LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti
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11. Le due drude incinte in casa Cristofaro. Il sogno
di Fiorina
Un presagio, quel pensiero che si nutre di esperienze passate e le trasforma sotto
nuove spoglie in futuro, attraversò la mente di Fiorina. Si ricordò
il sogno che aveva fatto la notte precedente.
Andava all'altare vestita di nero ma poi si cambiava con un abito bianco e Ciccio
a fianco era un bambino. «Ma è mio nipote!» gridava al prete
che le sorrideva senza tonaca vestito da marinaio mentre la sollevava sull'acqua
che scorreva lungo la navata della chiesa e la dava a persone che dicevano parole
che lei non capiva. E qui il sogno si era interrotto.
Fiorina cercò un nesso tra ciò che aveva sognato e le sue esperienze
passate, ma anche, come sempre accade, cercò di interpretare il sogno in
previsione del futuro. Cosa le sarebbe accaduto avendo sognato di essere vestita
di nero? E chi sarebbe stato lo sposo che nel sogno era un nipote? Perché
il prete era vestito da marinaio? Il mare, quello sì, lo sapeva, perché
la madre ogni volta che sognava il mare diceva che era un brutto presagio.
Le venne a mente Marianna, la druda del fratello Gaetano, la
magara di suttalarco. Certamente lei era in grado di spiegarle quel sogno.
Donna Pasqualina l'aveva mandata a chiamare per dirle come comportarsi sulla questione
degli avvisi del sindaco.
Marianna era già in cucina, assieme a Catarineddra, entrambe in piedi di
fronte a Pasqualina Campanile che le stava istruendo con la sua voce imperiosa e
stridula: «I biglietti di don Gaspare sono
cartuzze, e le cartuzze si scigano.
Voi siete prene di chi nemmeno sapete». Quindi, rivolgendosi dapprima a Marianna,
disse: «Tu fai commercio, che tutti lo sanno, e il figlio non si può
sapere chi è il padre!» poi a Catarineddra: «A te l'ho già
detto: quando vai a lavare i panni …» e quindi ad entrambe: «Don
Gatano e don Luigi non c'hanno di trasire
di nente!»
Marianna la guardava in silenzio, Catarineddra ascoltava a testa bassa.
«Mo' falla uscire da stalla» disse alla serva. «E tu vattene
di sotto le monache, per i vineddre» disse all'altra.
Si congedarono da donna Pasqualina e si diressero con i loro carichi verso le scale
che portavano ai piani interrati. Fiorina provò disagio per l'ingiustizia
che le due donne erano costrette a subire: nel loro ventre c'erano i figli dei suoi
fratelli, che avevano lo stesso suo sangue. Se fossero state le loro mogli, lei
avrebbe visto nascere i suoi nipoti, avrebbe baciato le due cognate portando loro
un presente e, chissà, avrebbe fatto da comare dell'unghia o di battesimo.
Invece erano due estranee, e anche i frutti che portavano in grembo riguardavano
soltanto loro. Quando Catarineddra parlava di nascosto con don Luigi di
petrosino e di ferri, che Fiorina sapeva bene a cosa servissero, il sacerdote
non mostrava sentimenti né di padre né di amante né di prete.
«Sono cazzi tua!» le diceva seccato.
Fiorina non se la sentì di mandare via, nel buio, con la neve, una donna
incinta. La accompagnò di sotto, prendendole una mano come a proteggerla
da una caduta, mentre Catarineddra le precedeva reggendo il lume. Senza pensare
alle conseguenze, la invitò a restare che la mattina successiva don Gaetano
avrebbe sistemato ogni cosa con il sindaco. Poteva dormire sul pagliericcio che
usava Peppinello, che lui avrebbe dormito nel deposito.
La donna, abituata a soprusi e inganni, senza comprendere perché la giovane
si comportasse con lei in quel modo, pensò che il favore che le veniva rivolto
senza nulla chiedere meritava di essere ricambiato. Lo fece nell'unico modo che
conosceva che non fosse il mercimonio del corpo. Prese la mano di Fiorina tra le
sue e cominciò a leggerne i segni. Catarineddra posò il lume sul carracchio e, su invito di donna Fiorina, si accomodò
su uno sgabello di fronte a loro.
