LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti
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21. Don Pasquale Candela sta facendo scuola. Sente calpestio sotto casa
Don Pasquale Candela stava spiegando ad un suo giovane allievo che la morte non
doveva essere vista come la fine di tutto, come il male assoluto, bensì come
il passaggio ad una vita migliore. «Anche la morte può dar vita: nel
mondo animale sappiamo quanto questo principio sia vero, e tra gli umani basti pensare
a seppellitori, vanghieri,
prefiche, religiosi per dir solo di quelle figure che son come gli insetti
che si nutron di carcame.» diceva
il dotto aio. «Non fraintendere, che conosco
quel sorriso impertinente.» aggiunse vedendo l'allievo sorridere per il riferimento
ai preti.
«Intendo dire che nel dar l'estrema unzione all'infermo per guarirlo, il sacerdote
invoca su lui la salvezza del corpo e dell'anima. E questo …» Si interruppe
in quella che udì gridare in piazza e poi un calpestio di più persone
nel vicolo sotto casa. Tacque, sperando in bene, come la sua indole pacifica lo
ispirava.
Il fratello più giovane Raffaele e la sorella maggiore Marianna, al braciere,
si alzarono per andare a vedere dal piccolo balcone sul lato della casa che cosa
stesse accadendo nella piazza. Videro persone che gridavano in maniera concitata
e altri più lontani che osservavano senza intervenire. «Che succede?»
chiese don Pasquale, aspettando che tutto finisse.
«È successo qualcosa di grave.» disse Marianna «Credo che
c'entrino i Cristofaro.»
«Gesù, Giuseppe e Maria!» invocò don Pasquale. Poi rivolto
al giovane allievo: «Tu non muoverti da qui! Che poi ti faccio accompagnare
a casa.»
Altre grida e voci confuse si aggiunsero alle prime. Marianna supplicò Raffaele
di non uscire, che fuori c'erano assassini che avrebbero ucciso anche a lui. A quali
assassini si riferisse non lo sapeva neppure lei, ma ogni qual volta di notte si
sentivan urla o rumori si trattava sempre di assassini. O di lupi. Rivolgendosi
a Pasquale, a voce bassa per non farsi udire dal discepolo di lui, gli rivolse questo
appello: «Pasqualì, lasciaci stare tu con certi amici e la politica
…» «Che c'entra questo!» rispose seccato il fratello, ma
una sottile paura cominciò a insinuarsi e ad aprirgli bagliori improvvisi
su questa o quell'esperienza, su questo o quell'argomento, su persone che aveva
incontrato, su frasi imprudenti pronunziate pubblicamente. «Che c'entra questo!»
continuò a ripetere, questa volta a se stesso, per tranquillizzarsi.
«È don Antonio, sta gridando.» disse improvvisamente Raffaele.
Quindi afferrando il fratello per un braccio lo sollecitò a seguirlo: «Vieni,
andiamo a vedere che gli è successo.»
«Aspetta … le scarpe … siamo stati finora al braciere …
passare di colpo dal caldo al …» cercò scuse don Pasquale. Poi
guardando il giovane a cui stava impartendo con sicumera lezioni di vita e di pensiero,
si vergognò delle sue esitazioni e sperò tanto che non fossero scambiate
per paura. «Vado, io vado …» disse al giovane che lo guardava
senza parlare «… allora vado. Tu aspetta qui. Io vado …»
E uscì girandosi più volte verso il suo allievo quasi sperasse di
sentirlo supplicare: «Maestro, non andate, è pericoloso». Dopo
alcuni minuti raggiunse il fratello Raffaele.
22. Donna Pasqualina rimprovera Fiorina. Giuseppe Quintieri inviato a vedere cosa
accade
Donna Pasqualina, visibilmente irritata, entrò nella stanza di Fiorina, che
aveva ancora la camicetta slacciata sul davanti e le chiese con ironia se anche
lei avesse bevuto. «Come si era sognata di presentarsi sulla porta, davanti
a quell'imbecille di Peppinello, con il petto scoperto.» Le chiese da dove
le veniva tutto quel caldo, col freddo che faceva. Fiorina sfrontatamente rispose
che se la visione del collo e dello sterno turbavano a tal punto gli uomini chissà
cosa aveva visto don Luigi per mettere incinta Catarineddra. Lo schiaffo che le
arrivò violento e inaspettato non riuscì a spegnere la sua ribellione
alle condizioni in cui era costretta a vivere. Il volto acceso, una ciocca di capelli
sulla fronte, la camicetta aperta, continuò a guardare negli occhi sua madre
quasi a sfidarla: «Don Luigi potrà decidere del suo futuro, e se vuole
anche del mulo che gli nascerà, ma
del mio futuro, della mia vita, che cosa farne lo decido io. Madre.»
Donna Pasqualina si pentì del suo gesto, non per pietà materna, bensì
perché aveva aggravato la situazione. Tentò di convincerla che lo
schiaffo era stato dato non per ciò che aveva detto, ma per il fatto di aver
mostrato il petto scoperto a Peppinello. «Don Luigi può fare quello
che gli pare, che se la vede lui se va a finire male! ma vussuria
fino che è in questa casa deve stare con due piedi in una scarpa!»
disse alzando la voce. E poi, abbassandola subito, aggiunse: «Te l'ho detto,
mille volte …»
«La paglia vicino al fuoco non ci deve stare!» disse Fiorina.
