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LA DONNA VENUTA DAGLI USA
La razionalità, quando dovrebbe soccorrerci a capire i fatti misteriosi e
"paranormali", è sempre in vacanza. Si presenta quando non
ne abbiamo bisogno, come in questo caso, in cui tutto oramai era chiaro: l'operaio,
bianco dalla testa ai piedi, stava spennellando di calce l'interno di un loculo
da poco svuotato del suo contenuto.
Gli avrei voluto chiedere dove avesse portato tutti quei documenti presi dall'archivio
diocesano, ma poi pensai che non erano fatti miei. Fu lui, invece, a parlarne. "Professo',
è vero che per poco don Sigismondo vi aveva ammazzato, quando è precipitato
dalla scala?" e poi rivolgendosi al custode continuò in dialetto
"Minchia, quanti ci 'na dittu u' pru'ssuri quannu se risbigliatu! Mancu i muorti
c'ha lassatu!"
Mi chiesi come fosse a conoscenza del seguito dell'incidente dato che non era presente
e sospettai che tra lui e gli uccelli neri doveva esserci un sodalizio di vecchia
data.
Ad ogni modo il fatto che svelasse ad altri quegli istanti di collera accompagnati
da ingiurie e parolacce mi diede ai nervi. Non era nella mia indole, né nella
mia cultura offendere le persone, tanto meno i defunti con i quali, come ho detto,
avevo un rapporto di affettuosa amicizia.
Deviai il discorso rivolgendomi al custode fermo dinanzi l'ingresso della cappella:
"Lo sai che non credo ai fantasmi, ma questo individuo vestito di bianco che
scendeva lentamente dall'alto mi ha fatto venire alla mente ..." dissi
con enfasi per mascherare la voce che ancora tremava per lo spavento
delle gambe semoventi.
"La signorina ..." aggiunse il custode con la prontezza di intuito
che avevo apprezzato quando era un giovane allievo di prima media, ma non in questo
momento.
"Esatto aveva appena ventisette anni quando volò ..." continuai
io sollevando una mano verso uno dei loculi.
"Come ... sapere quanti anni avere ..." disse una voce femminile
stentatamente, quasi che dovesse ricordare come si parlava a questo mondo!
A fianco del custode era apparsa una figura completamente vestita di nero, esile
e pallida, le mani dalle dita lunghe e affusolate cercavano di togliere dal viso,
quasi di cera, i lunghi fili di capelli neri che il vento le sollevava.
"Filomena ... " dissi senza pensare.
"Kathrin" mi rispose con voce pacata e dolce. Poi sollevando la
mano verso la lunga lapide che io continuavo ad indicare disse scandendo lentamente
le parole: "Filomena ... mia ... cugina" e indicandomi al mio ex
alunno chiese: "Lui Paolo Ciaselotti?"
Il mio allievo dall'intuito pronto questa volta non riuscì a cogliere il
rapido gesto del capo con cui cercai di comunicargli di rispondere negativamente.
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"Si! È il professore Chiaselotti"
"Kiaselotti!?" mi chiese guardandomi negli occhi la donna che sembrava
uscita da un antico coro greco. Mi abbracciò come se non avesse alcun peso
corporeo e mi baciò sulla guancia. "Io, qui ... per ... tuoi ... morte"
aggiunse, correggendosi subito dopo "tuo ... morti ..."
"Tua morte!" la corressi io, pensando che era la seconda persona
giunta dal continente americano per uccidermi. "OK Tu capito, tu intelligente"
tagliò corto la giovane donna.
"Appartena alli ragnari?" chiese Geppino, l'uomo vestito e macchiato
di bianco, al custode, che si limitò a dire sì con un piccolo gesto
del capo.
"Allora tu ed io parenti!" disse l'imbianchino alla donna in nero,
accostando gli indici della mano e strofinandoli l'un l'altro. Quindi si accostò
a lei dandole il polso al posto della mano tinta di calce.
Non sarebbe il caso di proseguire la narrazione su ciò che si dissero le
due figure così contrastanti e delle sciocche, banali, inconcludenti osservazioni
di lui sulle preferenze calcistiche suggerite dal bianco e dal nero dei loro abiti
e sull'origine del soprannome, ma è necessario per comprendere il finale
di questa storia.
Per farsi capire, Geppino, cominciò a tirare calci, poi finse un salto per
un colpo di testa, quindi si mise a fianco di lei toccando ora la sua tuta bianca
e ora il pullover nero della donna. D'un tratto si mise a terra camminando a quattro
zampe, nel tentativo di mimare un animale e far intendere che si trattava di un
insetto con otto zampe. Una cosa penosa, che risolsi con poche parole: "Black
and white are the colours of a football team and the nickname ragnari means spidermen."