Fiorina narrò il suo sogno con la naturalezza con cui un malato spiega i
sintomi del male al medico. Marianna e Catarineddra ascoltarono: « …
prima ero vestita di lutto, poi con l'abito bianco. All'altare. Lo sposo era un
bambino e io gridavo: è mio nipote!»
Finì dicendo: «Ricordo che c'era tanta acqua e il prete era vestito
da marinaio». Marianna disse: «Sposerete vostro nipote e poi ve ne andrete
da sola - e qui si fermò un istante, dubbiosa, aggiungendo subito dopo -
o con qualcuno, lontano. Molto lontano!»
Fiorina la corresse: «Ti sbagli, caso mai lo sposassi si tratta di mio cugino,
non di mio nipote».
«Non l'ho sognato io, vussuria lo ha sognato»
rispose Marianna piccata nel sentire contraddette le sue arti. Fiorina aprì
la porta e la fece uscire nel buio.
12. La cena in casa Cristofaro
Era già notte quando don Luigi, Gaetano, i germani Salvatore e Giacomo Campolongo,
seguiti alcuni minuti dopo da don Eugenio e dal suo piccolo domestico, Francesco
o 'Ncicco com'era affettuosamente chiamato, ritornarono dalla spezieria per mangiare
la porchetta.
Don Luigi ordinò di apparecchiare una tavola per sei persone, o anche più,
che forse ne sarebbero sopraggiunti altri. I tre domestici, Catarineddra, Peppinello
e Vincenzo si diedero subito da fare per esaudire i desideri del padrone: chi portava
sedie e sgabelli, chi tavoli che venivano accostati, chi stoviglie. Quando don Luigi
o Gaetano invitavano amici in casa, il locale delle riunioni conviviali era sempre
il magazzino sottostante, quello adibito a cantina. Talvolta veniva usato anche
il locale nel quale erano conservate le derrate. Lì sotto potevano parlare
e sparlare a loro piacimento senza che le donne di casa potessero mettere a disagio
i partecipanti a quei convivi gaudenti e licenziosi. Solo Fiorina, talvolta, spinta
dalla curiosità, scendeva alcuni gradini della scala che portava dal piano
terra alla cantina per origliare.
In breve tempo quel luogo alquanto buio e inospitale fu trasformato in un angolo
accogliente, ravvivato dal fuoco, dai lumi accesi e dall'andirivieni dei domestici.
Il profumo della porchetta che si stava rosolando si sovrappose all'odore di muffa
e di rancido.
Don Luigi dirigeva i preparativi del pranzo con l'aria soddisfatta di chi poteva
disporre di ogni ben di Dio, compreso il di dietro di Catarineddra che sculacciava
ridendo ad ogni passaggio.
Gaetano, in silenzio dinanzi al fuoco, sorseggiava un bicchiere di vino, mostrando
di essere scarsamente interessato agli argomenti politici dei due fratelli Campolongo.
Questi continuavano a discutere dell'imminenza di una rivoluzione che, iniziata
dalla Sicilia e da Palermo in special modo, avrebbe coinvolto tutto il regno dei
Borbone. «Ferdinando» disse Giacomo «deve esser trascinato come
un galiuoto per le vie della capitale e poi giustiziato come merita:
appicato con una bella fune in ganna!» A queste parole, Gaetano,
rosso per il riverbero delle fiamme e per il vino, alzò il calice in un brindisi
all'intrasatta: «Aguru na vita longa a tutta a cumpagnia,
'nestra a chini vo' male a 'mia!»
«E chi ti vorrebbe male di noi?» piagnucolò scherzosamente Salvatore
Campolongo.
«I mali cuggini!» rispose senza indugio
Gaetano.
«Cugini cugini o cugini di sangue?»
«Entrambi.»
Così dicendo sollevò il bastone animato appoggiato alla sedia.
«Ma se ne potrebbero pentire …
cchi stintini 'i fora!» minacciò a voce e con il gesto.
