LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti
Sostare con il mouse su parole dialettali, straniere o antiche
16. Giuseppe Quintieri scopre che don Gaetano è uscito armato e lo riferisce
a donna Fiorina
Giuseppe rimasto a casa per rimettere ordine nella cantina vagava da un punto ad
un altro senza concludere nulla: prese una brocca, la spostò di qualche metro
deponendola nel posto sbagliato, altrettanto fece con gli avanzi della porchetta,
con due garrafoni vuoti e con quanto gli capitò sottomano. Ruppe un bicchiere,
versò a terra il contenuto di un piatto, finché Catarineddra, stufa
di dover fare il doppio del lavoro per colpa sua, lo prese per mano e lo trascinò
in un angolo. «Sei completamente 'mbriaco!»
gli disse con tono severo. Quindi gli intimò «Statti qua, e non ti
muovere, che fai più danno che bene!»
Gli occhi di Giuseppe si posavano ora su questo ora su quell'oggetto, e più
spesso sul petto di Catarineddra. Fu assalito da una delle sue inguaribili fantasie,
non quella di volare, bensì un'altra più terrena: insidiare Catarineddra.
Le pensò tutte, di saltarle addosso alle spalle, mentre era chinata, di mettersi
davanti a lei e abbassarsi la brachetta,
di baciarla con la scusa di aver scorto un ragno sui capelli. Poi, come gli animali
che fan la ruota o il volo o altro corteggiamento per attirar le femmine, decise
che doveva dimostrarle il suo grande coraggio, come quello di Tata Vincenzo, che
aveva sul braccio un bastone e un serpente. Le avrebbe fatto vedere come tirava
di coltello, con destrezze, affondi e finte, come un vero delinquente. Si avvolse
la giacca intorno ad un braccio e si mise a cercare lo stocco, di solito appoggiato
ad una sedia o sulla sella, all'angolo della stanza. Non trovandolo al solito posto
lo cercò nell'altro magazzino, all'esterno, lungo le scale. Inutilmente.
Rientrando nella cantina deluso per non aver potuto dar prova della sua abilità
e del suo coraggio, si ricordò che don Gaetano l'aveva in mano quando fece
il brindisi degli 'stintini' di don Francesco, e
mentre saliva le scale. Lo disse a Catarineddra. «Doggatano è uscito
con il bastone col ferro dentro …» Lei si fermò un istante per
guardarlo e capire il significato di quanto diceva. «Eh
bbè? Chi adda succedi?» gli chiese. «Succede che gli
fa esci i 'stintini 'i fora a don Francesco.»
rispose Giuseppe. «Se è per donna Fiorina, don Francesco campa cent'anni.»
«Che vuoi di-dire.»
«Che l'altra volta ho parlato con Saveria, Saveria Carrozzino.»
«E al-al-allora?»
«Donna Aurelia ci ha mandato a dire a donna Fiorina che il matrimonio con
don Francesco se lo poteva sonnare, che mai, manco
se la pregava con le pietre in petto, l'avrebbe accossentito che suo figlio se la
sposava.»
«Am … am-macardio …»
sospirò il ragazzo.
Rincuorato dalla notizia che tra donna Fiorina e don Francesco non ci fosse possibilità
di matrimonio, disse a Catarineddra: «Però è meglio che vado
…»
«Ne hai malignitudine in quelle corna!»
lo interruppe lei sapendo ciò da lì a poco le avrebbe detto.
«Vado ad av-avvisare a don-donna Fio-Fio-Fiorina.»
«Lo sapevo!» disse la donna, richiamandolo ai suoi obblighi di domestico.
«Vedi di aiutarmi, invece!»
Giuseppe si fermò al secondo gradino, si voltò verso di lei, e ripeté
paro paro ciò che aveva visto fare a Vincenzo, suo tata anche di malacreanza.
Si sistemò i calzoni e il loro contenuto sul davanti, tirò su col
naso, sollevò un sopracciglio e le disse con il tono di chi aveva trascorso
metà dei suoi diciassette anni in galera: «A-A-Ar-ricordati chi sono!»