Sorrise e mi disse che aveva già capito tutto dalla mimica perfetta. Poi
corresse la pronuncia delle parole che avevo detto e infine, rivolgendosi a Geppino,
gli disse: "Io lavorare a teatro. Io attrice. Tu bravo."
Mortificato dal fatto che la mia comunicazione verbale era stata inferiore a quella
mimica di Geppino, cercai di recuperare terreno nelle conoscenze linguistico-letterarie,
cercando di dimostrare che quella teatralità si basava su falsi presupposti.
Scartai immediatamente il tentativo insostenibile di delegittimare il paragone con
la squadra bianconera e mi concentrai sull'origine dei ragnari.
Non era assolutamente certo che quel soprannome con cui la famiglia era conosciuta
derivasse dalla parola ragno, bensì poteva essere una corruzione di rannari,
da ranno, la cenere con cui si rendevano i panni più bianchi. Quindi i lavannari.
Certamente.
Stavo per esternare quella che in seguito si sarebbe rivelata la classica "minchiata",
quando fui folgorato dall'intuizione del parallelo tra quel mestiere e quello dei
calderai. Entrambi indicativi di sette segrete, come i carbonari, i liberi muratori
e via dicendo. Mi concentrai sul ranno, la cenere che rendeva i panni bianchissimi,
e ai modi con cui veniva applicata. Un secondo lampo mi illuminò la mente
in una sequenza di istantanee verbali: cenere, morti, nemici.
Ecco. Avevo ripreso in mano la situazione. Quei maledetti rannari erano una società
segreta di origine sanfedista, che sbiancavano i panni con i corpi inceneriti dei
giacobini!
Cercai di ricordare da dove venisse la famiglia a cui apparteneva quella cappella,
e quindi anche la giovane americana. Bonifati. Non avevo mai sentito parlare della
setta dei rannari di Bonifati, ma non potevo escludere che fossero stati presenti
nell'Ottocento.
Lo sguardo di lei non sembrava quello di un'assassina, non aveva alcuna cicatrice
sul volto. Negli occhi, nerissimi, che talvolta si illuminavano di improvvisi bagliori
e altre volte assumevano un'aria molto triste, leggevo quasi un senso di pietà
per ciò che mi sarebbe accaduto. Pensai che, in fondo, era meglio morire
per mano di una donna.
Come l'avrebbe fatto potevo solo immaginarlo: essendo così esile e quasi
fragile, non avrebbe avuto la forza di conficcarmi un coltello nella schiena, unica
possibilità di impedire una mia reazione.
Il veleno !!
Certo, avrebbe potuto usare tranquillamente un veleno. Del resto osservandola bene,
in quel suo lungo paludamento nero, poteva essere una fattucchiera o qualcosa di
simile, anche se mi pareva strano che un simile mestiere potesse essere svolto nella
modernissima America. Le chiesi senza alcuna curiosità da quale città
degli USA veniva.
"Salem" disse, per poi aggiungere con un sorriso che mi ricordò
i volti dei sarcofaghi etruschi "la città delle streghe!"
Non so per quale associazione di idee, ma mi venne di colpo alla mente il brasiliano.
Chissà dov'era? Certamente in giro per il paese alla mia ricerca!
Un sottile filo, esilissimo come quello di un ragno, partiva dalla donna che mi
stava di fronte e si allungava fino quell'uomo con la vistosa ferita sul volto ...
Non riuscivo a capirne il ...
"Link ... collegamento" disse lei nel momento esatto in cui formulavo
nella mia testa questa parola. Mi accorsi che a seguito di tutte le emozioni e di
quest'ultimo pensiero, avevo la fronte sudata e avvertivo freddo su tutta la superficie
del viso, che doveva essere, contrariamente al solito, alquanto pallido.
Mi passai una mano sugli occhi, un po' per togliermi quel velo di gelo e un po'
per cancellare quei pensieri che anticipavano la fine mia e di questa maledetta
storia.
La donna che avevo di fronte era ... era ..., non osavo neppure ammetterlo a me
stesso per paura che potesse leggermi per la seconda volta nel pensiero. Una "revenger"
o ... il fantasma di Filomena?!
Mi osservò con l'aria di chi dall'alto dei suoi poteri può disporre
della vita e della morte degli altri, poi lentamente pronunciò queste tre
parole: "Tu ... stare ... male."
Non era una domanda, era una affermazione. "Bevi ... un sorso ..."
aggiunse subito dopo allungandomi una bottiglietta di Gatored con un liquido azzurrognolo.
Rifiutai l'offerta di cui avevo immediatamente colto lo scopo. Avvertii un capogiro
e cercai un appiglio. L'uomo vestito di bianco mi afferrò alle spalle come
un provvidenziale nicodemo e l'ultima cosa che ricordo furono tre volti che si accostavano
a me e un quarto, quello di una giovane donna che mi sorrideva dall'ovale di una
porcellana ingiallita.
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