«Proprio così!» l'ammonì donna Pasqualina.
Fiorina si trattenne dal rispondere. Si abbottonò la camicetta dicendo: «Tre,
dico tre, bottoni. E la paglia piglia fuoco!»
Donna Pasqualina le si avvicinò, parlandole questa volta con tono pacato
e materno: «Sì, figlia mia, a volte basta anche un solo bottone. E
poi Peppinello sta crescendo, non capisce tutte le cose come gli altri.»
«Come don Luigi e Gaetano?» chiese ironicamente la figlia.
La madre non volle accettare quest'ultima provocazione e continuò: «Sai
bene che Peppinello è stato accolto in questa casa come un figlio, per via
della parentela tra me e la mamma …»
«Lo so, lo so. È - come - un figlio - e per me - deve essere - come
un fratello!» rispose Fiorina pronunciando con enfasi le parole che la madre
le aveva detto decine di volte. Alle raccomandazioni seguivano frasi dai significati
oscuri: «Tu non sai certe cose, sono cose che un giorno capirai.» O
talvolta incomplete: «Nelle famiglie esistono i maschi e le femmine, e le
femmine si devono sempre …» Ma l'espressione che avrebbe dovuto meglio
di ogni altra sintetizzare il pericolo del connubio restava sempre: la paglia vicino
al fuoco non ci deve stare.
E Fiorina, alla sua età, a restar chiusa in casa, costretta alle abbottonature
delle convenzioni borghesi, proprio non si rassegnava.
Mentre madre e figlia discutevano dell'onore femminile, si udirono chiaramente grida
provenire dalla strada. La madre sobbalzò. «Che cosa succede?»
chiese preoccupata alla figlia, ben sapendo che Fiorina ne sapeva quanto lei.
«Peppinuzzu! Peppinuzzu!» chiamò a gran voce «Vai a vedere
che cosa sono queste grida!» E poi, in preda ad una preoccupazione che si
autoalimentava, si portò entrambe le mani sulle orecchie, quasi a impedire
che le voci che si udivano le destassero pensieri sopiti. Con il presentimento che
solo le madri avvertono, fece i nomi dei figli: «Gaetano! Sono Gaetano e Luigi!!»
Quando accorse Catarineddra seguita da Peppinello, ancora assonnato e intontito
dal vino, non si udiva più niente, come se la neve avesse congelato gli ultimi
suoni nel breve percorso dalla piazza alla Portavecchia.
«Peppinù,» chiese Fiorina «quando Don Gatano e gli altri
sono usciti hai sentito se qualcuno diceva di andare verso la casa di Ciccillo?!»
«Se, se, se donna Fiorina vuole vado a ve-ve-vedere dove sono don Ga-Ga-Gatano
e …» balbettò.
Prima ancora che avesse finito la frase lei, ponendogli sulle spalle un vecchio
cappotto e in testa il cervone di
Vincenzo, il trappitaro, lo spinse bruscamente:
«Sei ancora qua? E va'!» Donna Pasqualina mentre si allontanava gli
gridò: «Fuia,
ca m'è parsa a voce di Gatano!»
Peppinello scese di corsa le scale e, giunto nell'atrio, prese un bastone nel catoio: «Che può sempre servire.»
disse provandone la solidità con colpi in aria.
Vestito a quel modo, come tata Vincenzo, si avviò con passo deciso verso
l'incognito. L'ansia di donna Pasqualina si accrebbe di una nuova preoccupazione
per quell'anima innocente.
23. Don Gaetano scatenato. Rissa e uccisione di don Francesco
La combriccola, che avevamo lasciata all'imbocco della stradina che dalle monache
porta al Critè, aveva proseguito il suo cammino verso la piazza continuando
a cantare la canzone del soldato che partiva dal suo borgo e dal suo amore: «…
alla chiazza di bassu aiu la bella che tena l'uocchi della turturella.».
«Basta?! Che rivoluzionari siete, che a parole tutti siamo bravi!» aveva
gridato Gaetano all'indirizzo dei suoi compagni di ribalderia. Sfrenato, come un
carro che scivola sulla selce per il troppo carico, Gaetano si era messo a correre
lungo la strada delle monache verso la piazza di basso, saltando sulla neve. Il
bastone in mano, senza cappotto per il calore che il vino gli aveva sviluppato in
corpo, alternava parole triviali a peti con la bocca. Ogni tanto gridava all'indirizzo
di questo o quel balcone: «Affacciatevi fimmini,
guardate chi bastune!» E sollevava in aria lo stocco
per poi abbassarlo, colpendo la neve con violenza. Gli amici Giacomino e Salvatore,
che forse avevano bevuto di meno, o reggevano meglio il vino, cantavano. Don Eugenio
e don Luigi, più lontani dai primi perché si erano fermati a lasciare
a casa il piccolo domestico ebbro e infreddolito, discutevano se non fosse il caso
di proseguire il cammino verso sir Andreace, senza attraversare la piazza. Don Luigi
cominciava a preoccuparsi per le intemperanze del fratello: con la storia degli
avvisi alle loro donne era probabile che il sindaco avesse dato ordine alle guardie
civiche di tener d'occhio sia lui che Gaetano. Se fossero stati trovati ubriachi
con un'arma ciascuno addosso sarebbero partite le denunce e forse anche gli arresti.
