LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti

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6. Gaetano insulta Francesco nella stalla. Maria Gaetana Madorno

Gaetano proseguì il suo cammino fino alla piazza di basso, salendo da dietro la chiesa di San Giovanni, per poi infilarsi sotto l'arco della torretta della Giudeca e dirigersi verso Santo Petruzzo, sicuro che avrebbe trovato il cugino Ciccio nella stalla sotto casa.
Francesco, infatti, era sceso a portar biada alla vettura, così come faceva sempre, ed essendo in fondo al lungo vano quasi buio non sentì, né vide entrare Gaetano. Udì invece le sue parole: «A donna Fiorina te la puoi scordare, se no prima ammazzo mia sorella e poi ammazzo te!» E così gridando gli si avvicinò minaccioso. Francesco afferrò il forcone, temendo per un attimo di doverne fare uso per rintuzzare i tentativi di aggressione del cugino ma questi, dopo avergli ripetuto le minacce e sputato addosso, uscì dalla stalla.
Le grida avevano richiamato l'attenzione del padre di Ciccio, don Antonio, che si affacciò chiamando a gran voce il figlio per sapere che cosa stesse accadendo. Ciccio gli disse di rientrare perché non era successo nulla di grave, solo parole con Gaetano, il cugino, per la questione dell'inimicizia tra le famiglie. Il padre gli chiese se fosse andato ancora sotto le finestre di Fiorina e lui rispose stizzito: «E chi l'ha vista!» continuando a metter biada nella mangiatoia con rabbia.
«Fiorina, Fiorina, Fiorina» fece il verso con tono di scherno una voce femminile. Subito dopo una giovane donna sbucò da dietro una balla di fieno accostandosi a Francesco. «Torna a casa, passo io da te questa sera» le disse lui continuando a inforcare il fieno senza alzare lo sguardo. Lei si accostò e cercò di posargli una mano sulla spalla per rabbonirlo.
«Vavattinni, c'unn'è u momentu!» le disse adirato, mentre lei continuava ad avvicinarsi per accarezzarlo. Francesco, d'un tratto, come se avesse cambiato umore e idea, con uno slancio improvviso gettò a terra l'attrezzo che teneva in mano e cercò di afferrarla. La donna fu pronta ad indietreggiare con un balzo. «Fattela dare da donna Fiorina!» gli gridò. Non era la prima volta che gli si negava, in altre occasioni lo faceva per farlo ingelosire, perché aveva il mese, per semplice capriccio. Questa volta lo fece con il proposito di farlo soffrire, di dimostrargli che era capace di non soggiacergli.
Da due anni Francesco le aveva messo gli occhi addosso, prima con la scusa di prenderla in casa come domestica della madre donna Aurelia, poi dicendole che era rimasto colpito dai suoi occhi, poi facendole qualche piccolo regalo e infine, un giorno che passò dinanzi la stalla, le chiese se voleva vedere la cavalla che aveva figliato il giorno prima. E così la prese, lì, e la trattenne, che non aveva ancora diciotto anni.
Poi cominciò a frequentare la casa di lei, e la madre, grazie alla promessa di benefici presenti e futuri, accettò che la figlia diventasse l'amante di don Ciccio. Mentre in Maria Gaetana il desiderio di incontrarlo cresceva di giorno in giorno, in lui diminuiva la voglia di lei. Gaetana cercava di attrarre Francesco con leziosità, moine e bronci. «Mi fa scastà l'arma …» le diceva lui con un certo disprezzo e poi la copriva senza dire una parola. Solo quando stava raggiungendo l'orgasmo le prometteva soldi, matrimonio, figli, casa e terre, mentre lei ansimava ad ogni promessa, conscia che da lì a poco tutto di lui sarebbe finito in quel buco senza memoria.
Gaetana si avviò verso l'uscita, mentre Francesco temendo qualche spaparanzata cercò di trattenerla: «Ninuzza, aspetta!», ma la giovane, data una rapida occhiata fuori dalla porta, corse verso casa.
«'Ncul'a ttia e a mammita!!» le gridò Francesco.
«A ttia, e a mammita!» lo ricambiò lei girandosi un istante.