In quel momento la porta delle scale si aprì ed entrò Eugenio seguito
dal suo piccolo domestico. «Eh!» esclamò l'invitato entrando
«le gridate si sentono di mezzo la piazza. Gaeta' stai attento che portano
in galera più le voci che i fatti!»
«Io?!» replico con aria innocente Gaetano portandosi la mano al petto.
«Io mi riferivo alle stigliole che
assaggeremo questa sera: gli intestini dei nostri galletti, che cantano sotto i
balconi.»
Ogni frase era detta con evidente allusione a qualcosa, che solo chi conosceva fatti
e persone poteva interpretare, e nel pronunciare le ultime parole, Gaetano, sollevò
la testa verso il soffitto quasi a voler far giungere la sua voce al piano superiore
per essere udita dalla persona a cui l'implicito avvertimento era rivolto.
La sorella Fiorina cessò di origliare e si affacciò immediatamente
alla porta, quasi a voler confermare di aver udito le parole del fratello. Raggiunse
la tavolata senza dire una parola, stese la grande tovaglia che aveva portato con
sé chiedendo a Giuseppe, il domestico, di aiutarla a coprire bene i tavoli
accostati tra loro.
Questo atto era compiuto da un membro femminile della famiglia come segno di accoglienza
da parte dell'intera casa. Fiorina, essendo la più giovane donna della casa,
assolveva a questo compito con il dovuto distacco verso ogni cenno di confidenza,
ma con la curiosità di osservare uno per uno gli ospiti. In quell'occasione
non si preoccupò di tenere le distanze che le regole imponevano e continuando
ad apparecchiare il desco improvvisato si rivolse al fratello sacerdote: «Don
Luigi, mi devo confessare perché ho commesso un grave peccato».
La voce era ferma e lievemente canzonatoria. «In questo momento» aggiunse
con tono deciso.
Nel silenzio che seguì sembrò che la mole del prete stesse aumentando
per le parole che gli restavano dentro gonfie di rabbia. Quindi esplose: «Quale
peccato puoi aver commesso se hai steso solo questa candida tovaglia?» chiese
don Luigi come se dicesse: «Briffalda,
vattene immediatamente di sopra prima che ti prenda a calci nel sedere». La
confessione, espressa in forma pubblica e a voce alta, perché tutti potessero
udirla, non si fece attendere: «Ho agurato in
cuor mio a nostro fratello Gatano di strafocarsi
con la carne del galletto.» Poi, quasi a spiegare l'insania del suo dire,
aggiunse: «Se si trattava del mio preferito!»
L'applauso spontaneo degli ospiti all'audacia della giovane impedì che l'ira
di don Luigi e del fratello Gaetano potesse mandare a gambe all'aria, nel senso
letterale dell'espressione, la tavola e tutto ciò che vi era di sopra. Per
lo scampato pericolo, più ancora che per la risposta, tutti scoppiarono a
ridere. Giacomo Campolongo, infrangendo le regole di buona creanza e accostandosi
a lei senza toccarla, gridò con entusiasmo: «Viva donna Fiorina. Sarete
la madrina della rivoluzione!» Poi, rivolto ai domestici di casa, con aria
di rimprovero, disse: «E voi non dovevate chiedere alla padrona di casa quale
pollo prendere per farne le mazzacorde?
Avete giusto ammazzato il gallo che svegliava donna Fiorina?!»
Fiorina, che della rivoluzione di quegli imbelli conosceva ogni segreto, li lasciò
alle loro infantili conversazioni e risalì col sangue alla testa al piano
superiore, chiudendosi nella sua stanza. «Bruttuni!»
li definì buttandosi sul letto.
Inutilmente Catarineddra e la madre cercarono di farle aprire la porta.
13. Le tre famiglie Cristofaro e in particolare la famiglia di don Michele
Le due piazze del paese erano candide distese sulle quali si affacciavano come occhi
sonnolenti le finestre strette e allungate dei palazzi intorno: quelli di Campolongo,
Talarico, De Chiara, Valentoni sulla piazza della Torre. Sul lato della piazza un'orribile
fucina buia pareva l'antro in cui guardiani infernali controllavano l'accesso al
brulicante girone chiamato Casalicchio.