Luigi stava riflettendo sul cosa fare e ancor più se fermare quello spatornato del fratello, che si era messo a correre
verso la casa dello zio Antonio, in fondo alla piazza. Lo spatornato continuò
nelle sue intemperanze, urlando volgarità, facendo
vernacchi e saltando sulla neve. Vincenzo, il trappitaro,
gli stava quasi addosso, per timore che potesse cadere e ancor più per paura
che potesse cacciarsi in qualche guaio. La devozione di Vincenzo verso la bonanima
di don Domenico si era riversata sul figlio di lui Gaetano, che gli delegava con
fiducia l'amministrazione dei beni di famiglia.
Vincenzo era armato di un palo, si sarebbe detto per non scivolare nella neve, ma
anche questo arnese, pensò don Luigi, in mano ad un tipo come quello, pronto
ad accendersi come l'olio lampante, era un'altra arma di cui la compagnia avrebbe
dovuto dar conto - «'nvogliaddio»
- in caso di arresto.
Ormai Gaetano era sotto l'ingresso di don Antonio e aveva cominciato a gridare verso
le finestre dello zio espressioni volgari, accompagnate dai
piriti di bocca. Luigi lo chiamò ad alta voce più di una volta,
sperando che desistesse dal continuare quelle azioni sconsiderate. Inutilmente.
Sulla scala della loggetta comparve don Antonio. Un
petardo sonoro uscì dalla bocca del nipote Gaetano, che era proprio
sotto la scala.
«Che vergogna è questa» gridò lo zio, rivolto a
lui ma anche agli altri della compagnia «andar
sbirrando la notte.» E un secondo
petardo fece eco alle sue parole.
«La vuoi finire, tignuso che non sei altro!»
urlò don Antonio all'indirizzo del nipote Gaetano.
Don Luigi si rese conto che la provocazione si stava tramutando in rissa e, preoccupato
di essere riconosciuto, si allontanò di qualche passo. Anche i fratelli Salvatore
e Giacomo, con il loro servitore, si spostarono verso la strada che porta a casa
Catalano. Don Eugenio, sopraggiunto qualche attimo più tardi, si fermò
ad alcuni passi da Gaetano, alle sue spalle, forse anch'egli temendo di essere visto.
Vincenzo il trappitaro si era messo all'imbocco del vico che congiunge la piazza
con il sottostante quartiere del Puzzillo. Per caso o forse per un disegno tattico,
fatto sta che tutte quelle persone erano disposte in maniera da accerchiare chiunque
fosse uscito da casa Cristofaro.
Gaetano voltò le spalle allo zio e lentamente si diresse verso l'angolo del
palazzo Selvaggi. Si appoggiò con le spalle e con un piede al muro, quindi
con un tono di voce carico d'odio disse: «Saglitene
sopra ca sa nò faccio la chianca!»
Don Antonio, per nulla intimorito dalle minacce del nipote, si avvicinò a
lui e, sollevandogli il mento con due dita quasi a volerlo vedere bene in faccia
gli tirò uno schiaffo, violento e improvviso. Gaetano reagì immediatamente,
estraendo dal bastone lo stocco e colpendolo con questo sulla fronte. Don Antonio
barcollò per un istante; portò istintivamente le mani alla testa e
sentì sotto le dita due lembi staccati di carne. Mentre il sangue gli scorreva
sul viso, vide con la coda dell'occhio, qualcuno che si accostava a lui. Spaventato
fuggì verso casa, risalì le scale del gafio e chiuse dietro di sé
la porta. Serafino, il piccolo servitore, gridò a don Ciccio e a donna Aurelia
di accorrere che il padrone era stato ferito e perdeva sangue dalla testa.
Gli occhi di Gaetano erano diventati due fessure, il viso era contratto e dagli
angoli della bocca usciva schiuma come fosse veleno. Lo
stocco intriso di sangue in una mano, il bastone nell'altra, sembrava
una belva pronta ad avventarsi su chiunque avesse cercato di toccarlo. Girò
gli occhi a destra e a sinistra, stando ben accostato al muro per evitare di essere
disarmato alle spalle: avrebbe colpito anche Salvatore, Giacomo ed Eugenio, e il
suo stesso fratello, se solo avessero tentato di fermarlo. Tutto ciò che
era avvenuto nel giro di pochi minuti gli sembrava un evento accaduto ad altri,
e soprattutto lontano dal mondo in cui viveva. Ebbe la sensazione di non essere
nella piazza che conosceva e che la casa che aveva di fronte si fosse dilatata.
Vedeva la neve arrossata di sangue, sentiva echeggiare nelle orecchie le grida dello
zio, avvertiva un fremito per tutto il corpo quando una figura che non riconobbe
gli apparve dinanzi con un coltello in mano. Gaetano era piombato in uno stato di
estraniazione dalla realtà e colui che avanzava verso di lui poteva essere
a dieci palmi di distanza o al suo cospetto che egli non lo avrebbe visto. Era come
se non esistesse più nessuno al di fuori di sé.
Il fratello Luigi alle sue spalle ebbe un attimo di esitazione, indeciso se intervenire,
ma il suo domestico fu più rapido a far ritornare don Gaetano protagonista
della tragedia che si stava consumando.
«Don Gatà, accuortu!» lo avvertì prontamente ed assestò
un colpo sulla mano di don Ciccio con il palo che teneva saldamente in mano.