Catarineddra, fingendo paura, stette al gioco. «Madonna,
cchi faccia 'i galiuotu!» disse guardando quel viso di bambino
arcigno. Poi, ridendo, continuò a rassettare il locale: «Pur'i
pulici tenanu a tussa.»
Giuseppe bussò alla porta di donna Fiorina, con lo sguardo abbassato, facendo
uno sforzo per non pensare alla sua lingua, ai
goffi, al seno. Decise che quando lei sarebbe apparsa sulla porta lui
avrebbe guardato da un'altra parte. Bussò nuovamente, resistendo alla tentazione
di spiare attraverso la serratura. Accostò un orecchio alla porta. «Forse
sta dormendo» pensò. In quel mentre udì girare la chiave nella
serratura e vide la porta aprirsi di poco: in quello spiraglio apparve il viso di
donna Fiorina, con le guance arrossate e i capelli scomposti. Giuseppe tenendo fede
alla sua promessa sollevò di scatto lo sguardo sopra la testa di lei. «Brutte
cose, donna Fio-Fio-Fiorì,» disse a voce bassa per non farsi sentire
da donna Pasqualina «Vo-vo-vostro fratello è uscito a-a-armato col
bastone. E don Luigi è anche armato che c'ha-c'ha lo stile che porta sempre
in tasca.»
Forse per l'ubriachezza o chissà per quale strano fenomeno, riuscì
a non balbettare e a non farsi capire. Fiorina aprì un po' di più
l'anta che le nascondeva il corpo, sporse la testa come a voler sentire meglio e
fu allora che Giuseppe, nel tentativo di non guardarla, scorse la camicetta aperta
sul davanti. Girò immediatamente gli occhi fissando un punto imprecisato
tra il volto di lei e la porta socchiusa e balbettò parole incomprensibili.
La giovane pensò che l'attenzione di Peppinello fosse stata attratta da qualcosa
che aveva notato nella stanza, e si girò per capire che cosa il giovane avesse
potuto vedere. Per la seconda volta Giuseppe venne meno al suo giuramento: riuscì
a vederla mentre lei cercava di coprire con una mano l'attaccatura del collo e il
petto. Bastò questo per immaginare che fosse nuda, e per poco non svenne,
anzi pensò addirittura di morire, quando Fiorina guardandolo negli occhi,
tolse la mano dal collo l'appoggiò alla porta e si accostò alla sua
bocca per sentire se avesse bevuto.
«Ma sei ubriaco!» gli disse ritraendosi.
«Sìììì» rispose Giuseppe quasi in deliquio
«ub-briacoo.» ed ebbe la sensazione che il corpo si stesse sollevando,
forse di pochi centimetri. Sì, questa volta si stava sollevando davvero e
stava perdendo peso. La tremba, il burrone, si avvicinava,
lui girava lentamente, si avvolgeva su se stesso, saliva, poi scendeva, mentre lei
lo chiamava dal balcone: «Peppinuzzu, Peppinuzzu, Peppinuzzu.»
Aprì gli occhi, la vide inginocchiata accanto a lui, steso a terra. Chiuse
gli occhi e protese le labbra. Voci diverse, passi vicini, passi lontani, e infine
la neve, la neve fredda sul viso. Era caduto, pensò, dalla
tremba sulla neve, e non si era fatto male. Quella sensazione di freddo
sul viso era piacevole. Riaprì gli occhi. Erano in piedi intorno a lui donna
Pasqualina e i figli don Vincenzo e donna Fiorina. Tutti parevano altissimi e i
loro visi piccoli e lontani.
«È ubriaco.» disse don Vincenzo. Poi scuotendolo: «Che
ci facevi davanti la porta di donna Fiorina?» «Do-do-dogga-gatanoo e
… Do-dodo-lui-luiggi … le armiii …»
Peppinello parlava con suoni sbiascicati, tenendo gli occhi chiusi. Poi, senza più
balbettare, con la voce che si andava spegnendo pel sonno, aggiunse: «Ora
li raggiungo, me le faccio dare e ve le porto, don Vincé.»