Dall'altro lato una strada lastricata portava ai due palazzi Cristofaro: a sinistra
quello del fu don Domenico e donna Pasqualina Campanile che vi abitavano con i loro
figli, in primis il sacerdote Don Luigi e ultima, come scherzosamente era chiamata
dai fratelli, la 'virgo in capillis'
Fiorina. Poco più avanti, a destra, vi era la casa del secondo fratello di
Domenico, don Michele che vi abitava con la moglie donna Gaetana Scornajenchi, con
i figli don Salvatore, quasi già prete e gran bella testa, il giovane Pasquale,
le piccole Clorinda ed Ersilia, e Gargia, la taccola che dalla finestra rispondeva
ai richiami dei suoi fratelli liberi di volare.
La casa di don Michele era sotto la torre, con i magazzini sulla strada e la pubblica
fontana di Santomarco così accostata da sembrarne parte. La chiesa di San
Marco, all'imbocco della vecchia strada consolare, dopo essere stata per un certo
tempo sconsacrata era stata riaperta al culto e ai sacramenti. Sovente don Salvatore
e la madre donna Gaetana vi andavano a pregare. Oltre la fontana c'era la strada
che portava al convento dei Riformati: una vasta distesa bianca con arbusti gracili
e rinsecchiti ripiegati sotto il peso della neve.
Don Michele attendeva il ritorno dal seminario del figlio maggiore e di tanto in
tanto, coprendosi con un vecchio scialle, si affacciava sperando di vederlo spuntare
dalla porta Santomarco, o Portavecchia com'era comunemente chiamata.
Approfittava anche di quelle rapide affacciate per sbirciare verso la casa del fratello
Domenico, dalla quale provenivano risate e grida, segno che vi si stava svolgendo
una della consuete gazzarre che si sarebbe prolungata con canti e schiamazzi fino
a tarda sera.
«Il prete del cazzo e l'altro capovolata
del fratello sono già a tavola!» disse rientrando alla moglie in ansia
per il ritardo di Salvatore. «Qualche volta li vedremo uscire con i ferri!»
aggiunse allontanando un pensiero con un altro, come chiodo scaccia chiodo. «Dovevi
sentirlo il prete alla farmacia di don Eugenio contro Ciccio: 'A coltellate finisce!'»
Il chiodo si sovrappose all'altro senza cacciarlo e così dopo aver esternato
inutilmente altri commenti sui nipoti don Luigi e Gaetano, parlò del proprio
figlio: «Certi suoi amici non mi piacciono per niente, soprattutto quando
cominciano a parlare del re, della nuova regina e di tutti quei discorsi che niente
hanno a che fare con un prete». Le parole di Michele, rivolte alla moglie
e finanche alla piccola Ersilia che ripeteva ridendo: «Re e regina, re e regina»
erano espresse con la preoccupazione di chi, avendo accumulato con sacrifici una
discreta fortuna, aveva puntato tutte le sue speranze sui matrimoni delle figlie
e su un figlio sacerdote. Perché avere in casa un uomo di chiesa era un investimento
sicuro: spesato e rispettato.
Mentre così ragionava, sopraggiunse il piccolo Angelino. La nonna Gatana
lo fece sedere sulle sue ginocchia e lui le chiese perché il nonno fosse
arrabbiato.
«Perché tuo zio con tutta questa neve ancora non è tornato e
adesso io e te lo andiamo a prendere» rispose don Michele con una voce in
falsetto e rassicurante, aprendo a tutti i bambini la speranza di correre e saltare
in quel campo bianco sotto casa.
Maddalena, la mamma, tenendo in braccio Girolamo, insofferente e febbricitante,
spense ogni entusiasmo: «Padre, vussuria
li vuole tutti a letto ammalati, se gli dice queste cose». Angelino si unì
al coro dei figli di don Michele e tutti lo implorarono di portarli sulla neve.
