|
LA DISCESA NELLA TOMBA
Misi la fotocamera digitale in tasca assieme a due batterie di riserva e mi avviai,
a piedi, verso il cimitero. Dovevo parlare con l'imbianchino e fargli qualche domanda
sui due forestieri che alloggiavano al seminario e sui lavori nella cappella di
monsignor Bellarmino. Ne avrei approfittato per scattare alcune foto da inserire
sul sito.
Era il primo pomeriggio.
Di solito, a quell'ora, nel cimitero erano presenti solo pochi operai che eseguivano
lavori di manutenzione. Alcuni di loro avevano già finito il turno di lavoro;
nel cimitero non ne incontrai nessuno. Mi diressi verso la tomba che cercavo. La
porta era sempre aperta e all'interno vi erano alcuni attrezzi da lavoro. La grata
che portava nel piano sotterraneo era sollevata.
Scesi lungo la scala di ferro convinto che lì sotto doveva esserci la persona
che cercavo.
L'odore di terra umida e di muffa aumentava man mano che mi avvicinavo al suolo.
L'unica luce che vi arrivava era quella della botola da cui ero sceso.
Chiamai, sottovoce, il giovane operaio, cercando di distinguerne la sagoma bianca.
La vidi. Era nel penultimo vano. Probabilmente non mi aveva sentito perché
era abituato a lavorare ascoltando musica attraverso gli auricolari.
Man mano che avanzavo la stanza sotterranea diventava sempre più buia. Di
fronte a me un antro, del quale non riuscivo a scorgere la fine, si addentrava nel
terreno. Sapevo che alcune tombe di famiglie apparentate avevano questi cunicoli
comunicanti per consentire maggiori sepolture.
Lungo i lati del corridoio si aprivano dei vani chiusi con blocchi di tufo. Mi meravigliai
che alcuni fossero simili a delle alte nicchie, quasi che i defunti vi dovessero
essere messi in piedi.
Mi venne alla mente l'esperienza dell'albergo di provincia. Questa volta non dovevo
camminare a tentoni, ma potevo farmi guidare dalla vista. Almeno fin dove sarei
riuscito a vedere.
Appena fui vicino all'imbianchino gli posai una mano sulla spalla, chiamandolo ad
alta voce.
Una gelida sensazione di sgomento attraversò tutto il mio corpo di fronte
ad una visione alla quale ero assolutamente impreparato.
Ritrassi terrorizzato la mano: il volto di Geppino era un teschio e al posto della
tuta aveva una lunga tunica bianca.
Nello stesso istante sentii chiudere la grata e correndo cominciai a gridare con
quanto fiato avevo, una, due, tre, quattro volte:
" Non chiudete! Non chiudete! Non chiudete! Non chiudete! "
Avevo raggiunto la scala quando sentii serrare anche la porta della tomba.
Afferrai la grata per sollevarla. Era troppo pesante, occupava quasi tutta la lunghezza
della cappella.
Stupidamente mi girai con il timore che l'imbianchino si fosse mosso. Estrassi dalla
tasca la fotocamera digitale, scesi alcuni pioli della scala e appoggiandomi con
le spalle ad essa scattai una foto.
Un lampo illuminò quel luogo di morte.
Uno scheletro. Era uno scheletro avvolto in una tunica bianca con una croce sul
petto. Mi accostai tenendo la digitale quasi come un'arma. Davanti al viso. Scattai
nuovamente e il lampo illuminò qualcosa che era a metà tra un teschio
e un volto: le ossa erano ricoperte da uno strato di pelle scura, quasi mummificata,
che davano l'impressione di una persona ... morta per fame. Dalle orbite, profondamente
incavate, due occhi vitrei mi fissavano con stupore come a voler chiedere spiegazione
della mia presenza in quel posto.
|
Non avevo paura, perché avevo ragionato rapidamente su ogni aspetto di questa
inquietante situazione.
Era il cadavere di un religioso, rivestito, di recente, con una veste candida. La
posizione, in piedi, ricordava la pratica di sepoltura delle Fratellanze Cristiane.
Era in attesa della santa resurrezione ... Forse quest'idea mi fece scorgere nel
volto senza vita l'accenno di un indefinibile sorriso e repentinamente mi ricordai
del testo del messaggio giuntomi dal Brasile: " ... parece sorrir!
"
Mi imposi di non farmi sopraffare dal terrore, agendo con razionalità e freddezza.
Scattai un'altra foto arretrando di qualche passo.
Il lampo illuminò l'intera figura e ciò che riuscii a scorgere in
una frazione di secondo mi lasciò esterrefatto.
|