Don Vincenzo lo sollevò. «Peppinù, sì
'mbriacu! forse ti sei bevuto un garrafone
intero di vino!» gli disse con tono severo e paterno, mettendolo a sedere
sul pavimento. «Don Gaetano non prenderebbe mai l'arma di suo fratello maggiore
senza permesso.»
Don Vincenzo, ben sapendo che i fratelli uscivano sempre con armi addosso, per non
allarmare la madre finse di tenerle custodite in un posto sicuro: «Solo io
so dove sono le armi. E tu hai fatto spagnare inutilmente
mia madre, mia sorella e Catarineddra.»
Giuseppe, gli occhi ancora inebetiti e lo sguardo spento, pensava alla camicetta
aperta di donna Fiorina: chiuse gli occhi per rivivere quel momento e quando li
riaprì, incrociò lo sguardo freddo e severo di donna Pasqualina. Li
richiuse immediatamente mentre lei gli diceva: «Mo' ti lavi la faccia, ti
metti gli stivali di don Giuseppe bonanima, vai in cerca di don Gaetano e lo aiuti
a tornare e a mettersi a letto.» Quindi ordinò a Catarineddra di rimettere
in piedi quel cifariello, piccolo diavolo.
«Non sono Cifaro» rispose con voce infantile
Giuseppe «sono un angelo.»
E mentre veniva aiutato a sollevarsi in piedi aggiunse: «Ci-ci-cifaro
non sapeva volare.»
«Ti meriteresti una vittichiata.» disse
Catarineddra, sostenendolo per un braccio fino in cucina. Gli mise un bacile con
acqua e neve sotto il muso e gli disse con apparente asprezza: «Risbigliati
e va' sconta a don Gaetano!»
17. Gaetano Papa va a vuotare il vaso immondo
Le orme sulla neve, alcune fresche altre già in parte ricoperte, indicavano
che vi erano transitate più persone. Una aveva lasciato il seminario e i
suoi passi, nella piazza di sopra, si confondevano con quelli di altre persone provenienti
dalla Portavecchia. La prima aveva lasciato un tracciato regolare, le altre impronte
erano confuse tra loro come se la comitiva si fosse mossa saltando, barcollando
o scivolando sulla neve. Altre impronte ordinate si congiungevano a queste davanti
il varco tra casa Candela e casa Conte, provenienti da sotto le monache, ma poi
le stesse tornavano indietro come se la persona che aveva percorso il vico delle
signore sore si fosse pentito o, avendo dimenticato qualcosa, fosse rientrata in
casa.
Nella piazza di basso le orme erano ancor più confuse: ce n'erano che giravano
in circolo, altre molto profonde e accostate, come originate da salti a piedi uniti.
Inconfondibile in mezzo a tutti quei segnali di sgraziati passaggi, l'orma profonda
e stretta di un bastone.
Sulla destra della piazza le stesse impronte che provenivano dal seminario, allineate
e regolari, si distinguevano nuovamente dalle altre e piegavano a destra, verso
i sottostanti quartieri di Santo Petruzzo e del Puzzillo, fermandosi dinanzi la
porta di don Pasquale Candela.
Qualche luce fioca tra lo spiraglio di uno sportello e il vetro della finestra,
qualche altra nelle poche botteghe ancora aperte nella piazza di basso erano il
segno di vite che si apprestavano a chiudere la giornata e ad immergersi nell'incognito
della notte. O nel piacere di un letto caldo, accanto a carni ancor più desiderose
di tepore altrui, o nel piacere di una lettura che poteva conciliare il sonno e
favorire i sogni. Qualcuno, più anziano, era da qualche ora a letto, altri,
i più poveri, erano rimasti coricati l'uno accanto all'altro, promiscuamente,
fin dalla notte precedente per sopravvivere al digiuno e al freddo. Alcuni, infine,
provvedevano alle ultime cure per sé, per la casa, per gli animali.