Questo allegro picciare di piccoli zii
e altrettanto piccoli nipoti, che avevano circondato quel buon uomo chiamandolo
ora papà e ora nonno, commosse sia donna Gatana che la giovane nuora Maddalena.
La memoria di entrambe corse a Nicola, figlio della prima e sposo dell'altra, che
a soli venticinque anni aveva chiuso gli occhi per sempre.
Quando Nicola e Maddalena si erano sposati tutti pensarono che si trattasse di comunione
o cresima di due germani, tanto erano giovani: lui aveva solo sedici anni e lei
appena dodici.
«U matrimoniu di picciriddri»
dicevano ridendo parenti e conoscenti, anche se Nicola con un lieve accenno di peluria
sul viso cercava di assumere un atteggiamento compunto e responsabile.
«A sposa si risbiglia pisciata!»
«Jocano alle bambole!» «Adduvi simu arrivati!!» furono i
commenti salaci alla notizia del matrimonio.
«Vuoi tu Maddalena Ricca Servidio con il consenso di tua madre Michelina prendere
come sposo il qui presente Nicola Scornavitella Cristofalo di Michele e Maria Gaetana?»
«Sì» rispose con la sua voce infantile la sposa. Era la prima
domenica di ottobre del 1835.
Poi ognuno rientrò a casa sua e solo occasionalmente Nicola e Maddalena poterono
scambiarsi qualche parola e tenersi per mano. Fu una restrizione necessaria suggerita
anche da don Baldassarre Conte, il medico, e da don Bova, il confessore degli sposi,
l'unico a sapere che la piccola Maddalena non era stata toccata quando fu scoperta
dalla madre, sotto casa, in compagnia di Nicola.
«Puttana!» fu detto e gridato da più parti, e per alcuni mesi,
da parte dei genitori di Nicola alla bambina e da Michelina, la madre nubile di
questa, a donna Gatana.
«Va scuorna i jenchi!»
le gridava «Che pure Nicola si chiama come a ttia!» alludendo alla nascita
presacramentale del futuro genero.
«Figuriamoci, tu l'ha abbannunata allu Capo
di Rosa!» era la replica di donna Gatana alla futura consuocera che aveva
conosciuto a sue spese ardori e promesse di un cosiddetto galantuomo.
Col tempo le urla si affievolirono, gli stracci cessarono di volare, gli animi si
acquietarono e tutti accettarono l'idea che Nicola era un piccolo adulto e che Maddalena
poteva ben essere avviata a diventare moglie e genitrice.
E così, considerando che a tredici anni poteva essere iniziata alle gioie
e ai dolori della vita adulta, nel mese delle rose e della vergine Maria fu consegnata
al suo giovane e fremente sposo, che, non sappiamo con quale approccio, seppe ingravidarla
del piccolo Angelino.
Dalla madre non più bambina nacquero Girolamo, che ora lei teneva in braccio
e che la morte le avrebbe tolto di là a qualche mese, e Carmela che ad onta
del suo secondo nome, Fortunata, morì a due anni già orfana di padre.
Questi tristi ricordi erano lì, con alcuni frutti fortunosamente vivi, in
quella stanza, nonostante tutto, ancora scaldata dagli affetti e dal fuoco, mentre
dal cielo la neve continuava a cadere silenziosa sulle piccole e grandi miserie
umane.
14. La famiglia di don Antonio Cristofaro
Da Portavecchia si poteva raggiungere la piazza di basso - e i quartieri sottostanti
ad essa - attraverso due strade: quella principale che dalla piazza della Torre
portava presso la chiesa di San Giovanni, passando tra casa Conte, il convento delle
Chiariste, le case Valentoni e La Regina, oppure quella del quartiere della Giudeca,
sotto il convento.
Lo spazio rettangolare ricoperto di neve faceva apparire la piazza più grande
e gli edifici che la racchiudevano ancor più ampi.
La casa di don Antonio Cristofaro si affacciava sul lato minore, e il retro dell'edificio
nel sottostante quartiere di Santo Petruzzo, a fianco del palazzo Campagna. Sul
lato destro, unita al corpo principale, c'era la casa abitata un tempo da donna
Francesca, maritata Cinelli, unica sorella dei germani Antonio, Domenico e Michele.