Francesco si era pentito - nel senso peggiore della parola - di quella relazione che durava ormai da tempo, e finanche della compiacenza della madre che usciva da casa ogni qualvolta lui vi entrava, per farvi ritorno dopo un'ora, a rapporto consumato. Lo sapevano tutti che Gaetana Madorno faceva commercio illecito con don Ciccio, e quando la notte vedevano Maria Francesca Ferace girovagare per i vicoli, strizzando l'occhio commentavano: «Mamma escia e Cicciu trasa!»
Maria Francesca faceva finta di niente, come se quelle passeggiate con pioggia o vento fossero la cosa più naturale di questo mondo per una vedova di trentasei anni! Per evitare, però, che si facessero cattivi pensieri anche su di lei, si teneva lontana dalle case di conoscenti, amici e parenti. Nelle sue camminate forzate incontrava o vedeva persone, anche senza essere vista. In una di queste circostanze le capitò di vedere il cugino di don Ciccio, don Gaetano, in compagnia di Vincenzo, il galiuoto, appostati prima nel vico Puzzillo, dopo in un angolo di Santo Pietruzzo, a guardare verso la casa di don Ciccio. La madre lo disse alla figlia, la quale lo disse al suo amante, il quale, ridendo, sollevò qualche dubbio su ciò che Maria Francesca diceva di aver visto.
«Saranno stati due clienti di Cosci 'i voia» le disse alludendo alla donna che faceva meretricio alcune case più sotto.
«Guardavano alla casa di Vussuria!» ribadì Gaetanina a Francesco, il quale continuò, purtroppo, a non dar peso ai sospetti della madre e alle preoccupazioni della figlia. «Ah, s'avia asuliatu a mamma!» disse ad una amica alcune ore dopo l'ultimo incontro con l'amante.

7. A casa De Chiara

Don Luigi uscì per andarsi a bere un bicchiere di citrata magnesia da don Eugenio, e anche per cercare di saperne di più sulle indagini del sindaco sulle loro drude, la sua, Catarineddra, e la magara di suttalarco, come lui chiamava con disprezzo l'amante del fratello.
«Ma da quando in qua un sindaco si occupa di femmine gravide?» si chiedeva passando sotto casa Campolongo, mentre ricominciava a nevicare. Giunto alla spezieria, chiese innanzitutto a don Eugenio se avesse visto il proprio fratello Gaetano, poi, dopo aver bevuto il bicchiere di magnesia ed aver emesso alcuni rutti che egli definiva salutari per il corpo e per lo spirito, propose allo speziale di accompagnarlo a casa De Chiara, dov'era consuetudine ritrovarsi per dirimere beghe. O crearne di nuove.
Don Luigi sperava di incontrare lì, luogo di galantuomini, qualcuno che lo informasse sulle indagini del sindaco e se fosse vero che l'occulto suggeritore dell'informativa fosse suo cugino Ciccio.
Attraversarono la piazza e giunsero dinanzi all'ingresso di casa De Chiara. Don Diego, buonanima, dopo che erano state tolte le ultime rovine dell'ospedale dei poveri attaccato alla sua casa, aveva fatto restaurare il portale e la facciata.
Don Luigi, che non riusciva né voleva nascondere i sentimenti di invidia che provava dinanzi al benestare altrui, disse a don Eugenio che un giorno, alla morte del padre, avrebbe rifatto la facciata della casa, cento volte migliore di questa che gli pareva meschina, solo che don Gaspare, il sindaco, gli doveva togliere quella vecchia porta della città che gli rovinava il prospetto.
Mentre era intento a spiegare i suoi progetti, venne ad aprire il portone don Pasquale, il sacerdote, che con i suoi modi gentili e aggraziati diede il 'buonivenuti', ricambiato dal 'buonotrovato' degli ospiti. Don Luigi, mentre salivano le scale verso il piano superiore, non mancò di far notare all'amico, toccandolo con il gomito, le calze di lana fine che si intravedevano sotto la tonaca del prete, sorrette da due taccaglie sotto il ginocchio. I modi garbati e gentili di don Pasquale De Chiara e certe sue raffinatezze erano per don Luigi la certezza che fosse ricchione, ma non avendone alcuna prova, aveva ritenuto giusto inventarne qualcuna e diffonderla nei conviti con gli amici. Al piano superiore trovarono un altro sacerdote, don Domenico Talarico. Alcuni fogli di appunti sul tavolo, una focaccina colle alici e due bicchieri di vino bianco di Tocco, erano le tracce di una piacevole discussione appena interrotta. I due nuovi arrivati furono invitati ad accomodarsi e ad assaggiare quel che era in tavola, che presto avrebbero avuto il vino e, se ne gradivano, un'altra focaccia.
