LA NOTTE DEI VIGLIETTI
di Paolo Chiaselotti
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1. A San Marco, nella Calabria Citra
Un forestiero che fosse arrivato a San Marco dalla Silica, da Santa Maria o dall'impervia
consolare a monte del paese avrebbe detto che il luogo era stato abbandonato dai
suoi abitanti. Avrebbe, quindi, proseguito il suo cammino lasciandosi alle spalle
un piccolo borgo della Calabria Citra e le orme dei propri passi sulla neve fresca.
Ma se si fosse fermato qualche ora dopo l'imbrunire, avrebbe visto quel borgo animarsi
come il palcoscenico di un teatro.
I protagonisti e gli attori di quel pomeriggio del quattordici gennaio milleottocentoquarantotto
erano tutti dietro le quinte, vale a dire entro quei perimetri innaturali che chiamiamo
mura domestiche o, per dirla con una metafora, nell'intimità familiare.
Dopo poche ore alcuni di loro sarebbero usciti per dar vita alla morte.
2. Giuseppe Quintieri sulla neve
Dal cielo bianco i fiocchi cadevano sul terreno già completamente bianco.
Giuseppe capovolgeva la testa cercando di vedere la neve cadere dalla terra al cielo,
poi raddrizzava il capo e guardava in alto, immaginando che i fiocchi si allontanassero
e che lui fosse sospeso in quel turbine senza confini. Ripeté più
volte il tentativo di restituire la neve al cielo, col risultato che un capogiro
lo fece cadere nell'emisfero in cui viveva.
Giuseppe era sicuro che un giorno sarebbe stato capace di volare e ogni volta che
guardava una tremba, come lui chiamava i burroni, pensava
a quel miracolo che gli riusciva così naturale nei sogni.
La leggerezza che lo avvolgeva in quel momento, il candore che confondeva ogni cosa
e faceva sembrare lo spazio privo di confini, lo convinsero che questa volta poteva
tentare di staccarsi da terra e volare per un poco. «Ammarcardìo»
disse tra sé sperando nell'aiuto divino.
Si mise in piedi, gli occhi persi tra i pannizzi
che cadevano dal cielo, e si concentrò cercando di ripetere quello che gli
capitava in sogno: una forza interiore lo sollevava di alcuni centimetri, poi pian
piano questo sforzo diventava più intenso e il corpo, disponendosi orizzontalmente,
riusciva a librarsi sopra le cose e le persone. La padrona gli ordinava di scendere
subito, mentre una ragazza lo guardava ammirata, chiedendogli di avvicinarsi a lei.
Cercò di applicare quella forza interiore che provava nel sogno, strinse
i pugni portandoli verso il petto e, trattenendo il respiro, spinse con forza l'aria
contenuta nei polmoni verso l'esterno del corpo. I muscoli del collo gonfi per lo
sforzo, le ginocchia leggermente piegate, in posizione quasi seduta, fece l'ultimo,
inaudito, tentativo di liberarsi del proprio peso.
Un peto, reso ancor più fragoroso dal silenzio dei luoghi, lo riportò,
per così dire, con i piedi a terra.
Era sceso nel giardino per prendere un po' di neve fresca a donna Fiorina. Il pensiero
che lei avesse potuto vederlo dalla finestra, mentre tentava di volare o, peggio,
che avesse potuto udire il pirito, lo mise
a disagio. Lentamente girò lo sguardo verso le finestre: non c'era nessuno.
Rincuorato, prese la neve nel punto in cui gli parve più soffice e pulita,
ne mise due manciate nella chicchera che aveva portato
con sé e rientrò in casa.
Donna Fiorina aprì la porta della sua stanza chiedendogli perché avesse
messo tutto quel tempo per portarle un po' di neve. Senza aspettare risposta prese
dalle mani del giovane domestico la tazza con la neve e gli ordinò di portarle
il miele di fichi.
Giuseppe ritornò quasi di corsa con il miele per la
scirubetta, ma trovò la porta chiusa.