«Lassalu a mmia!» disse uno dei
due assalitori. «Minalu cu' palu!»
disse l'altro. «Avvicinati … avvicinati!»
Don Ciccio si rese conto che gli avevano teso un agguato. Cercò rapidamente
una via di fuga che in quel momento si presentava solo nella parte della piazza
che portava al vico del Puzzillo e si diresse sulla destra della casa, scese rapidamente
dalla piazza nella stradina sottostante, imboccò il vico piegando a sinistra,
mentre più persone lo rincorrevano. Avvertì un colpo violento alla
testa, ma continuò a correre gridando «Mi vuonu
ammazzare!» Sentì la voce di suo padre da un balcone gridare il suo
nome e una donna urlare: «Fuocu mia,
fuocu mia!» All'angolo sotto casa scivolò, si rialzò
proseguendo la corsa ma giunto avanti la loggia di Cece Andriolo per il troppo fango
cadde di nuovo. In un istante Gaetano gli fu addosso con lo
stocco in mano e lo colpì con violenza.
«Papà,
papà, papà» gridò Ciccio verso i balconi del retro di
casa sua e per ben tre volte supplicò il suo persecutore «Gatà
non mi ammazzare». Senza dimostrare alcuna pietà per quelle invocazioni
e con una ferocia che neppure il peggior e tristo galiuoto
avrebbe potuto usare, Gaetano colpì una prima volta al petto il cugino e
quando sollevò nuovamente il braccio per colpirlo a morte Ciccio guardandolo
negli occhi gli chiese supplichevole «Gatà che ti ho fatto».
Al secondo colpo chiuse gli occhi sperando che quella furia finisse. Così
fu. Salvatore Scarpello, il giovane figlio di mastro Giuseppe il sarto, si gettò
alle spalle del forsennato e gli afferrò la mano che impugnava il lungo ferro
insanguinato. Ciccio avvertiva che il respiro si faceva pesante e che le forze lentamente
lo abbandonavano. Per un istante il peso che gli impediva di respirare sembrò
alleviarsi e vide Gaetano fuggire inseguito da Salvatore. Forse, grazie a Dio e
alla Madonna, era salvo.
Così non fu. Forse Gaetano era tornato indietro, o forse un altro che lo
inseguiva si chinò su di lui. Fu colpito di nuovo, poi rivoltato e toccato
in più parti del corpo, come se cercassero qualcosa sotto di lui, quindi
fu abbandonato riverso a terra. Al limite delle forze, la vista annebbiata, incapace
di comprendere che cos'altro volessero da lui oltre alla vita, si appoggiò
con la mano sulla neve, tentando di rialzarsi. Pensò: «Non sono morto!»
Se era riuscito ad alzarsi voleva dire che era ancora vivo, lo avrebbero aiutato
perché la gente lì si voleva bene e a lui volevano più bene
degli altri, perché era don Ciccillo, sarebbero corsi a chiamare il medico.
Fece alcuni passi verso la casa di Maddalena, la madre di Salvatore. Il sangue gli
usciva copioso dalle ferite e dalla bocca, era a pochi metri dalla porta, cadde.
Uscì Maddalena, alzò lo sguardo verso il balcone di don Giuseppe Campagna
che chiedeva che cosa fosse successo. «Diciano che don Ciccio e il padre hanno
abbuscato botte» rispose la donna «Salvatore,
figlima, è andato a vedere.»
Ciccio, a pochi passi da lei, che ancora non lo aveva scorto, si era sollevato di
nuovo. Le forze cominciavano a mancargli ma se avesse potuto gridare aiuto era salvo.
Maddalena lo avrebbe sorretto, poi altri sarebbero accorsi e … «Aiu
… gloo» gli uscì dalla bocca assieme ad un fiotto di sangue.
La donna con lo scialle sul capo si accorse di lui solo allora, portò le
mani al viso, lo scialle scivolò sulle spalle e poi a terra, aprì
la bocca per farne uscire parole che rimasero in gola, poi allungò le braccia
verso di lui che la chiamò per nome: «Mata-le-na…»
Quindi, ormai alla fine, il giovane si piegò sulle gambe e lentamente scivolò
a terra, staccandosi lentamente dalla donna che lo stava accogliendo, come un cristo
malamente schiodato. Finalmente quel grido, così a lungo trattenuto con il
respiro, uscì dalla bocca di Maddalena Piemonte: «Fuocu mia ca don
Ciccio è muortu, Giuseppe, Maria Rosaria curriti!» Il marito e la figlia
di Maddalena si affacciarono sulla porta: la speranza che quella vita non si fosse
ancora spenta li spinse ad adagiarla con vane cure sul letto di Salvatore.
«Gaetano … mi ha ucciso» furono le sue ultime parole.
Per quanto breve possa essere il trapasso dalla vita alla morte, esso è pur
sempre misurabile temporalmente; una misura infinitesimale, diremmo senza riflettere
sul significato delle parole, ma per quanto piccolo possa essere questo lasso di
tempo, nulla è paragonabile ad esso per quantità di contenuti.
Francesco stava vivendo quello spazio temporale, quando vide sentì aspirò
condivise l'ultimo istante della sua esistenza. All'interno del suo corpo il sangue
continuava a scorrere, gli impulsi nervosi continuavano a trasmettere sensazioni
di dolore e di sollievo, ogni cellula continuava a svolgere il suo compito di conservazione.