Stavano leggendo alcune poesie del giovane Candela. «Bella testa che Dio gli dia vita e ispirazione» disse don Pasquale, e don Domenico aggiunse che pochi ce n'erano come lui che a soli ventitre anni erano entrati nella cerchia dei più dotti galantuomini della provincia. Don Luigi pensò tra sé che doveva essere ricchione anche lui, il giovane s'intende, che di don Domenico non aveva alcuna considerazione. Finse di compiacersi anch'egli della fortuna che avevano donna Margherita, la madre e donna Marianna, la sorella, di tenere in casa questo geniale frutto della capitale. Il tono eccessivamente enfatico e le parole pronunciate masticando tradivano i reali sentimenti del canonico che non tentava, neppur per rispetto all'ospitalità, di mascherare.
I nomi delle due donne accostate a quel velato accenno di nascita nella capitale del regno avevano il sapore di un'ingiuria, anche perché era noto che in casa di don Luigi e in casa di don Eugenio circolavano idee politiche diverse da quelle che circolavano in casa De Chiara, o almeno di quelle che don Pasquale, moderato e amante del quieto vivere, non condivideva.
La Costituzione, che già nel 1821 aveva diviso gli animi, le amicizie e finanche le famiglie, era nuovamente sulla bocca di tutti: di coloro che speravano che fosse promulgata e degli altri che la consideravano fonte di disordine sociale. I giovani, in genere, erano esuberanti e smaniosi di vedere novità, gli anziani a cominciare dai genitori erano più prudenti e timorosi di perdere ciò che possedevano.
Le parole si sprecavano, assieme al tempo e al vino, nelle lunghe tavolate.
Forse l'accenno al nome Marianna o forse il fatto che si fossero nominate due gentildonne, in una riunione di canonici, fece scivolare il discorso sulla morale femminile e in particolare sulle donne prossime a partorire. E per restituire pan per focaccia il mite don Pasquale esordì dicendo che spesso, troppo spesso, le donne di servizio restavano gravide.
«Chissà perché, forse per il troppo affetto dei loro giovani padroni.» L'accenno garbato e malizioso fece sorridere lo stesso don Pasquale, don Domenico e don Eugenio, ma non il canonico Cristofaro che non apprezzò affatto le allusioni del correligioso.
Si trattenne però dal reagire come avrebbe voluto. In altra occasione e con qualche bicchiere in più la sua mano sarebbe corsa nella tasca in cui portava il coltello inguainato; oggi la cosa a cui teneva di più era sapere chi avesse indotto don Gaspare a prendere le misure precauzionali per impedire che i prossimi nascituri fossero proietti. Non tutti quelli che sarebbero nati ma solo quelli di Catarineddra, la sua serva, e della magara di suttalarcu. La tensione si stemperò con l'arrivo di altre focacce di grano indiano con alici salate e di due brocche di vino rosso di Piparo.
Don Luigi, visto che il mangiare e il bere avevano ben disposto l'animo dei presenti ad una sempre maggiore loquacità, suggerì di estendere la conversazione ad altri galantuomini ben pensanti, e fece i nomi del capo brigata don Giovanni Annicchiarico, dei fratelli Campolongo, del dottor Luigi Sarpi e del proprio fratello Gaetano.
La loro influenza e l'amicizia con il sindaco avrebbero potuto sistemare una questione che rischiava di esasperare ancor più l'astio tra due famiglie, oltre che far diventare ciò che da sempre era uno sfogo all'esuberanza maschile un riconoscimento di paternità.
«Già le case erano invase da serve e muli di padre incerto» ragionò don Luigi «se poi di ogni nato per impudicizia della madre se ne devono occupare anche i preti addio religione!»
Don Pasquale De Chiara, forse di malavoglia ma certo per non apparire avaro, fu il primo ad approvare l'idea del convivio e diede ordine al servo Filippo di andare a chiamare le sunnominate persone e di far portare in tavola altre focacce e vino per i nuovi invitati.