Bussò, una, due, tre volte, quindi con circospezione accostò l'occhio
alla serratura per verificare se la giovane padrona fosse nella sua stanza. Pregò,
chiudendo per un istante gli occhi, di poterla scorgere mentre si metteva le calze
o mentre faceva le mosse allo specchio.
Si sentì chiamare da una voce modulata che pareva giungere da lontano: «Pippinuzzuuuu».
Quando si girò, rosso in volto, vide Fiorina alle sue spalle, che con le
mani dietro la schiena, dondolandosi sulle punte dei piedi, sentenziò con
aria compunta che gli spioni dovevano essere puniti a dovere.
Giuseppe, a disagio, attese rassegnato la meritata punizione; del resto qualunque
cosa lei gli facesse lo rendeva felice. Anche vederla dondolarsi sulle punte, avanti
e indietro, procurava al giovane domestico un piacere sottile che gli ricordava
quando lui la spingeva sulla vocola a Piparo.
Fiorina gli ordinò di voltarsi e di mettersi in ginocchio. Sentì due
dita di lei che si insinuavano tra la giacca e il collo e, alcuni istanti dopo,
un rivolo di gelo lungo la schiena.
«Ora ti spengo il fuoco che ti è uscito quando volavi.» gli disse
ridendo.
Giuseppe si pentì di averle fatto certe confidenze sui suoi sogni. «Qualche
giorno t'affacci e mi vedi in aria davanti al balcone.» le aveva detto. «Sì,»
aveva risposto lei «manco che eri un angelo!»
«Ammacardìo» aveva risposto
lui, con quell'espressione di speranza che era diventata il nomignolo con cui Fiorina
a volte lo chiamava.
Si vergognò pensando che forse questa volta lei lo aveva visto e, chissà,
aveva anche udito il pirito. E infatti, sputa che indovini:
«Ti ho visto» disse lei e aggiunse con un tono canzonatorio «e
ti ho pure sentito!»
«Ammacardìo u piritaro!» Ammacardìo
u piritaro!» cantilenò divertita.
Donna Pasqualina, che di figli se ne intendeva, e sapeva che bisognava tener lontana
la paglia dal fuoco, dalla cucina urlò a Giuseppe: «Non permetterti
certe confidenze! Vai subito ad aiutare Vincenzo a togliere la neve dalla scala.»
avvertendo in tal modo anche Fiorina di non provocar scintille.
Giuseppe si alzò, prese dalle mani della giovane donna la tazza vuota e le
disse a bassa voce: «Donna Fio-Fio-Fiorì, io non so-sono un ba-ba-bambino.
Ho di-di-diciassette anni.»
«Pippinuzzu» rispose lei con civetteria «pure io ho di-di-diciassette
anni e li dimostro!»
Quindi rientrò nella stanza con le movenze di una donna già matura
e, mostrandogli la lingua, chiuse molto lentamente la porta.
Gli occhi di Giuseppe, prima incollati sui
goffi di lei, si sollevarono su quel pezzo di carne rosa che spuntava
dalle labbra. Attese che la porta si fosse completamente chiusa per rispondere all'ordine
di donna Pasqualina: «Va-va-vado.»
3. Don Luigi canonico Cristofaro, la madre Pasqualina Campanile, la serva Catarineddra
Don Luigi uscì dalla sua stanza avvolto in una coperta, scese le scale e
si diresse verso la cucina. Baciò con aria assonnata la mano alla madre seduta
davanti al camino.
Catarineddra, la serva, gli diede il buongiorno con un leggero inchino e versò
il latte caldo nella tazza. Don Luigi si fece il segno della croce, pronunciò
a voce bassa alcune parole latine che dovevano essere la preghiera del mattino,
sbadigliò e si sedette a tavola, alle spalle della madre.
Sorbì rumorosamente il latte, inzuppandovi un tarallo. Ne masticò
qualche pezzo. Tossì, si pulì il naso, fece qualche altro rumore,
quindi girò la sedia verso la madre, come a volerle parlare. Donna Pasqualina
non si mosse dal fuoco, continuò a tacere e a smuovere la brace con la paletta.