Quelle più periferiche cominciarono a rallentare il ritmo di lavoro per permettere
alle altre più prossime al cuore di continuare a pompare sangue, il cui flusso
rallentato non raggiungeva in tempo utile il cervello. Miliardi di esseri viventi
erano freneticamente attivi per impedire che la fuoriuscita del sangue potesse compromettere
irreparabilmente il loro lavoro e la loro funzione sociale. Nessuno di quei miliardi
di esseri sapeva chi fosse realmente Francesco, ignoravano completamente oltre al
nome, il cognome, la professione, l'abitazione e migliaia di altre cose che all'esterno
avevano la loro importanza sociale. Nessuno di quei miliardi di esseri fu incaricato
di scoprire chi fosse l'autore del danno perché in quella società
così capillarmente organizzata non esisteva alcun tribunale, né pene,
né carceri. Quell'accorrere e soccorrere di individui era finalizzato solo
ad impedire che il grande e complesso sistema finisse di funzionare.
Francesco Cristofaro, di anni ventiquattro, figlio di Antonio e di Aurelia Caruso, sostituto
cancelliere presso il comune di San Marco, ebbe pochi secondi di tempo per prepararsi
alla morte, se vogliamo un tempo enorme rispetto alle operazioni che si stavano
compiendo all'interno del suo corpo, estremamente breve se rapportato alle azioni
volontarie che avrebbe potuto compiere. Avrebbe potuto, finalmente, chiedere perdono
a Dio, invocare la madre, il padre, l'amante, maledire qualcuno o qualcosa, ringraziare
chi lo stava aiutando, e decine di altre cose che è impossibile elencare.
Scelse di dire: «Gaetano mi ha ucciso.»
Disse veramente questo? O lo dissero i testimoni?
24. Don Francesco in casa Scarpello. Don Luigi minaccia Salvatore e schernisce il
cadavere. Don Nicola e don Giuseppe Coco
Il corpo senza vita di Ciccio era sul letto ricoperto di sangue. Che fosse morto
era evidente anche a chi non aveva mai visto un morto, ciò nonostante don
Luigi, per oltraggiare il cadavere dell'ucciso, gli tastò il polso e disse
a voce alta: «Mo' ti passano i vizi!» Questa fu l'estrema unzione
impartita dal canonico don Luigi Cristofaro all'anima di don Francesco Cristofaro,
suo cugino.
Maria Rosaria e la madre, con l'indignazione che si manifesta spontanea nelle donne
di fronte all'oltraggio, dissero che don Ciccio così era ucciso due volte,
la prima per mano di don Gaetano e la seconda per mano di un prete. In quel frangente
Salvatore rientrò in casa, sconvolto, sporco di sangue e trafelato per l'infruttuoso
inseguimento dell'assassino. Don Luigi parandosi davanti a lui gli chiese con tono
minaccioso se sapeva chi avesse ucciso don Ciccio. «Il fratello di
Vussuria» rispose Salvatore senza esitare. «E chi lo dice?»
insistette il prete. «Lo dico io che l'ho visto con questi occhi, e con queste
mani ho cercato di fermarlo, e con queste gambe l'ho inseguito!»
Salvatore che la voglia di giustizia, assieme a quella di rivoluzione, l'aveva nel
sangue, non era affatto intimorito dal tono minaccioso del canonico, che afferrandolo
per il risvolto della giacca gli sibilò in faccia «Te la devi vedere
con me!» Maria Rosaria e la madre, con il timore che si manifesta
spontaneo nelle donne al pensiero di una loro imprudenza, avrebbero volentieri cambiato
la loro versione dei fatti pur di non mettere in pericolo la vita di Salvatore ma
questi per rispetto della tonaca, anche se non indossata dall'energumeno, rimase
immobile, sostenendo lo sguardo di quel prete disgraziato.
Don Luigi senz'aggiungere altro uscì dirigendosi verso il vicolo di casa
Candela.
Dall'altro lato della via, don Nicola Bova, che aveva smesso di preparare la sua
piccola vendetta quotidiana a base di dotte disquisizioni latine, aveva aperto la
finestra dopo aver spento il lume per non essere visto. Udì quelle voci e
le grida che le avevano precedute. Dall'alto aveva scorto mastro Giuseppe Scarpello
con la moglie e la figlia che entravano in casa trascinando un peso. Ricordò
di aver sentito cantare, poi gridare oscenità, i passi e le invocazioni sotto
casa sua, e ripensò, avendo ancora il libro in mano, alla frase che aveva
appena letto «Si quis autem odio habens proximum suum insidiatus fuerit vitae
eius surgensque percusserit illum et mortuus fuerit fugeritque ad unam …»
Credette che fosse un segno divino e che … in quel momento vide: «D.
Luigi Cristofaro con giacca, senza cappotto, e senza cappello a tre pizzi, senza
aver distinto se con qualche coppola, e se comparve dalla strada tra il palazzo
dei Signori Campagna, e tal casa di mastro Giuseppe Talarico, o dall'altra strada
tra Giuseppe Tocci e D. Vincenzo Perrotta che è una specie di
vinella, e s'intromise nell'abitazione che è a piano terreno di
Giuseppe Scarpello. Dopo poco ne uscì ed a passo lento colle mani nelle sacche
de' calzoni camminava scendendo nella strada sotto la sua abitazione. Quando l'ebbe
vicino senza chiamarlo a nome, lo domandò semplicemente che è stato?
ed il Cristofaro rispose senza fermarsi dimani l'appuri e continuò a camminare
per la strada che conduce verso sopra.»