Giacomo e Vincenzo Campolongo che abitavano all'altro lato della piazza giunsero per primi, seguiti da don Luigi Sarpi e, dopo una mezz'ora circa, da Giovanni Annicchiarico, che si scusò del ritardo per aver dovuto disporre i turni di guardia per la notte. Gaetano arrivò più tardi, un po' alterato ma comunque consapevole che tutte quelle persone potevano sempre essere utili per aiutarlo ad uscire impunito dalle innumerevoli sbirrate alle quali sovente si abbandonava.
I fratelli Campolongo si erano seduti a lato di don Luigi, don Gaetano si trovò accanto il sottufficiale e il dottore Sarpi si sedette tra il padrone di casa e il sacerdote Talarico. Dai vetri appannati dal calore della stanza si intravedevano le case Candela, Campolongo, Aiello e, immerse già nella nebbia e nell'incipiente oscurità, le sagome di Castrocucco e Bocita.
Don Domenico, come se l'argomento del colloquio precedente non si fosse mai interrotto, continuò il suo ragionamento sull'abbandono dei figli da parte di madri snaturate. I nuovi arrivati, ben sapendo che una tal questione riguardava proprio i fratelli Luigi e Gaetano, lì presenti, ed essendo al corrente della decisione del sindaco don Gaspare di contrastare gli abbandoni, non mostrarono interesse alcuno ad intervenire. Solo don Giovanni si introdusse nel discorso, affermando che la questione non era solo morale ma da un punto di vista economico era di grave pregiudizio per le povere casse comunali, oberate di spese di baliatico, per non parlare della provvisione a suor Crocifissa e alla casa dei proietti. Ben faceva il sindaco ad avvertire le gravide che erano serve in questa o quella famiglia, e i loro padroni, a dar conto delle nascite.
Don Luigi non mise neppure questa volta la mano in tasca, anzi posò bene in mostra entrambe le mani tamburellando con le dita sul tavolo e, come a voler richiamare don Pasquale al suo dovere di anfitrione, disse scherzosamente che le alici stavano prendendo il largo!
Tutti risero e così l'argomento fu interrotto; ciascuno allungò la mano verso una novella porzione di focaccia e un bicchiere di vino. Mangiando e intruzzando i bicchieri furono fatti gli onori a casa De Chiara e ai suoi ospiti.
Don Pasquale, con un'apparente aria di compiacimento per la presenza di tanti amici, versò più volte il vino e quando, giunto al posto del canonico don Luigi, ne versò quel poco che era rimasto nella brocca, si sentì da questi apostrofare: «Don Pascà, non devo fare un figlio prete!»
L'espressione, usata scherzosamente ogni qualvolta il bicchiere non veniva riempito, in altra circostanza avrebbe fatto ridere ma in quell'occasione produsse tutt'altro effetto: un silenzio così corposo da fare sentire la neve che cadeva, mentre la mano di don Pasquale posava lentamente la brocca dinanzi il bicchiere pieno a metà.
«Ve ne faccio portare subito una brocca piena, se questo vi potrà aiutare a non fare figli preti e, soprattutto, a non farne del tutto visto che siete un sacerdote» disse l'ospite di casa scandendo le parole, con voce ferma ma senza alcun tono di riprovazione per quel che aveva udito.
La mano di don Luigi scivolò lentamente dal tavolo verso la tasca e qui si fermò. Gli occhi freddi e severi del brigadiere puntati su di lui lo fecero desistere dal commettere un'azione di cui si sarebbe pentito con la testa in ordine.
Gaetano, persuaso come sempre che ognuno poteva fare e dire ciò che meglio gradiva, e per superare in spavalderia il fratello Luigi, si alzò e disse con la voce impastata: «I bicchieri si empiono e si votano, come le femmine, e se non si vogliono riempire, queste si votano, così non nascono figli ma forse nascono i preti!»
Senza pensare che tra i preti presenti ci fosse anche suo fratello Luigi, anch'egli prossimo padre di figlio illegittimo, Gaetano disse che la misura era colma e che i falsi moralisti erano solo spioni e infami, come suo cugino Francesco che aveva suggerito al sindaco di avvertire due, dico, due sole donne incinte di questo paese a dar conto del parto! «Una vorpigliata con i cazzi ci voleva a quel merdo» continuò Gaetano «da lasciarlo un poco vivo, e non morto, per fargli una seconda e una terza vorpigliata!»
Lo stupore che il suo dire provocò sui presenti fu doppio: i sacerdoti si sentirono insultati da quella blasfema allusione al modo diabolico di concepire, il brigadiere e il dottore scorsero nelle ultime parole la premeditazione di un delitto.