Il figlio guardò Catarineddra e rivolgendole un gesto della mano con le dita
chiuse, a mo' di interrogazione, le chiese senza parlare che cosa fosse accaduto.
La risposta, anch'essa muta, fu un'alzata di spalle e di sopracciglia, accompagnata
da un lieve movimento delle palpebre.
Lui le fece cenno con la testa di seguirlo nella sua stanza e salì al piano
di sopra. Questa volta senza alcun rumore.
Quando Catarineddra bussò alla porta, don Luigi si stava vestendo. Lei lo
aiutò a infilarsi le scarpe e la giacca, gli chiese se volesse indossare
la zimarra, ma don Luigi, senza rispondere, le ordinò di sedersi sul letto.
Le osservò la pancia alla ricerca di un annuncio di maternità, poi
girandosi verso lo specchio chiese se don Gaspare, il sindaco, o don Vincenzo, il
sostituto, le avessero chiesto qualcosa sulla sua gravidanza.
Catarineddra rispose che non era uscita da casa per la neve e quindi non aveva parlato
con nessuno.
«Non oggi, prima, qualche giorno di questi passati.»
«Non mi ha mai chiesto niente nessuno, solo vostra madre donna Pasqualina
mi ha detto che Vussuria non faceva certe cose
perché eravate un prete.»
«E ha ragione!» replicò con enfasi don Luigi «Tu lo sai
perché sei gravida?»
Catarineddra abbassò lo sguardo e non rispose.
«Vedi? Te lo dico io perché. Perché quando dormi non ti copri
e se stai scoperta viene il diavolo e ti copre lui, e questo è successo a
te. Il diavolo può sembrare uno qualunque, e a te sembra una persona che
conosci ma invece è la tentazione. Ecco cosa ti ha messo incinta: la tentazione.»
le diceva con il sorriso e il tono di chi si prende gioco dei bambini, mentre la
osservava nello specchio, intento a pettinarsi. Poi, girandosi verso di lei, aggiunse
minaccioso: «Se Gatano o Scuppettu, le guardie, vengono a cercarti, tu gli
dici che con me hanno a che fare, perché tu sei serva a casa del canonico
don Luigi. Se il sindaco ti chiede se sei la druda di
don Luigi tu rispondi che non sei la druda di nessuno e non sei gravida. Gli dici
… gli dici …» si fermò un attimo a pensare «Gli
dici che sei ingrassata perché alla casa del padrone hanno fatto i porci!»
Si compiacque tanto della sua celia sui porci di casa che scoppiò in una
grassa risata. Poi con un tono di voce più dolce e malizioso le chiese se
voleva confessarsi. Catarineddra fece di no con la testa e, senza alzare lo sguardo,
chiese il permesso di uscire dalla stanza.
Don Luigi la accompagnò alla porta. «Allora non posso assolverti dai
tuoi peccati.» le disse dandole un bacio sul collo e spingendola delicatamente
fuori dalla sua camera con la mano premuta contro la parte posteriore della gonna.
Catarineddra si asciugò gli occhi con un piccolo cencio e raggiunse di nuovo
la cucina. Donna Pasqualina, che non si era mossa dal caminetto, quasi fosse stata
presente all'incontro tra Catarineddra e suo figlio, si rivolse a lei come se stesse
continuando un discorso interrotto: «Che poi … Tutti possono averti
messa incinta, ricordatelo. Ne hai incontrati tanti, fuo-ri da que-sta ca-sa.»
- e sillabò le parole per dare ad esse maggior peso - «E non sai chi
è il padre. Quando, e se, deve nascere lo sa solo il
Patreterno.» E dopo alcuni secondi, alludendo ad aborti ed infanticidi,
con l'aria più naturale di questo mondo, concluse: «Ne sono morti bambini
prima di nascere! E anche dopo che erano nati!»
Catarineddra non l'ascoltava. L'idea che le sarebbe nato un figlio da don Luigi
la metteva di buon umore: «Un figlio mio con il don.» pensava sorridendo.