Don Nicola chiuse la finestra turbato per ciò che aveva visto e udito. La
presenza di don Luigi lì, con quel tempo e a quell'ora, era a dir poco strana,
considerando che tra le due famiglie Cristofaro non correva buon sangue. La risposta
che gli aveva dato, «Domani l'appuri», senza fermarsi come faceva
in altre occasioni, gli fece nascere il sospetto che non si trovasse lì per
caso. Immerso in questi pensieri, sentì bussare alla porta. Se era Don Luigi
gli avrebbe chiesto conto dell'accaduto e in caso di altro individuo pensò
che non c'era da temere ladri o agguati, considerato che quel trambusto aveva allertato
varie persone.
Andò ad aprire e si trovò di fronte la vicina di casa, Anna Maria
Caldieri, la napoletana, come la chiamavano tutti, anche se era di Positano. «Donnicò,
avete saputo?» E prima che don Nicola potesse chiedere che cosa, la donna
gli aveva già detto che avevano ammazzato a don Ciccio e che il cadavere
era a casa di mastro Giuseppe, il sarto. Don Nicola si affacciò sulla porta
e vide che altri vicini erano fuori in strada a chiedersi l'un l'altro che cosa
fosse accaduto. Sulla porta a lato della sua Peppino Coco, il commesso della pretura,
avvolto in una coperta, con le tappine ai piedi, era in attesa che qualcuno gli
chiedesse conto di quel concitamento. Pur non avendogli don Nicola rivolto domanda
alcuna gli spiegò immediatamente, con quel suo modo di sgravarsi di notizia
come avanti al giudice, i fatti di cui era stato testimone oculare: «…
da una finestra distinsi due persone che fuggivano in persecuzione l'una dell'altra.
Non passò guari che quella che precedeva cadde sul suolo e l'altra che l'inseguiva
se gli avventò sopra, quando sopraggiunto il compaesano Salvatore Scarpello
si mediava a dividerli. Epperò uno dei due si è immediatamente dato
alla fuga» Ah! rispose semplicemente don Nicola e poi raccontò
ciò che aveva veduto, con lo stesso modo di dire del commesso, quasi a canzonarlo:
«… io invece avvertii un forte calpestio di più persone da sopra
in basso per la strada sotto porta. Temendo di qualche sinistro senza aprire, andai
ad avvedermi se era chiusa la porta, e chiusa la trovai, poiché sono solo
in famiglia, ed il mio servo Rafele Madorno si era coricato.» Guardò
per un istante in faccia Peppino Coco, come se volesse dirgli: «Visto come
si parla?!». Continuò subito: «In quel mentre udii lagnanze fuori:
fuoco fuoco. Aprii la finestra della stanza ma senza lume e mi posi in attenzione;
aprì D. Giuseppe Campagna un suo balcone e prese conto di che si trattava.
Rispose Maddalena Piemonte moglie di Giuseppe Scarpello che Ciccillo Cristofaro,
ed il padre aveano abbuscato botte. Il Sig. Campagna di replica domandò chi
era stato, e quella rispose sono stati fra loro.» Si fermò
soddisfatto.
Ah! rispose con altrettanta semplicità il commesso.
Quindi il canonico, come se parlasse al proprio domestico, gli chiese di andare
a vedere se ci fosse bisogno di atti di religione. Don Peppino, come godeva esser
chiamato per la carica che ricopriva, muovendosi cautamente sulle punte delle tappine
per non inzaccherarle di neve, raggiunse la casa di Scarpello a pochi passi dalla
sua. Entrò e vide, gettato come uno straccio su un pagliericcio, il figlio
del cancelliere. Le lacrime che gli sgorgarono non erano di circostanza, che con
Ciccillo erano cresciuti assieme. Il suo compianto si unì a quello degli
altri presenti. Ognuno aveva qualcosa da ricordare su quel giovane quando era in
vita: «S'è stutato alli piedi miei!».
«Era tantu buonu!», «Chini lo dice a
donna Aurelia!», «Degnissima persona!»
Peppino ricordò che era stato Ciccio ad insistere con don Antonio per fargli
avere il posto di commesso alla pretura. Come in ogni compianto, in cui non v'è
maggior dolore che evocare il tempo felice, mastro don Peppino Coco, ricordò
i vestiti alla moda che gli cuciva sui modelli che circolavano a Napoli, in voga
in Francia e in Inghilterra. Perché don Ciccio era moderno, giovane di mondo,
sempre elegante, e così riflettendo guardò piangendo quell'abito ricoperto
di sangue. «Commo ti stevano bbuoni i vestiti 'ncuollo!»,
singhiozzò, generando quel pianto collettivo che ogni ricordo del defunto
in vita provoca. Uscì, asciugandosi le lacrime con un lembo della coperta
che aveva addosso, raggiunse la casa del canonico: «È muorto»
gli disse «Ciccillo è muorto». Poi come a voler sottolineare
il gravame che gli sarebbe derivato per essere commesso giudiziario, concluse: «Aggio fernito e dormì!