Gaetano Papa, chiamato Nino, stava facendo ciò che tutte le persone, ricche
o povere che siano, fanno quotidianamente o ad intervalli più lunghi. Non
sapeva che questa sua azione lo avrebbe fatto diventare la prima vittima di un piccolo
branco di umani. Stava cacando.
Con l'aria più naturale di questo mondo e con il vigore dei suoi diciannove
anni, isolato dagli altri membri della famiglia da una parete in mattoni tirata
su in occasione del matrimonio del fratello, il giovane era seduto sull'alto candaro nel quale per consuetudine e rispetto dei
ruoli avevano defecato prima il germano maggiore e poi la giovane cognata.
Gaetano essendo scapolo e più giovane aveva l'incarico di provvedere al compito
umile, ma essenziale, di andare vuotare il vaso immondo. Lo faceva volentieri per
due ordini di motivi. Il primo era …
Vorrei tacere di questo aspetto così intimo, sia per rispetto verso un giovane
dabbene, che verso i lettori, i quali scorgerebbero chissà quali perversioni,
deviando dal seguito del racconto. Per evitare ciò dirò semplicemente
che in quegli anni gli appetiti sessuali erano soddisfatti in tanti modi, non tutti
canonici, ma il più delle volte dettati dalle occasioni più impensate.
Ad esempio talune gambe dei tavoli erano tornite in maniera da suggerire un parallelo
con le gambe umane, tanto che nelle famiglie ricche -le uniche a possedere tali
tavoli- la presenza di giovanette, sacerdoti, monsignori e giovani in calore, consigliavano
di ricoprire prudentemente i tavoli con ampie e lunghe tovaglie atte a occultare
possibili fonti di tentazione. Oltre a ciò gli indumenti intimi dell'uno
e dell'altro sesso erano tenuti separati, lavati e stirati con molta discrezione.
Quanto avvenisse poi all'interno di questi indumenti era questione che apparteneva
solo ai legittimi proprietari.
Bene, ritornando a casa Papa e al motivo per il quale Gaetano adempiva volentieri
al compito di svuotare il candaro, esso era dovuto alla sua giovane età e
alle esuberanze notturne degli sposi. La carnalità della cognata, ancora
calda per l'amplesso, lasciava sul bordo del vaso quel calore che Gaetano si affrettava
a trasferire piacevolmente sul suo corpo sedendosi subito dopo che lei era uscita
dalla ritirata. Oggi un tale atto sarebbe catalogato tra le perversioni sessuali
con il nome di feticismo, ma allora nessuno ne era a conoscenza e, come suol dirsi,
si faceva di necessità virtù, nel senso che lo sposo si liberava del
suo peso prima di coricarsi, la sposa lo faceva dopo e Gaetano per ultimo, con piacere
e soddisfazione di tutti.
L'altro ordine di motivi che spingeva Nino a questo adempimento derivava dal benessere
di questa famiglia di onesti muratori che, grazie ai loro guadagni potevano permettersi
cibi di buona qualità e in abbondanza, i cui residui esalavano maggior fetore
rispetto a quelli della povera gente, il cui corpo per sopravvivere estraeva il
massimo possibile dal già misero bolo e ne espelleva un residuo insignificante
e senza odore.
Bene, credo che qui basti la doverosa precisazione sui piaceri e sulle abitudini
di Gaetanino. Essa ci aiuterà a capire perché egli si comportò
come vedremo in seguito e a scoprire da dove nascesse il suo inconscio bisogno di
sottacere o nascondere la verità, che lo portò a riflettere rinchiuso
in un angusto e fetido locale della torre. Ma questa è storia che vedremo.
La modesta casa dei fratelli Papa, costruita a regola d'arte, con un'elegante loggetta
al piano superiore, era proprio sotto il palazzo Valentoni e la confraternita dell'Immacolata
o di San Giovanni. Un breve percorso in salita portava dalla casa verso la piazza
e da qui passando sotto l'arco della Giudeca si raggiungevano gli orti del Puzzillo
e il vallone delle cave, dove si svuotavano i vasi immondi. Chi abitava nei quartieri
più in basso andava a vuotarli alla Motta o alla Vardara.