4. Vincenzo De Napoli, il trappitaro
Vincenzo stava togliendo la neve dalla scala che portava al trappito. Quel giorno
non sarebbe arrivata nessuna vettura da Piparo o da Tocco, tuttavia era meglio avere
un accesso agevole alle stalle, ai magazzini sottostanti la casa e ai
cellai dei maiali. Per non parlare poi dell'abitudine dei padroni di
portare amici a pranzo o a cena nelle cantine senza alcun preavviso, soprattutto
quando, come in questa occasione, il freddo e la neve favorivano i conviti. Quando
sopraggiunse Giuseppe gran parte del lavoro era stato già fatto.
Vincenzo era uomo di poche parole. Faceva un po' paura. A tutti.
Il primo giorno che Gaetano lo aveva portato in casa per provvedere al trappito,
la madre chiese perché avesse preso quella faccia di galiuoto.
«È la persona giusta!» le aveva risposto il figlio. «È
appena uscito da galera …»
«Scherza, scherza …» lo aveva ammonito donna Pasqualina, ma non
riuscì a completare il proprio pensiero che Vincenzo comparve sulla porta.
Senza togliersi il cervone dalla testa disse: «Don Gatano non scherza, ma
la faccia non me la posso cambiare: se di galiuoto
era, di galiuoto rimane!»
Da quel giorno gli fu ordinato di non salire più ai piani superiori e di
occuparsi solo di trappito, stalla e cantina. Cosa che Vincenzo fece sempre e, per
dimostrare che era uomo d'onore, non alzò mai lo sguardo quando le donne
si affacciavano.
«Ci mancava nu malafabbene 'nta sta casa!»
diceva tra sé Gaetano De Pasquale, il vecchio trappitaro
di casa Cristofaro, chiedendosi perché gli avessero messo a fianco un soggetto
di quella risma, che per giunta non risiedeva neppure in paese e bisognava fargli
un giaciglio quando non poteva ritirarsi a casa.
Tuttavia Vincenzo, nonostante i suoi trascorsi, si dimostrava rispettoso, servizievole
e obbediente, per cui la sua presenza dopo alcuni giorni fu accettata come modello
di redenzione.
Giuseppe, che ancora non conosceva malizie e cattiverie del mondo, lo vide come
quel padre che non aveva mai conosciuto. Era affascinato dai suoi racconti, dalla
sua abilità di mariuolo, da come faceva apparire il coltello in mano e dall'asso
di bastoni con il serpente tatuato sull'avambraccio. Una volta gli chiese se poteva
chiamarlo tata Vicienzu e lui acconsentì: «Ma
solo quando non c'è nessuno.»
Per tutte queste ragioni Giuseppe era ben felice di stargli vicino, aiutarlo e fare
ciò che lui gli ordinava.
Dal balcone donna Pasqualina chiese ai due inservienti, rivolgendosi al più
giovane, se il figlio don Gaetano fosse nella stalla.
«Nossignora» rispose Vincenzo senza far caso che la domanda era rivolta
a Giuseppe «l'ho visto uscire.»
«Per andare dove?» si domandò chiudendo l'anta. «Pure con
la neve! quando uno se ne può stare a casa a occuparsi dei conti di Piparo.»
pensò la donna rientrando nella cucina.
L'omertà che accompagnava le uscite di Gaetano era una prassi a cui la madre
ancora non si era rassegnata. Soprattutto le scorribande notturne, quando nei canti
e negli schiamazzi da sotto le monache riconosceva la voce del figlio. «Quell'anima
dannata di Vincenzo - si sa che i rossi sono stati toccati dal diavolo» ripeteva
spesso «gli era sempre dietro, come la mariana.»
«Certo, è giovane.» continuava donna Pasqualina immaginando di
udire l'andirivieni dei passi del marito nella stanza. «A ventidue anni non
si può star chiusi in casa. E poi gli amici suoi Giacomino, Vincenzino, Eugenio,
son tutti di famiglie che solo di bene si può dire.»
