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Sutt'a lingua : Curiosità e approfondimenti.


SENZA FUTURO ....



Noi Sammarchesi non abbiamo un futuro.
Detta così la cosa diventa preoccupante, ma visto che non l'abbiamo mai avuto, io non mi preoccuperei più di tanto. Mi riferisco al tempo futuro della coniugazione verbale, al posto del quale i sammarchesi (assieme alla stragrande maggioranza della popolazione meridionale) usano il presente accompagnato da un avverbio di tempo o l'infinito preceduto dal verbo 'avere da'.
Non avendo le competenze necessarie per poter trattare l'argomento nei suoi aspetti storico-linguistici e socio-culturali, quelle che esporrò sono personali considerazioni desunte dall'esperienza e dalla conoscenza di alcune espressioni dialettali.
Un'azione futura è un'azione da compiere, quindi affermare che 'dobbiamo' fare qualcosa significherebbe che ci predisponiamo al futuro. Affermare che domani facciamo qualcosa significa invece che il nostro agire presente si pospone in un tempo a venire. Entrambe le forme, dunque, indicherebbero un'azione non avvenuta, non in corso, ma prevedibile o prevista.
In sostanza il futuro sembrerebbe esistere ... anche per noi, solo che non abbiamo un tempo verbale specifico per indicarlo.
Ritengo, tuttavia, che la forma spesso è sostanza, nel senso che se il futuro è legato strettamente al 'dovere', significa che nella nostra cultura ciò che faremo deve forzare gli eventi, indica, cioè, che per passare da un tempo attuale ad uno in cui non siamo ancora entrati, c'è bisogno di un comando e di un'obbedienza.
Se, invece, esso ha bisogno di un avverbio per indicare il tempo, debbo ritenere che l'uso non occasionale ma costante dell'avverbio spiega che si tratta di un presente che si prolunga oltre l'immediato.
Ci sarebbe anche un'altra forma per esprimere il futuro, ovvero attraverso il verbo volere, ma ognuno può verificare da sé come esso non sottintenda un'azione posposta, quanto invece un desiderio che si ferma al presente.
Essendo di origini settentrionali, triestino per la precisione, penso a quanto possa essere 'superficiale' un dialetto e, viceversa, quanto esso sia culturalmente stimolante per l'assenza di una data forma grammaticale che agevola la comunicazione. Come avviene per l'italiano, non mi sarei mai posto alcun problema interpretativo, usando il tempo futuro a Trieste, mentre qui la 'carenza' linguistica mi stimola a riflettere su tale 'difetto'.
Mi verrebbe da pensare che in fondo questo 'difetto' è il risultato di un pensiero razionalissimo, che si può condensare in questo modo: noi conosciamo il presente, possiamo conoscere il passato, ma non conosciamo assolutamente il futuro, per cui esso non ci appartiene.
Alcune azioni che vengono rese con il tempo futuro, trovano nel dialetti meridionali difficoltà per esprimere una situazione che deve avvenire. Ad esempio 'saremo felici' non ha un equivalente in dialetto in quanto "am'essi filici" (dobbiamo essere felici) oppure "simu filici" (siamo felici) non hanno il predetto significato. L'unica forma che si avvicina ad un futuro di felicità deve essere necessariamente espressa come probabilità, ipotesi, condizione, ma non sarà mai una certezza.
Quindi, mentre un settentrionale potrà promettere alla sua amata che sposandolo sarà felice, un meridionale non potrà mai farlo, potendo solo assicurarle il presente.
"Ti amerò sempre" si potrà dire al nord ma non al sud! dove gli innamorati si 'baciano' e non si 'baceranno', si 'sposano' e non si 'sposeranno'. Un futuro al presente è una contraddizione, eppure nel dialetto ciò avviene con la consapevolezza che la vita è il presente e che, quindi, non esista un percorso, ma tutto si svolga lungo un tratto sempre attuale.
Del resto chi potrà mai dire cosa succederà domani? Potevano farlo gli Dei e gli indovini e ancora oggi il futuro viene 'letto' attraverso oroscopi e robe del genere. Insomma parlare di futuro e un problema serio (o poco serio, a seconda dei casi) e finanche quando si dice 'pensare' o 'progettare' il futuro dobbiamo ricordarci che lo facciamo nel presente,
Infine mi sono chiesto se in questo 'mistero' linguistico entrasse a farne parte anche lo spazio e mi sono ricordato di un'espressione che spiega benissimo il rapporto tra spazio e tempo: adduve arrivamu chiantamu u scuorparu che significa quando, dove e come arriveremo lì pianteremo un rametto come segnale.
Possiamo interpretare variamente questa 'massima', che io recepisco nel seguente modo: il percorso non prevede obiettivi da raggiungere e pertanto non ha un limite se non quello che noi stessi poniamo.


San Marco Argentano, 22 dicembre 2023

Paolo Chiaselotti

Nell'immagine in alto La persistenza della memoria di Salvador Dalì