Come ogni sera, nonostante avesse nevicato, Gaetanino prese per i due manici il
contenitore di maiolica, chiuso con un solido coperchio di legno e si avviò
verso gli orti.
Nel buio, guidato dal chiarore della neve, scorse le sagome di coloro che avrebbero
dato luogo con le loro ribalderie alla sua sventurata esperienza. Gli sembrarono
cinque o sei individui, certamente ubriachi per l'agire e il dire:
maleparole e canti sguaiati. Erano galantuomini, perché nessun
altro avrebbe osato passare vicino il corpo di guardia gridando a quel modo. Si
fermò aspettando che proseguissero verso la piazza, poi dopo alcuni minuti
ricominciò a salire. Giunto in cima, sulla strada che si innesta alla piazza,
mentre si apprestava a infilarsi nel varco tra De Ambrosiis e La Regina, fu visto
da qualcuno di quegli scalmanati che richiamò l'attenzione degli altri. Sentì
gridare: «Ohi merdaru, va ietta u candaru alla
porta du notaru!» con il seguito di grasse risate.
Gaetanino Papa intuì che non solo il vino, ma soprattutto il disprezzo verso
tutto e tutti agitava quegli uomini. Ritenne che fosse meglio rientrare, senza farsi
vedere, altrimenti avrebbero potuto seguirlo fin dentro casa e bastonarlo come spesso
capitava agli onesti lavoratori per mano di signori per ira o noia.
Corse nella neve con il candaro stretto tra le
braccia e il mento poggiato sul coperchio. Sentì urla e risate dietro di
sé: ancora pochi passi e sarebbe scomparso alla loro vista. Non fu così.
Cadde e il contenuto del vaso si riversò sulla neve, mentre il corpo vi scivolava
di sopra. Riuscì, reggendo il vaso vuoto per uno dei manici, a sollevarsi
e a sparire dietro l'angolo della casa, dove era certo di non essere inseguito.
Attese alcuni minuti finché le voci si allontanarono, dopodichè ritornò
indietro e si infilò nel portone di casa. Lordo, puzzolente e schiumante
di rabbia «'Nculu a chi v'è
stramorto!!» imprecò tra sé all'indirizzo dei maledetti.
Risalì in camera, si lavò e si cambiò, dicendo alla cognata
e al fratello che era scivolato e che sarebbe andato a recuperare il candaro.
Ridiscese in strada, mise in uno straccio le merde che poté raccogliere,
deciso a vendicarsi. Rasentando i muri e tenendosi in ombra, fece il giro per il
quartiere Sir Andreace e poi risalì pel vicolo tra i palazzi dei baroni Selvaggi
e dei signori Ruffo. Si appostò in un angolo della piazza deciso a riempire
di merda quegli scellerati fermi sotto casa Cristofaro. E attese pazientemente che
tornassero indietro.
Accadde qualcosa che lo costrinse a cambiare idea. Coloro che lo avevano ingiuriato
e inseguito si erano disposti nella piazza in un modo davvero insolito, come dei
briganti in agguato.
18. Don Nicola Bova sente cantare
Sotto la piazza, nella casa del tesoriere della cattedrale, la luce era accesa,
segno che don Nicola Bova stava leggendo come al suo solito seduto al braciere.