«Sì, ma queste storie di diritti, di libertà, di Costituzione,
che cosa portano a noi alla casa nostra?
Anche Carluccio, invece di pensare a studiare, se ne esce con certi discorsi! Qualche
volta ti vedrai arrivare le guardie a chiedere spiegazioni e scaliare nelle carte.
E quando ti domandano: dove va vostro figlio la notte, che cosa pensa vostro figlio
del Re, ha pistole, coltelle e cose del
genere? Tu cosa rispondi? Ave Maria, Santa Maria e li reciti il rosario?!»
Le preoccupazioni di donna Pasqualina, che prendevano corpo nel colloquio immaginario
con il marito defunto, si estendevano anche al figlio maggiore, sacerdote.
«E l'altro, il … il … confessore di Catarineddra?!»
«Lascia stare Luigi,» replicava a se stessa donna Pasqualina «che
almeno lo controlla e lo porta a casa senza farlo incorrere in pericoli. Sai quante
volte è andato a prenderlo di notte a casa Campolongo o dalla magara con
la paura che l'attentavano?»
Dal colloquio emergeva una situazione comune a tante famiglie: figli giovani, buone
e cattive compagnie e abitudini, qualche idea politica di troppo, ma l'argomento
sul quale sia la madre che il padre defunto non volevano far parola era che entrambi
i figli, prete compreso, avevano le amanti. E incinte per giunta.
Non era una preoccupazione da poco, perché le guardie civiche stavano attente
sia alle pratiche abortive delle mammane che agli
abbandoni. I poveri potevano far quello che volevano ma le famiglie per bene erano
spiate e controllate: guai ad aver in casa domestiche schiette ingravidate. E a
fare la spia su queste cose, che dovevano restare tra le quattro mura di casa, contribuivano
tutti: amici e nemici di famiglia, servitori, e gli stessi parenti. «Malanova loro, che invece di guardarsi le corna
sue, rendevano infelici e disperati zii, cugini, nipoti, cognati e compari.»
era la riflessione di entrambi i coniugi.
A questo punto, come se i pensieri di donna Pasqualina si confrontassero realmente
con quelli del marito, dalla bocca le usciva l'imprecazione «Maria Francesca,
morta e viva dove si trova!»
E nel fare il nome della cognata si girava verso la sedia vuota per accertarsi che
il marito non l'avesse sentita.
Sul davanzale si posò come sempre la ciavola.
L'uccello emise un grido, come sempre, e volò via. Donna Pasqualina, essendo
venerdì e interpretandolo come un brutto presagio, si fece tre volte il segno
della croce.
5. Don Gaetano Cristofaro e la sua druda Marianna
Gaetano, uscito da casa, alla Porta vecchia, si era diretto verso la piazza di basso.
Arrivato avanti le monache, pensò di dare un'occhiata all'interno della spezieria
di don Eugenio. La porta esterna era aperta ma la vetrina d'ingresso era chiusa
dall'interno, segno che don Eugenio era intento alla preparazione di qualche cartella. Non aveva nulla da comprare
ma solo da chiedere allo speziale come faceva sempre: «Avessi visto Marianna?»
Proseguì verso la casa di lei, al Critè. Nessuno in giro e, almeno
in apparenza, neppure alle finestre: il freddo aveva chiuso tutti in casa. I muli
nelle stalle scalciavano; dal tanfo d'urina e di sterco si capiva che anch'essi
non erano usciti.
Gaetano si infilò nello stretto varco a manchìa,
dove le case avevano assunto il colore verde del muschio. A metà percorso
si fermò dinanzi ad una porta, formata da due sportelli sovrapposti. Quello
superiore, nonostante il freddo, era socchiuso per fare entrare l'aria e quel po'
di luce che il giorno e la neve agli imbocchi del varco riuscivano ad elargire.
Il giovane diede due colpi con le nocche delle dita sullo sportello inferiore. Dopo
un terzo colpo nel riquadro apparve la figura di Marianna: i capelli nerissimi rendevano
ancora più pallido il suo viso. Forse era stata o era ancora attraente ma
la mancanza di luce e di colori privava la sua figura di qualsiasi bellezza.