A livello della piazza alcuni gradini protetti da una grata portavano ad una loggetta
e da qui si saliva ai piani nobili. A fianco della grata c'era la bottega di mastro
Giuseppe Totta, calzolaio. Don Antonio, ultimo fratello di don Domenico e di Don
Michele, di professione notaio, con incarico di cancelliere, abitava in quella bella
casa con la moglie donna Aurelia Caruso, due figlie e due figli già maggiorenni,
il giovane Beniamino, studente al seminario, la minore Rosina e i piccoli Clarice,
Odoardo e Raffaele, quest'ultimo di soli quattro anni.
Il secondogenito Francesco, chiamato anche Ciccio, o Ciccillo da parenti e amici,
era sostituto cancelliere presso il comune. Poco propenso a frequentare le compagnie
di giovani che si inebriavano di progetti rivoluzionari, svolgeva con scrupolo il
proprio lavoro nel rispetto delle leggi e delle istituzioni. Il sindaco riponeva
in lui la massima fiducia e, nonostante la giovane età, gli chiedeva spesso
consigli e pareri. Francesco Cristofaro si era innamorato di una giovane alla quale,
come capita ai timidi, non aveva ancora manifestato i suoi sentimenti nonostante
le fosse stato vicino in più di una circostanza. Era Fiorina, sua cugina,
figlia dello zio Domenico. Da quando una causa civile tra le due famiglie aveva
interrotto le frequentazioni tra i due, Francesco e Fiorina si scambiavano muti
messaggi dalle finestre delle rispettive case, e in seguito anche qualche biglietto
con poche note portato fugacemente da Giuseppe, il domestico di Fiorina, o da Sabella,
una loquace giovinetta disposta a far da mezzana per amore non si sa di chi.
Francesco dal balcone più alto della casa di zia Francesca, con un fazzoletto
o sollevando il lume inviava casti messaggi d'amore. Tutto qui, ma anche quei piccoli
gesti innocenti non passavano inosservati a Gaetano, il fratello di Fiorina, il
quale era disposto a tutto pur d'impedire un futuro matrimonio tra i due. Francesco
ogni qual volta scendeva nella stalla o in un magazzino, oppure quando si recava
al comune a pochi passi da casa sua, si guardava sempre alle spalle conoscendo il
carattere litigioso e violento del cugino, le cui minacce erano state segnalate
più volte al brigadiere Annicchiarico. Anche don Antonio ne aveva parlato
con il giudice Giambattista Cavallo, ma non aveva trovato nessuno disposto a testimoniare,
tranne il figlio maggiore Ignazio, che essendo di parte non era attendibile, e lo
stalliere, che essendo domestico lo era ancor meno.
A complicare i rapporti tra le due famiglie c'era anche un onesto sentimento di
amore di Giovannina, la sorella di Francesco, nei confronti di Gaetano. Si era creato,
da più di un anno, questo doppio legame, o per meglio dire una doppia speranza
di matrimonio, osteggiato da entrambe le famiglie. Da quando erano entrati in gioco
diritti di possesso sui beni della zia, le speranze si erano trasformate in maledizioni,
anche se i giovani continuavano, almeno in apparenza, a volersi bene. Francesco
sperava in cuor suo che un giorno o l'altro la pace sarebbe ritornata tra le due
famiglie, magari con la mediazione dello zio Michele che di affetti abbondava.
15. La continuazione della cena in casa Cristofaro
«Alla salute dei patroni di casa» disse
Salvatore Campolongo sollevando il bicchiere pieno sino all'orlo non appena Vincenzo
e Peppinello entrarono con le carni fumanti e rosolate della porchetta ben disposte
in due grandi bacili di portata.
Giacomo ed Eugenio Romita si unirono all'augurio: «Per adesso e per altri
cent'anni».
«Chi entra in questa casa è sempre il buonovenuto. Per adesso e per
altri cent'anni» rispose Luigi.
