennwort!»
«Ah, si chiama Chenvòte?»
«No, Caviallavita!»
Gaetano si mise a ridere: «C'avia alla vita lo diciamo noi in Calabria per
significare 'Che cosa aveva alla vita, alla cintura'»
«Capisco benissimo il vostro dialetto, ma io mi chiamo proprio Caviallavita!
E di nome Cristiano!»
«Ma cristiano è la parola d'ordi..» disse Gaetano, interrompendosi,
in dubbio se l'uomo lo stesse prendendo in giro o peggio che non fosse lui la persona
che doveva incontrare. «Bene, vista la sua incredulità le farò
vedere immediatamente il mio salvacondotto.» Nel dire queste parole estrasse
dalla borsa un astuccio in legno, ne tirò fuori una penna a serbatoio. Quindi
aprì il salvacondotto su cui apparivano ben evidenti in basso visti e timbri,
e in bella grafia nella parte bianca superiore scrisse: «Cristiano Caviallavita
di Giovanni, di anni 38, civile, nato e dom.to in Richtberg nel Cantone Svizzero
dei Grigioni, celibe.»
«Ecco fatto! Visto?» disse sventolando ancor fresco d'inchiostro il
documento appena prodotto, davanti il naso dell'incredulo don Gaetano, che replicò:
«Ma … ma è falso!»
«Certamente» rispose quello alzandosi in piedi e mostrando il fodero
della pistola bene in vista sotto il pastrano aperto. «Vuole che un agente
segreto vada in giro con il suo vero nome?» disse accompagnando la spiegazione
con una risata. Poi, a completamento della sua irrisione alla legge, aggiunse: «Voi
come direste, nella vostra lingua …» mostrando la fondina del revolver
appeso in vita. «Ch'avia alla vita.» disse pronunciando l'espressione
meglio di un calabrese. «Avia nu rivorveru!
Ahh, ahh, ahh.» rispose a se stesso, concludendo la celia con una nuova risata.
Vincenzo pensò che per quanti delinquenti avesse incontrato nella sua vita
questo doveva essere il peggiore, perché poteva fabbricarsi i documenti da
solo, finanche la sua fede di perquisizione.
«U vero sbirru!» concluse tra sé, sbagliando e dimenticando l'altra
categoria di persone di cui non fidarsi.
Il colloquio tra Gaetano e Cristiano, o altri che fosse, continuò senza la
presenza di Vincenzo, che fu mandato a riposare nel catoio.
Che cosa si dissero non lo confessarono neppure dopo l'arresto, che avverrà
in momenti e circostanze diverse. Prima dell'alba Cristiano se n'era già
andato, diretto verso Spezzano.
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