Due sacerdoti si fecero il segno della croce, il terzo si alzò e disse al fratello di tacere che aveva bevuto qualche bicchiere di troppo e non sapeva quello che diceva.
Il capo delle guardie regie disse a don Luigi di tenerlo ben a freno, perché non era la prima volta che faceva di questi discorsi e profferiva minacce, e che lo aveva già fatto in sua presenza nella spezieria di don Eugenio Romita qualche mese prima. Se avesse saputo che c'erano i due fratelli Cristofaro egli non sarebbe neppure salito e comunque ringraziava don Pasquale De Chiara per la sua cortesia e per l'ospitalità ma doveva congedarsi.
Don Luigi lo fermò appoggiandogli una mano sul petto. Volse per un istante lo sguardo su Gaetano, seduto e corrucciato, poi sollevò gli occhi al cielo e disse: «Dio mi è testimone se mai feci del male, e in quanto a mio fratello si sa che nei giovani la testa e il corpo hanno i bollori, soprattutto quando l'accusa non è provata. La sua druda è donna di mestiere e il figlio può essere di tutti. Se il baliatico è pagato per gli altri lo sarà anche per il figlio di questa donna. In quanto a me» proseguì «nella mia casa abbiamo a cuore la sorte di una povera serva che esce per lavare i panni e per le imbasciate, e che uscendo non sappiamo chi dove e quando può averla ingravidata. Le persone che ti odiano, come anche i miei cugini, che siamo in causa come tutti sanno, non ci mettono tanto a dire che Catarineddra è la mia druda ma io nella confessione mi ha detto chi è veramente il padre del figlio che porta in grembo!» e mentre tutti attendevano il nome del padre naturale chiuse solennemente con queste ultime parole: «Che io non posso rivelare per il segreto della confessione».
Per tutto il tempo don Luigi tenne la mano e gli occhi addosso al brigadiere, sapendo che lo avrebbe convinto a restare. Quindi, cambiando teatralmente tono e atteggiamento, invitò tutti a riprendere nell'amore di Dio quel piacevole convivio, «turbato solo dal diavolo che, come si sa, mette le corna dappertutto per scristianare la pace familiare!»
«Anzi» proseguì «visto che si avvicina l'ora di cena sono felice e onorato che tutti i presenti venghino a casa mia a mangiare una porchetta. E vi farò ricordare il quartordici gennaio del mille ottocento e quarantotto, che se Dio vuole, e sua Maestà pure, sarà l'anno della Costituzione!»
Don Giovanni declinò per primo l'invito per motivi di servizio e raccomandò a don Luigi, per il suo bene, di non parlare di cose di là da venire, visto che sua Maestà, per grazia di Dio, non aveva ancora deciso nulla. Gli altri due sacerdoti ricordarono al correligioso che era venerdì. «Ne ero completamente dimentico» rispose il canonico «forse a causa della neve e del freddo che è tanto che lo stesso Gesù Cristo direbbe esser giusto non tener conto d'astinenza».
Dal portone De Chiara uscirono a due ore dall'imbrunire don Giovanni Annicchiarico e don Luigi Sarpi. Si accompagnarono fino avanti le monache dove don Luigi imboccò la stretta vinella sotto casa Conte, mentre il brigadiere proseguì verso il posto di guardia alla piazza di sotto. «Stia attento, dottore, a ficcarsi in quel budello, può fare brutti incontri» gli disse il brigadiere. «Di che genere?» chiese don Luigi ridendo e continuando a camminare nel lungo varco buio che portava alla strada del Critè.
L'altro, dopo aver controllato che le grate del convento di fronte fossero prive di luci, gli gridò «Di amendue i generi!» alludendo a ladri e prostitute.
Dopo alcuni minuti da casa De Chiara uscirono Giacomo e Salvatore Campolongo, Don Eugenio Romita, il sacerdote don Luigi, suo fratello Gaetano, tutti diretti a casa di questi ultimi.