L'inverno era diventato per lui un terribile nemico, e quell'anno in particolare
si annunciava più freddo e umido. Preferiva non uscire per non aggravare
una fibrosi alla mano destra che lo faceva soffrire oltre ogni dire. Pensava con
terrore all'impossibilità di poter un giorno sfogliare un libro. Il dottor
Luigi Sarpi aveva sentenziato che la diatesi
col tempo si sarebbe aggravata e, per alleviare il dolore, gli aveva consigliato
di mettere un guanto di lana nei giorni freddi. Al guanto don Nicola aveva tagliato
la parte che copriva l'ultima falange del dito indice, così da poterla inumidire
con la lingua per voltare le pagine dei libri che leggeva quotidianamente. Quella
sera, dopo che Rafele Madorno, il domestico, se n'era andato a dormire, si era seduto
sulla sua vecchia poltrona ben coperto dalla testa ai piedi: due paia di
quazietti di lana, le tappine chiuse, il
coppolino da notte calato sulla fronte e sulle orecchie, la sciarpa intorno al collo,
lo scialle sulle spalle ed una coperta sulle ginocchia. Era in un'età in
cui la presenza di altri diventava fastidiosa, perché gli impediva di stare
a proprio agio e principalmente di fare ciò che più amava: rileggere
testi latini e greci ai quali in gioventù aveva dedicato ben poco tempo.
Quella sera stava leggendo un libro su cui da giorni aveva rivolto la sua attenzione,
il Deuteronomium, per una rivincita a posteriori nei confronti della buonanima di
monsignor Marsico. Il vescovo, nel nominare rettore e maestri del nuovo seminario,
aveva giudicato più avanzati in lettere e scienze giovani boriosi e senza
esperienza alcuna, lasciando scontenti molti chierici più anziani, tra i
quali lo stesso don Nicola. In particolare la sfida era rivolta al giovane vicino
di casa, don Pasquale Candela, al quale non mancava di porgli domande insidiose
su argomenti che egli aveva appena letti. «Ci giochiamo un cahè
da Roberti che lo so?» rispondeva il giovane istitutore, imitando quel caratteristico
suono della f aspirata dell'anziano tesoriere di Spatola.
Don Nicola Bova lesse e rilesse le parole del capitolo decimo nono del Deuteronium,
dovendole ben conservare a mente per cogliere in castagna il giovane Candela: «Si
quis autem odio habens proximum suum insidiatus fuerit vitae eius surgensque percusserit
illum et mortuus fuerit fugeritque ad unam …»
Si fermò, non perché la mano gli facesse più male, né
per rimuginare su quanto aveva letto, ma perché gli sembrò di aver
udito voci insolite provenire da fuori. Pose attenzione e percepì canti di
persone ubriache che percorrevano la strada delle monache.
Inspiegabilmente, in virtù di quel fenomeno che insinua nella mente pensieri
sconvenienti nostro malgrado, sperò che tra esse vi fosse il suo presuntuoso
antagonista.
19. Schiamazzi sotto la casa di don Antonio Cristofaro
Don Francesco Cristofaro era sceso nella stalla per verificare che la cavalla avesse
biada a sufficienza. Da lì sentì grida e un vociare confuso provenire
dalla piazza. Tra le tante voci gli parve di udire quella di suo padre, don Antonio.
Questi aveva da poco finito di scrivere una compravendita e di sistemare alcuni
attrassi nelle cartelle di cartapecora. Era in piedi, dinanzi alla libreria, volgendo
le spalle alla scrivania e alla finestra, quando sentì rumori e voci provenire
dalla piazza. In particolare fu colpito da un suono insolito e ripetuto, come di
un ferro fatto scorrere sulla grata dell'ingresso. Il suono era accompagnato da
voci e canti da ubriachi.
Fermo, con il braccio alzato nell'atto di riporre entro la libreria il fascicolo,
prestò maggiore attenzione per capire da dove e da chi provenissero quelle
voci. Quando sentì pronunciare il suo nome, ebbe un attimo di esitazione
e il timore subitaneo che qualche malintenzionato per vendetta, odio o altro inspiegabile
sentimento avverso, potesse arrecargli danno. Spense il lume e si accostò
alla finestra, aprendo uno sportello quel tanto da vedere senza essere veduto. In
piazza alcune persone scherzavano lanciandosi la neve addosso, adulti e all'apparenza
civili. Dai movimenti, dalle urla e dagli schiamazzi sembravano ubriachi, chi di
più e chi di meno. Poco distante dal gruppo un uomo corpulento, che dall'aspetto
gli parve il nipote Luigi, figlio della buonanima del fratello Domenico, chiamava
a gran voce: «Gatà, Gatà!»