E Gaetano a ruota: «Alla faccia di chi ci vuole male e che non possa arrivare
a domani».
Quattro bicchieri di vino per ciascuno si erano così aggiunti agli altri
bevuti in casa De Chiara. Don Luigi invitò anche Peppinello, 'Ncicco e Giuseppe
a prendere posto accanto alle due botti che un'asse di castagno aveva trasformato
in desco per la servitù. Chiamò anche Vincenzo più volte, ma
probabilmente era occupato a portar vivande o a prepararne di altre.
In un'altra occasione le abbondanti libagioni, i canti, le allusioni lascive, i
racconti salaci e le volgarità di ogni genere si sarebbero prolungate fino
a tarda notte. Questa volta, invece, durarono poco, sia per l'antipasto in casa
De Chiara ma soprattutto per l'inquietudine mal dissimulata di Gaetano e per un
certo disagio degli ospiti.
La porchetta e il venerdì furono gli argomenti sui quali gli ospiti insistettero,
forse per evitare che pensieri peggiori potessero guastare il convivio e la serata.
Sembrava che Salvatore, Giacomo ed Eugenio si fossero messi d'accordo per impedire
che don Luigi e Gaetano potessero ritornare sull'argomento che li assillava.
«Chi cazzo è don Gaspare di questi coglioni?» aveva gridato Gaetano,
subito sopraffatto dalla contro rima di Eugenio: «Nun parlamo di cazzi e cugliuni
a tavola! Semmai visto che oggi è vennere, don Luigi avrebbe da restare digiuno!»
«Quando nevica il corpo ha bisogno di più calorie, don Eugenio.»
rispose il prete «E voi che sapete di medicine per il corpo, ma non di chiesa,
dovreste voi stesso consigliarmi di mangiar carne! Che a far peccato ci penso io!»
«A proposito di peccati, lo sapete qual è il peccato di gola?»
chiese Giacomo in attesa di una risposta.
«Giacomì, è vecchia, l'hai già detta quando parlavamo
di Mari…» si lasciò sfuggire il fratello maggiore senza riflettere.
Purtroppo, quel mezzo nome rievocò le ambasce e l'odio di Gaetano, il quale
non era risentito che si stesse accennando alla sua druda, che anzi, per dirla tutta,
l'avrebbe portata lì alla mercè degli altri per dimostrare quanto
fosse generoso. Quel mezzo nome riaprì le porte al pensiero che prima non
aveva potuto esternare, perché interrotto da don Eugenio.
«Don Gaspare è n-i-e-n-t-e!» disse, e qui il suo dire
fu nuovamente interrotto da Salvatore Campolongo: «Intanto è parente
a mia, caro Gatano, e quindi niente non è! E secondo, ha fatto forse quello
che qualcun altro gli ha chiesto di fare, perché io lo conosco bene che non
sarebbe capace di andare contro a quelli che sono bravi cuggini.
E tu mi capisci!» Fu interrotto da Gaetano: «Bravo, è quello
che penso anch'io. Doggaspare sarà stato suggerito da qualcuno che mi vuole
male, a me e a mio fratello e a tutti di casa mia, e che sta vicino al sindaco,
e gli avrà detto fai così e così che tutti dicono che i fratelli
Cristofaro fanno quello che vogliono e che non li fa niente nessuno perché
hanno paura che portano l'armi addosso».
Gaetano, con la voce impastata per il troppo vino, parlava a
bambera: «Ciccillo, che non è più mio
fratello cuggino, perché io lo rinnego dallo stesso sangue,
è lui che vuole pigliarsi tutto che non si sazia mai e vuole questo e vuole
quello e vuole anche nostra sorella Fiorina e domani anche questa casa così
come s'ha preso la casa di zia Francesca che la convinta - e qui faceva il verso
di un parlare fitto - ciu-ciu ciu-ciu ciu-ciu, che mi hai cresciuto che mi chiamo
come a ttia che a mia mi vedi sempre e tippete e tuppete e …»
La saliva aveva invaso la bocca e fuoriusciva biancastra dagli angoli delle labbra,
gli occhi erano spalancati, il viso contratto e il corpo proteso in avanti, da apparire
prossimo ad una crisi convulsiva. Si lasciò cadere sulla sedia e il bicchiere
che teneva in mano si frantumò a terra.