8. A casa Cristofaro per scannare la porchetta da cucinare e in attesa la partita a carte nella spezieria.

Entrarono dal cancello laterale, imboccando la discesa che conduceva agli interrati e all'orto. «Eugenio, a vussuria l'onore della scelta» disse don Luigi indicando i cellai con i maiali. «Scegliete la porchetta migliore e scannatela pure. Vincenzo vi aiuterà.» Fu scelto un animale in grado di soddisfare l'appetito di una compagnia ben maggiore di quella presente. In un attimo fu issato a testa in giù sul gammello e don Eugenio, con l'aria di un sacerdote pagano, gli vibrò una coltellata nella gola. Il sangue dell'animale, le sue grida e gli spasimi della morte erano scene a cui tutti erano abituati, anche gli altri maiali che continuarono a grufolare nelle loro zimme. Quindi Vincenzo ne accelerò la morte, e a lui fu affidato il compito di arrostire le carni per il pranzo. Chi raccomandò il sale, chi il rosmarino, chi soprattutto il vino. Don Luigi diede l'ultimo ordine al domestico: «Appena la porchetta è pronta ci vieni a chiamare nella farmacia di don Eugenio». Quindi la compagnia si avviò verso la bottega dello speziale per la solita partita a carte.
Il farmacista aprì la vetrina della spezieria Conte, all'angolo dell'edificio, e uno alla volta, superato il bancone, si infilarono nel retrobottega. Si sedettero al tavolo dove don Eugenio era solito preparare i farmaci, don Luigi aprì il cassetto che ben conosceva, prese un mazzo di carte e iniziò a mescolarle. Eugenio fece un salto a casa dietro l'angolo di palazzo Conte per dire al piccolo domestico Francesco di portare un garrafone di vino a casa Cristofaro e di attenderlo lì, dando una mano a Vincenzo. Per non essere da meno anche Giacomino Campolongo volle che sulla tavola non mancasse il suo vino. Affacciatosi sulla porta fischiò in direzione del palazzo, che distava pochi metri. Da una porta laterale nel vico delle sore uscì Giuseppe Pastore, il domestico. Gli bastarono alcuni gesti di don Giacomino per capire ciò che avrebbe dovuto fare: portare a casa Cristofaro un garrafone di vino per il consueto convito.
Terminati questi preliminari don Eugenio e don Gaetano rientrarono, e il gioco iniziò daccapo, con qualche disappunto di don Luigi che stava vincendo.
Quasi nessuno aveva voglia di parlare e, come al solito, i soldi in palio e i continui inviti al silenzio contribuirono a zittire anche chi avrebbe voluto segnalare qualche errore di troppo. Le monete sul tavolo andavano e venivano e mentre don Salvatore Campolongo terziava ogni carta con lentezza esasperante, Don Gaetano, spazientito, lo invitava a giocare che faceva l'alba. In meno di mezz'ora quest'ultimo aveva finito quelle poche monete che aveva in tasca, Giacomo Campolongo le aveva viste crescere e nessuno aveva voglia di continuare fino al debito di gioco. Solo don Luigi, che negli appetiti di qualsiasi natura tendeva ad essere smodato, insistette perché Giacomo gli concedesse un'ultima partita.
Un lieve tamburellare sul vetro della porta annunciò l'entrata delle guardie civiche di turno in quella serata fredda e nebbiosa: Gaetano Marone e Francesco Dardis, il primo un tintore di Paola, l'altro calzolaio, meglio conosciuto come Scuppetto, fecero il loro ingresso in quel circolo di galantuomini.
Furono accolti con un freddo 'buonivenuti', e benché nessuno avesse chiesto loro il motivo della presenza, ritennero di doversi ugualmente giustificare, dicendo che il loro locale di guardia era talmente freddo e umido che avevano deciso di camminare nella neve per riscaldarsi un po'. Il fatto che fossero preposti all'ordine pubblico, che in quel locale pubblico si giocasse a carte, e per di più d'azzardo, o comunque a soldi, non impedì a quei bravi signori di continuare la loro partita e ai due ospiti di assistervi.
Qualche colpetto di tosse, gli occhi che ruotavano sul soffitto, il pestare lieve degli stivali sul pavimento per il freddo, erano gli unici segnali della presenza imbarazzata delle guardie in quel luogo. Un lieve accenno al tepore di quel locale rispetto all'umidità del loro corpo di guardia fu zittito con un ssssss autoritario di don Luigi, che finalmente aveva convinto Giacomo a farsi un'ultima mano a mano. Nessuna remora dimostrarono quei signori nel continuare il gioco con i soldi bene in vista sul tavolo. «Poiché questi diceva non aver più denari il don Luigi, il canonico, mettendo le mani in una tasca del calzone ne estrasse poche monete dicendo essere a sua disposizione non più di quattordici grana, e quindi trasse fuori dall'altra tasca un lungo stile colla vagina, dicendo che anche quell'arma era a suo potere oltre alle poche monete che mostrate avea.» Giunse in quel momento Giuseppe, il giovane domestico di casa Cristofaro per dire che la porchetta entro poco sarebbe stata portata in tavola. La notizia spense ogni interesse al gioco e tutti si alzarono per ritornare a casa di don Luigi.