Avrebbe detto che non poteva trattarsi del nipote, visto che non aveva la zimarra,
ma quel nome che pronunziava, Gatà, Gaetano, lo convinse che si trattava
proprio di quel malafabbene del prete che stava
chiamando il fratello minore.
Aprì la finestra e guardò sotto casa, verso l'ingresso, da dove proveniva
quel suono metallico. Un individuo faceva scorrere un palo avanti e indietro lungo
la grata, un altro, evidentemente ubriaco, saltava nella neve urlando frasi offensive
verso le finestre della sua casa. Sentì chiaramente ripetere queste parole,
come in un ritornello improvvisato: «Don Antonio notaro du cazzu, affacciati
a stu palazzu» e poi rivolto alla famiglia di lui: «Adduvi
siti tutti merdi fricati!»
Per un attimo sperò che non fosse il nipote Gaetano, ma poi riconobbe alcuni
dei presenti e non ebbe dubbi nel constatare, dal modo di vestire e di agire, che
in quell'accozzaglia di civili e servitori, tutti uniti in un sodalizio da baccanale,
c'erano proprio i suoi nipoti. Li accompagnava il domestico, che picchiava con un
palo sulla grata delle scale, e che riconobbe per gli abiti più poveri e
meschini. Poco lontano scorse i fratelli Salvatore e Giacomino Campolongo e un altro
che doveva essere Eugenio il farmacista, ma la distanza e la leggera nebbia gli
fecero sorgere il dubbio che potesse trattarsi di Vincenzo Talarico o di Carlo,
l'altro fratello più giovane di Luigi e Gaetano. Essendo un po' sparsi sulla
piazza non ebbe immediata consapevolezza di quanti fossero. In mezzo alla neve sembravano
di più, e senz'altro lo stupore e lo spavento di quella sortita sotto casa
gli fecero percepire immagini legate più alle frequentazioni di quegli scellerati
che non alla loro reale presenza.
Ad ogni modo le irriverenze del nipote Gaetano erano ciò che più di
ogni altra cosa lo spinsero a porre fine alla gazzarra. Chiuse la finestra e scese
al piano sottostante, dirigendosi verso il portone d'ingresso. Serafino, il piccolo
domestico, lo accompagnò con il lume fino all'uscio, tremando per il freddo
e la paura.
20. I calzolai assistono della rissa tra i Cristofaro
Le poche botteghe della piazza che nonostante la neve e l'ora erano ancora aperte,
o per meglio dire entro le quali vi era qualcuno intento al lavoro, erano quelle
di mastro Peppino Totta, scarparo, di mastro Totonno
Pasqua, pure scarparo.
Mastro Peppino, la cui bottega era accanto la scala d'ingresso della casa di don
Antonio, era in compagnia di Luigi Pisano, anch'egli scarparo,
e stava lì lì per chiudere quando vide sopraggiungere dall'altro lato
della piazza, quattro persone «delle quali conobbe i due germani Don Salvatore
e Don Giacomo Campolongo co' cappotti e coppole, e Don Gaetano Cristofaro con coppola
e senza cappotto; l'altra era col cervone
e col cappotto». «Sono tutti 'mbriachi!»
esclamò mastro Peppino.
«Chiudi la porta che è capace che vengono qua a ci sfottere,»
aggiunse preoccupato mastro Luigi «che con Doggatano e Dolluiggi siamo pure
parenti.»
«Mina,» esclamò Peppino «cugginita Doggatano è
varro varro, con questo freddo ha solo la giacchetta!»
L'avvicinarsi di quel forsennato, seguito dagli altri che ridevano divertiti delle
sue intemperanze, intimorì Peppino, ben consapevole che a discutere con ubriachi
c'era solo da rimetterci, e se poi si trattava di signori erano capaci di passare
dal torto alla ragione e farti chiudere bottega, o peggio mandarti davanti al giudice
per calunnia, offesa o chessò altro.