Don Luigi gli si accostò, spostando con energia quanti si trovavano davanti
a lui, gli prese la mano e portandosela al petto, disse con aria ispirata alludendo
a se stesso: «Gatà, affidati sempr'Addio, che Dio è grande!»
Subito dopo aggiunse: «Mo' mangiamo sta porchetta, beviamo solo un altro bicchiere
di vino e poi usciamo, ca nu pocu d'aria frisca ni fa bene. A tutti.»
Gaetano, con gli occhi chiusi, respirando profondamente per calmare le violente
pulsazioni delle tempie, emise un sonoro sbuffo quasi a voler dire «Guardate
quante pene mi provoca quel farabutto di Ciccillo!»
Dal tavolo improvvisato i domestici non si mossero fin quando non udirono quel profondo
sospiro che li tranquillizzò. «Su, su, che non è successo niente!»
disse Luigi «che mo' vi faccio provare l'ultima
'ncatarata! due orecchie allu suzu».
In quel mentre 'Ncicco, il piccolo domestico di don Eugenio appartato in un angolo
della cantina con gli altri domestici cominciò a lamentarsi. Il padrone si
alzò dal suo posto, si accostò a lui e, posandogli una mano sulla
fronte disse: «Ehi, tieni a freve».
«No,» rispose lui «mi fa solo freddo». «Vatti a mettere
vicino al fuoco. Hai mangiato qualcosa?» «Toh, beviti questo bicchiere.»
«No, ne ha già bevuti due.» «Ma se ha freddo gli fa bene
un altro po' di vino.» «Ma quale vino, è un bambino!»
Le parole e i consigli si accavallavano, mentre 'Ncicco, sorreggendo con la mano
tremante un bicchiere che qualcuno gli aveva riempito, si accostava barcollando
al caminetto acceso.
«Che mo' ti porto alla casa» gli disse don Eugenio, e poi, rivolto agli
altri: «Beh, andiamo che accompagno 'Nciccuzzo a casa, che mi pare soprattutto
'mbriaco!»
A malincuore quei galantuomini e i domestici vollero lasciare il proprio posto.
«Almeno un portogallo per farci la bocca!»
disse Salvatore Campolongo.
«Vincenzo! Vincenzo!» chiamò Luigi per esaudire il desiderio
dell'amico. «Vincenzo! Adduvi cazzu si?!»
gridò all'indirizzo del domestico che non si trovava e quando lo vide comparire
in camicia e col camuffo slacciato
al collo gli chiese dove si fosse cacciato. «Ero di sopra a metter legna nel
camino per i bracieri» rispose infilandosi la giacca. «Portaci delle
arance. Quelle di Corigliano» gli ordinò don Luigi. Non mangiarono
solo quelle. Ci unirono anche pecorino e qualche altro bicchiere di vino. Quindi
«del mangiare e del bere spento in ciascuno il natural desio»
decisero di uscire.
«Peppinuzzu tu resta che non c'hai le scarpe adatte. Tu e Catarineddra e mettete
tutto a posto» ordinò don Luigi, aiutando Gaetano ad alzarsi. «Suvvia,
che non è successo niente» gli disse con tono rassicurante. Gaetano
si liberò del suo appoggio, prese il bastone appoggiato alla sedia e salì
i gradini sulle gambe malferme.
La comitiva - anche se non poteva definirsi tale perché nessuno di loro era
un brigante - uscì cantando: «Sammarco
ha quattru pizzi e nun sia detto di tutti quattru sugnu innamuratu
…»
«Si avviarono tutt'i suddetti individui verso la piazza di basso del paese,
e pervenuti innanzi la farmacia del signor Conte si risolverono D. Luigi canonico
Cristofaro e D. Eugenio Romita a condurre nell'abitazione di quest'ultimo il piccolo
domestico Esposito perché ebro e intirizzito dal
freddo per la neve caduta.»
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