La guardia civica Marone «stimò quell'atto di mostrar l'arma uno scherzo, per cui non vi fece attenzione alcuna e poiché dopo pochi momenti la spezieria venne chiusa, anch'egli col Dardis se ne partirono, prendendo ciascuno la volta della propria abitazione.»
«A me nessuno mi leva dalla testa che dovevamo arrestarlo!» disse Gaetano Marone al suo capo ronda. «Stai scherzando! A Dolluigi?» rispose arretrando Francesco Dardis. «E con quale imputazione?»
«Asporto di arma atta ad offendere!» rispose con sussiego la guardia. «Quale arma?!» «Quella che ha estratto dalla tasca.» «Ma chi?» «Il canonico don Luigi Cristofalo.» «Ma quando mai!» «Come, non l'avete vista? Mentre giocava.» «A me è sembrata una penna, una penna di quelle a serbatoio» «Così lunga?!»
Il dialogo tra i due continuò a lungo finché Gaetano, assalito da un dubbio, gli chiese: «Scusate, signor Scoppetto, ma non è che siete ubriaco?» «Sull'attenti guardia Marone! … Come … come vi permette …». Francesco Dardis non riuscì a finire la frase che cadde nella neve, procurandosi quell'alibi che il subalterno, grazie a Dio, gli aveva suggerito.

9. Battaglia a palle di neve al seminario tra i cugini Cristofaro

Mentre altrove si giocava a carte, nel nuovo seminario annesso alla chiesa di San Francesco di Paola, don Carlo e il cugino don Beniamino si affrontavano assieme ad altri giovani studenti in una battaglia a palle di neve: realisti contro rivoluzionari. Questi ultimi sembravano avere la meglio e forse fu questo, e non altro, il motivo per cui molti dei giovani realisti, abbondantemente ricoperti di neve, passarono nelle file dei rivoluzionari.
Era rimasto a far la sua parte un terzo cugino, don Salvatore, che nel suo goffo e impacciato tentativo di unirsi ai rivoltosi inciampò, finendo in mezzo alla gragnola di colpi che gli arrivarono da entrambe le fazioni.
Comprese che i salti della quaglia potevan costare cari e ritornò impavido al suo posto, bersagliato onorevolmente da decine di palle di neve.
Bianco come poteva esserlo solo il papa nel più solenne dei pontificati, girandosi di spalle gridò: «Viva Pio IX. Amnistia, amnistia!»
A quel nome i piccoli allievi rivoluzionari si fermarono, solo don Carlo lanciò l'ultima palla, con il messaggio: «Da parte dell'apostolo Giuseppe!» Ben sapendo che nessuno degli apostoli aveva questo nome, Salvatore comprese che il cugino si riferiva a quel mangiapreti di Giuseppe Mazzini. Il cielo si riaprì alla pugna, questa volta giocata corpo a corpo, con mani che buttavano neve in ogni parte, sul volto, sulla nuca, sulle tonache e dentro di queste. Si sarebbe detto che tutti erano diventati di parte bianca per il candore della neve che li ricopriva.
Alla fine, sfiniti, proclamarono la tregua. Simili a spettri lasciarono il chiostro per dirigersi verso la camerata. Salvatore ricordò che se non si fossero ben puliti e asciugati avrebbero rischiato l'indomani di restare chiusi in camerata e di non andare a teatro, quel teatro aperto con gridolini di giubilo all'interno del seminario. I seminaristi erano la speranza di tante ricche famiglie sanmarchesi, che confidavano negli insegnamenti impartiti loro da precettori colti e preparati come Candela, Selvaggi, Paladino, Pagano, i quali nonostante la loro giovane età avevano già maturato esperienze letterarie e divulgative di buon livello.