Luigi appoggiò l'orecchio alla porta e udì la voce di don Gaetano
farsi sempre più vicina, tanto che spinse il maschetto
per serrare la porta dall'interno. I vernacchi
e le maleparole, diretti contro il proprietario della casa, provenivano dal lato
destro, come se quell'invasato si fosse spostato vicino la scala. Era comunque a
distanza di meno di un metro dalla bottega. Luigi e Peppino udivano finanche il
suo respiro ansimante.
Peppino, che in altre circostanze avrebbe ben gradito la visita di galantuomini
alla sua bottega, pregando in cuor suo che il signor Gaetano si allontanasse al
più presto, sussurrò all'amico: «Il parente tuo è pazzo.»
«Sssss» ammonì Luigi, temendo che anche il minimo suono potesse
tradire la loro presenza, e con voce ancor più bassa aggiunse: «Quello
che ha in mano non è un bastone, è lo stocco
del fratello Vincenzo. L'ho visto una volta che Vincenzo lo ha estratto che aveva
avuto parole con il colono.»
«Sssss» ammonì a sua volta Peppino e subito dopo: «Asulia quante gliene dice a don Antonio, allo zio. Che
vrigogna, se era vivo don Giuseppe, il dottore, lo avrebbe preso a calci 'ntu culu.»
«Sssss, sssss» lo tacitò Luigi. «Asulia, è sceso
don Antonio. Ma chi sono?» E senza attender risposta da Peppino li elencò
lui stesso: «Doggatano, il fratello Dolluigi, don Salvatore e don Giacomo
Campolongo, e l'altro col cervone
chin'è?» «A mia è parso don Eugenio Romita, ma potrebbe
essere pure Dommicienzo o Doccarruccio.
«No, Don Carluccio è più basso.»
«U
canusciu: è u delinquente che fa u trappitaru con don Luigi!»
«No, mi para più Peppinuzzu, u cacaglio.»
«No, ti dicu che è Vicenzo, u trappitaru.»
«Sssss, ssss cittu, zitto.» La voce ancor più flebile ma imperiosa
di Luigi avvertiva che qualcosa di nuovo stava accadendo. «Si sono spostati
verso il putighino di don
Bruno, c'è pure don Ciccio, il figlio.»
«Sss, sss, sssss! si sono acchiappati! si stanno minando!»
C'era paura mista a curiosità in quelle parole di Luigi Pisani, e forse anche
un piacere sottile nel sentire che un nipote di za' Fortunata Pisani stava minando
il marito e il figlio di donna Aurelia. «Ma ancuna cosa don Antonio ci avrà
fatto, atramenti Doggatano non lo minava!»
Concluse. Si sa, il sangue è sangue.
Mastro Peppino si fece il pari e il dispari su ciò che aveva visto e concluse
che non era sicuro di aver visto bene, soprattutto quello col
cervone in testa chi era? Avvertì il bisogno improvviso di accovacciarsi
in un angolo e defecare, ma forse era solo una sensazione dovuta alla contrazione
dello sfintere per la paura di aver visto.
«Maledetta curiosità!» pensò, cercando di ricordarsi ciò
che aveva detto qualche istante prima. Si convinse che non aveva visto in faccia
nessuno, che la porta era chiusa, che dinanzi a lui c'era Luigi che gli nascondeva
la visuale, che era buio, che c'era la nebbia. «Maledetta giustizia!»
concluse tra sé prima di scorgere, sollevandosi sulla punta dei piedi e allungando
il collo, don Antonio che schiaffeggiava don Gaetano, questi che lo feriva con lo
stile alla testa, don Francesco che accorreva con una
coltella in mano e Vincenzo che colpiva quest'ultimo con un grosso bastone.
«Hai visto??» gli chiese Luigi voltandosi verso di lui. «Come
facevo a vedere se ti sei messo davanti!» rispose Peppino temporaneamente
rappacificato con lo sfintere.
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