Sporgendosi dal vano aperto, gettò un'occhiata fugace a destra e a sinistra
del vico per accertarsi che non ci fosse nessun altro, poi, senza aprire la parte
inferiore della porta, fece uscire una mano e attirò a sé Gaetano.
Marianna si aspettava le effusioni del suo amante, ma questa volta non arrivarono.
Le afferrò le guance in una mano e le alitò sul viso: «Hanno
detto al sindaco che sei incinta e che il figlio è mio.»
Marianna chiese cosa c'entrasse il sindaco con la sua gravidanza.
«Che non puoi liberarti più del bambino.» fu la risposta.
«Non ci ho mai pensato di mettermi contro a Dio» disse Marianna «e
poi mi sento che somiglierà a voi e lo voglio chiamare Gaetano come a voi.»
Il giovane, per motivi inspiegabili, temeva Marianna quando gli parlava di Dio o
di santi, più ancora si preoccupava quando con gli occhi chiusi gli diceva
ciò che sarebbe avvenuto.
Puntualmente, come sempre accadeva, le uscì il vaticinio: «Viu
che nu patre 'un vida u figliu!» Puntualmente, come sempre faceva
in questi casi, Gaetano si toccò i genitali.
«Che vuoi dire?» le chiese aprendo completamente l'uscio e spingendola
nella stanza. «Quale padre e quale figlio? Sono io il padre? Io sono il padre
che non vedrà suo figlio? Ritira quello che hai detto. Che vuoi, soldi?»
la interrogò, mentre la scuoteva con un'ansia crescente, cercando di farle
chiarire quella frase sibillina. Marianna taceva, perché non sapeva spiegare
il significato delle parole che le uscivano inconsapevolmente di bocca, la ventura
come lei le chiamava. Sapeva, però, come acquietare le paure che involontariamente
provocava, e in particolare quelle di Gaetano. Si sdraiò sul paglione, sparse
con cura i capelli sotto la testa, si scoprì prima un seno, poi l'altro,
come a voler nutrire due piccoli esseri, afferrò le gonne scoprendo lentamente
le gambe, le cosce, il pube e dopo aver arrotolato quegli indumenti sul ventre,
allungò le braccia, quasi in croce, e disse a Gaetano che voleva quattro
grani, due posati sugli occhi, due sulle mani, così non avrebbe visto quello
che lui le avrebbe fatto.
Era uno dei rituali esoterici che metteva in atto per avvolgere di fascino misterioso
il contatto con il suo corpo, e per distogliere gli altri sensi, in particolare
l'odorato, dal lezzo di quel postribolo. Queste bizzarrie, che oggi noi definiamo
fantasie erotiche, non lasciavano insensibili i frequentatori del lupanare, attratti
dai movimenti, dalle posizioni e dalle parole oscene che Marianna pronunciava durante
l'amplesso.
Così in quella veste di sacerdotessa del piacere e dei misteri accumulava
piccole fortune lasciando alla mercè dei vari drudi occasionali o fissi un
corpo svuotato dell'anima. In quel recipiente gli uomini riversavano desideri e
affanni. Gaetano vi ficcò tutta la rabbia che aveva in corpo con sussulti
e gemiti di animale prossimo a morire. Appena si fu vuotato, si pulì sulla
sua gonna, e senza restare un attimo di più sul corpo che lo aveva accolto,
si alzò in piedi, si ricoprì il membro e uscì. Dopo essersi
ripresi i quattro grani.
Marianna, coperta con uno scialle nero, andò a pulirsi nella neve, poi estrasse
da una cassettina alcune foglie secche di petrosino conservate tra due immaginette
sacre, le mise sulla lingua, quindi tenendosi la pancia con entrambe le mani a dondoloni
recitò: «Ghiesu rimitti nobbis piccatanostra libbera annos abigne …»
Come per la ventura anche in questo caso ignorava il significato delle parole pronunciate.
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