Dei primi due, e ancor più delle loro idee e frequentazioni, non tutti erano contenti. Don Michele, ad esempio, il padre di Salvatore, raccomandava sempre al proprio figliolo di non dare troppo ascolto a quel perditempo di don Vincenzo Selvaggi, di non leggere i libri messi all'indice, e soprattutto di pregare, di impratichirsi nelle funzioni religiose e nel latino, che quello era il mestiere che aveva davanti. Per far nascere qualche timore nel figlio, gli prospettava la possibilità che rivoluzionari e carbonari - e anche qualche massone, aggiungeva a bassa voce - potessero sottrarre le terre ai galantuomini e, chessò, spartirsele tra loro, come avevano fatto i francesi di Muratto.
«Senza le terre di Piparo e di Tocco tu avresti finito di studiare, e di leggere soprattutto. Io e tua madre andremmo servi presso qualche famiglia», gli diceva guardandolo negli occhi «perché anche la casa si prenderebbero, e tu passeresti sotto le finestre vedendovi affacciato un Antonio di Santa Catrina o una Vicenza del Casalicchio». Don Michele accompagnava le parole con la pantomima di un padrone curvo sotto il peso della miseria e di due lazzari impunemente affacciati da casa, i quali dovevano essere gli spauracchi in grado di allontanare definitivamente Salvatore dai circoli liberali antiborbonici.
I discorsi del padre non facevano presa sul figlio, che sempre più si legava alle teste calde di quella scuola, tra le quali cominciava a far capolino anche quella di Carlo. Gli articoli che iniziarono a scrivere sul giornalino «La Ghirlanda» ne erano la prova.
I tre cugini evitavano accortamente di entrare nelle contese familiari e in modo particolare Salvatore, ogni qual volta si affrontavano argomenti riguardanti membri delle due famiglie in lite, deviava i discorsi con qualche celia: «Quando scriverò un libro su Sammarco - diceva loro ridendo - ci metterò anche le vostre beghe!» Carlo e Beniamino si stringevano la mano e Salvatore fingeva di impartir loro una benedizione.

10. La notifica dei biglietti alle due drude incinte

L'abbondante nevicata aveva indotto molte persone a rimanere in casa, ma il messo comunale Francesco Battaglia recapitò ugualmente un avviso del sindaco, don Gaspare Valentoni, a Catarineddra, druda di don Luigi Cristofaro.
Achille Sansosti, servente comunale, circa alla stessa ora recapitò a Marianna, la druda di Gaetano Cristofaro, nel tugurio in cui abitava, un altro avviso dello stesso sindaco, scritto dal sostituto cancelliere Francesco Cristofaro.
Perché abbiano dovuto farlo quel giorno e con quel tempo resterà un mistero, ma lo fecero, e così tutti seppero che la notte in cui i germani Cristofaro erano intenti a banchettare con i loro amici «corsero i viglietti con cui si avvertivano le loro drude di dover dar conto dei parti». L'avviso di Marianna, analfabeta, fu portato da una sua amica, con molta circospezione, a casa Cristofaro alla Portavecchia, dove poco tempo prima era stato recapitato l'altro avviso, diretto a Catarineddra.
Quando donna Pasqualina lesse il contenuto delle due notifiche e i nomi delle destinatarie: quella di suttalarco, il cui nome neppure voleva pronunziare, e di Catarineddra, prena di un essere che un giorno avrebbe potuto chiamarla nonna, si lasciò andare a commenti non proprio benevoli verso il sindaco, il cognato don Antonio, il nipote Francesco, e ovviamente le due amanti dei figli.
Si fece promettere da Catarineddra che non avrebbe fatto parola con nessuno di quegli avvisi e li gettò nel focolare acceso. Forse qualcuno era appostato sul tetto quando la lingua di fuoco si alzò per un breve istante nel camino, oppure, fuor di metafora, i due messi ritennero che un fatto così segreto dovesse avere qualche custode in più, oppure Catarineddra non tenne conto delle raccomandazioni di donna Pasqualina, oppure chi li aveva compilati aveva diffuso la notizia anzitempo, oppure fu deciso di propagare la notizia per qualche oscuro motivo. Fatto sta che quando venne servita la porchetta, giunse a tavola, assieme ad essa, quel boccone avvelenato. Chi lo portò non si seppe mai, ma la notizia degli avvisi fu all'origine della violenza che da lì a poco si sarebbe consumata.

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La notte dei viglietti romanzo di Paolo Chiaselotti