Stasera stessa il giudice mi chiamerà.» E così fu.
Don Nicola si fermò ancora alcuni minuti, poi si ricordò del contenuto
profetico del passo del Deleuterion che voleva proporre a don Pasquale Candela e
delle raccomandazioni del medico riguardo la sua mano, col morbo di … Dipu
… Dupui … «Ahhh, la memoria!!» esclamò, nel momento
stesso in cui vide passare il giovane rivale con il fratello Raffaele. Avrebbe voluto
fermarlo, ma si rese conto che proprio non era il momento per fargli la domanda
sul … sul … Cercò di ricordare quale fosse la domanda: «Cosa
dovevo chiedergli?» disse tra sé. Chiuse la porta alle sua spalle ed
esclamò: «Meglio morto che senza memoria!», ma si pentì
immediatamente della bestemmia che aveva pronunciato, si morse le labbra e chiese
perdono a Dio.
25. I fratelli Candela escono da casa per vedere che cosa è successo
Quando i due fratelli Candela uscirono di casa per scoprire cosa fosse accaduto,
la tragedia si era già consumata. Seppero tutto appena scesi in strada. Alla
destra nel vico un piccolo gruppo di persone, don Nicola Bova sulla porta e, all'angolo,
don Peppino l'usciere, a sinistra verso la rampa che portava a casa Cristofaro altre
persone, alcune che entravano in casa di don Antonio, altre che ne uscivano. Raffaele
e Pasquale entrarono, salirono nella stanza da dove provenivano voci e pianti e
trovarono don Antonio, con la testa sanguinante, gli altri della famiglia, donn'Aurelia,
Serafino Pace che andava e veniva. Don Antonio non fece alcun cenno quando li vide,
ma chissà per quale oscuro meccanismo mentale vide in loro due coloro che
dovevano avvisare dell'accaduto don Luigi Conte, il capo delle guardie urbane.
Don Pasquale, attraversando la piazza, si chiese perché don Antonio avesse
scelto proprio loro per questo incarico, o forse aveva scelto solo Raffaele e di
conseguenza lui perché era il fratello. Ragionò tra sé sulla
caducità della vita, sulla violenza che portava l'uomo ad uccidere il suo
simile, sul disegno imperscrutabile di Dio e sul libero arbitrio, dimentico che
pochi minuti prima aveva fatto un parallelo tra la morte e la vita.
Mentre così vagava la sua mente al ritmo dei passi che lo conducevano quasi
meccanicamente verso casa Conte, sollevò gli occhi verso le grate del convento
e immaginò di essere anch'egli chiuso con i suoi libri in un monastero a
riflettere sulle grandi questioni della vita. Raffaele lo strattonò dicendogli:
«Dai che siamo arrivati!» Bussò alla porta più volte e
chiamò a gran voce: «Comandante, comandante. Signor Conte, don Luigi.»
finché la porta non si aprì. Apparve Francesco, il domestico, che
senza dir nulla si mise di lato lasciando libero il passaggio a don Luigi. Questi
sull'ultimo gradino della scala, a fianco del mascherone che ornava il passamano
in muratura, si stava sistemando la spada e il berretto con i fregi.
La sua figura alta si stagliava nel vano della porta alle sue spalle da cui filtrava
la luce e dove era affacciata Rosa, la domestica. «So già tutto.»
disse don Luigi con la sua voce imperiosa. Poi riconoscendo don Pasquale e il fratello
Raffaele disse loro con tono quasi paterno: «Tornate a casa, che risse e balordi
non vi si addicono.»
Raffaele, che avrebbe ambito a seguire la carriera militare, osservò quell'uomo
in divisa con una punta di invidia e come a volersi proporre per un esame sul campo,
rispose: «Se è necessario posso andar a chiamare le vostre guardie
…» Questa volta fu il fratello minore a strattonarlo: «Abbiamo
lasciato Marianna sola in casa!»
«Andate, andate.» ripeté don Luigi Conte.
Raffaele portò la mano al berretto, si mise quasi in posizione di attenti
e salutò il capo urbano. «Agli ordini signor comandante!» disse
prima di avviarsi dietro al fratello Pasquale confuso in mezzo ad altre persone
che stavano accorrendo verso la piazza di basso. Tra queste Domenico Amatuzzo, il
barbiere, e Fedele Vivona, il calzolaio, si erano accostati al sacerdote. «Stiamo
venendo dal seminario e abbiamo sentito gridare. Dalla Piazza di basso.» spiegò
Domenico a don Pasquale. «Sapete che cosa è successo?»
«Hanno aggredito don Antonio Cristofaro!» disse secco Raffaele alle
loro spalle. Fedele non riuscì a trattenersi dal raccontare quanto era accaduto
loro prima, quando incontrarono Peppinello Quintieri, il domestico di don Luigi
e poi dello straniero, che li aveva avvertiti di non scendere. La spiegazione non
fu così lineare e a maggior ragione Pasquale Candela si convinse che quella
era una serata da star chiusi in casa, al braciere, in famiglia. Accelerò
il passo, ma giunto nuovamente dinanzi la casa Cristofaro notò che il numero
dei curiosi era aumentato e altri entravano in casa di don Antonio. Si fece coraggio
e risalì le scale con Raffaele. Quando entrarono trovarono i due medici,
don Luigi Sarpi e don Baldassarre Conte, quest'ultimo che stava controllando la
fasciatura in testa del notaio.
«Ma che cosa è accaduto, esattamente?» chiese don Pasquale al
medico Sarpi, il quale gli fece cenno con un dito di tacere, poi chiamandolo in
disparte gli disse: «Pare che hanno ammazzato al figlio, a don Ciccio. Che
ora è qua sotto, nella casa di mastro Giuseppe.»
«Ohhh!» esclamò il giovane ecclesiastico, deciso ancor più
a rientrare a casa e sprangare l'uscio con due paletti.
«Venite, andiamo sotto, a vedere che cosa è veramente accaduto.»
«Adesso?» chiese timidamente don Pasquale.
«Che quando se no!» rispose con impazienza il medico. E si avviarono
a casa del sarto.
Don Pasquale non vide subito il cadavere, perché nascosto da don Luigi Sarpi
che lo precedeva e da altre persone. Superata la paura di trovarsi di fronte improvvisamente
un morto, prese per il cappotto don Luigi e gli sussurrò che doveva rientrare
perché in casa c'era la sorella Marianna sola. In quel momento si aprì
un piccolo varco e attraverso quello spicchio vide il sangue sul corpo e a terra.
Per poco non svenne, anzi pensò che si sarebbe dovuto buttare a terra spontaneamente,
anche senza il deliquio, affinché qualcuno impietosito lo portasse a casa.
Si pentì di aver accompagnato in quella visita un medico, che certo alla
vista del sangue non provava emozione alcuna, e pensò come uscire da quella
situazione senza apparire indifferente, o peggio vile, di fronte alla morte. Fortunatamente
quella non era una veglia funebre, con il rischio che gli avrebbero chiesto di accostarsi
per qualche officio religioso. Nella confusione che regnava nella stanza, tra voci
disparate, commenti, domande e qualche accenno di pianto, don Pasquale udì
la voce di Maddalena Piemonte redarguire il figlio con accenti esasperati. Tutti
tacquero e rivolsero la loro attenzione alle parole della donna.
«Che cosa ti è andato in testa di dire a don Luigi che era stato Vostro
fratello … che io l'ho visto … con questi occhi … che …
che … u cazzu ca ti frica! A tia … e a …»
Don Pasquale si fece il segno della croce temendo il peggio, ma l'imprecazione della
donna era rivolta a persone di questo mondo, anzi a quelle di casa propria.
Il figlio Salvatore cercò di calmarla: «Ohi, ma', mamma,
citta, ca non è successu nente. Aiu dittu solo a verità!»
«A verità … a verità … Scostumatu! Ci va dicia
allu frate, a nu scerdote, a n'uomminu i 'ghiesia,
ca è frate 'i n'assassinu!» gridava Maddalena. «Ma
adduvi a tieni a capu?!»
«Ma', ohi ma', carmati, ca puru tu c'ha dittu: l'ha ammazzatu Doggatano, ca
l'ha vistu figlima!» ricordò il figlio alla madre, quando con una punta
di orgoglio si era messa a confronto con quell'omone di prete.
«Ohi, ca mi vo' piglià nu 'nsurtu!
Ohi cu 'nbuogliu arrivà a dumani!
'Un l'avia canusciutu!
M'era parsu n'atru c'un c'era lustru!»
Nessuno trovò riprovevoli quei rimproveri di fronte ad un morto, perché
la ragione che spingeva la madre a redarguire il figlio per aver detto la verità
era ampiamente condivisa.
I commenti che si leggevano negli sguardi e nei continui cenni di assenso col capo
ad ogni parola pronunciata dalla madre erano tutti contro Salvatore.
Anche se nessuno dei presenti parlava, era come se dicesse: «Ha perfettamente
ragione. Un sarto, un morto di fame, che va a dire a don Luigi Cristofaro, canonico,
di famiglia per bene: tuo fratello è un assassino!» «Son cose
che non si dicono!» «Certo, pure che tu l'hai visto, pure che tu hai
cercato di fermarlo, ma come fai a dire: don Gaetano Cristofaro l'ha ucciso!»
«Manco che eri un giudice!» «E che diavolo!» «E chi
cazzo sei!» Qualcuno trovò l'epiteto adatto al giovane:
sbafante!
Don Pasquale, o perché era anch'egli un religioso, o perché l'alterco
gli impedì di vedere il sangue e il defunto, giudicò il risentimento
della donna frutto della volontà di Dio. Che cos'è la verità?
Dov'è la verità? si chiese, dubitando che quel giovane esagitato avesse
visto giusto. Si fece il segno della croce e raggiunse rapidamente casa sua.
Raffaele Candela era già rientrato e Marianna era in attesa del suo ritorno.
Appena lo vide gli disse che le voci parlavano tutte contro don Gaetano che aveva
ucciso il fratello cugino don Ciccio. Il giovane
fece suo un sospetto udito pocanzi da donna Marianna: «Dicono che anche don
Luigi …» Non finì la frase che don Pasquale gli girò
un manrovescio in pieno viso.
«C'eri? C'eri? C'eri?» ripeté tre volte, alzando ad ogni domanda
la voce. «E allora zitto!» concluse. Donna Marianna che avvertì
più del giovane il bruciore di quello schiaffo, sentenziò: «La
verità è che gli uomini di chiesa non dovrebbero andar girando di
notte!»
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